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		La fornace da mattoni dei Caputi  
		Nell’ambito dell’allivellazione 
		della Tenuta di Vada e al relativo appoderamento (1839), uno dei 
		maggiori assegnatari fu Raffaello Caputi, al quale andarono 363 ettari 
		suddivisi in 27 preselle, con l’obbligo di edificarvi entro il 1843 ben 
		25 case. I suoi terreni, ubicati intorno al Cason Nuovo, erano distanti 
		dalle fornaci del Fine; forse per questo motivo il Caputi decise di 
		costruire una propria fornace sfruttando le argille depositate dal 
		Torrente Tripesce ed il legname delle vicine boscaglie. Il luogo fu 
		scelto lungo lo Stradone della Macchia e, quando nel 1858, dopo 
		l’appoderamento dell’ex-tenuta, furono ridisegnate per la Comunità di 
		Rosignano le nuove mappe catastali relative alla “Sezione F detta di 
		Vada”, vi fu rappresentata anche questa fornace, che tre anni prima era 
		stata così accatastata: “Sotto il vocabolo la Fornace è situata la 
		Fornace di contro, la quale vien distinta coll’appezzamento 702 e serve 
		alla cottura di mattoni e di altro lavoro quadro. L’appezzamento 703 
		rappresenta una loggia con tettoia sostenuta da pilastri, ed una stanza 
		a tetto per uso di fornaciaio” . Dalle dimensioni riportate negli 
		atti catastali doveva trattarsi di un impianto abbastanza grande, che 
		verosimilmente servì non solo ai bisogni edificatori della fattoria 
		Caputi, comprendente la villa padronale al Cason Nuovo (con chiesa, 
		forno, cisterna, e annessi vari) più numerose case coloniche sparse 
		nella zona, ma anche per la costruzione di altri fabbricati rurali 
		dell’appoderamento di Vada. Terminata la sua funzione produttiva venne 
		demolita (non sappiamo quando) per far posto alle coltivazioni e già nel 
		Catasto Fabbricati del 1876 non risultava più censita. Nel luogo dove 
		sorgeva (sulla destra della strada che collega il “Podere La Macchia” 
		con il “Podere delle Pescine”) si rinvengono ancora oggi frammenti di 
		laterizi, coppi ed altro materiale ceramico. 
		 
		(Da "Antiche manifatture del territorio livornese" di Taddei-Branchetti-Cauli-Galoppini, 
		scaricabile dal sito)  | 
      
    
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		Foto 3 - La cappella della Fattoria Tardy-Traverso al 
      Casone, Aurelia sud. A sinistra lo stemma dell'Arcivescovo Angelo 
        Franceschi (1718-1806) della Mensa Arcivescovile Pisana, presente sul 
        lato opposto del fabbricato padronale Caputi, a dimostrazione che la struttura iniziale 
        della costruzione esisteva già prima delle opere di allivellamento e 
        bonifica e quindi degli ampliamenti realizzati dai Caputi.  
		
		 
                                                            
		****** 
		
		  
		Dal Dizionario
      Geografico Fisico Storico della Toscana
      di Emanuele Repetti (1833).
        
         
		        
        « CASONE DEL FITTO DI CECINA, o
      DI VADA.
		 
		Poche rustiche capanne con una maggiore, detta il Casone,
      trovansi fra la bocca di Cecina e il Forte di Vada. 
		Era
      questo Casone abitato dagli stalloni che servivano alla razza dei cavalli
      del Fitto e da altre specie di bestie. - Agli animali sono ora subentrati
      uomini industriosi e nuovi proprietari, i quali incoraggiati da favorevoli
      condizioni nel fatto acquisto del R. Fitto, vanno a ravvivare con
      crescenti abitazioni le rive della Cecina e i contorni del Casone di Vada,
      nel tempo che mutano faccia e cultura a quella già monotona e deserta
      pianura.   Molti
      luoghi della Maremma sono segnalati col nome di Casone, quasi altrettanti
      piccoli casali formati di capanne. Tale è il Casone di Bibbona sulla
      strada Aurelia, quello di Bolgheri, detto il Casone di S. Guido da un
      vicino oratorio, all'ingresso dello stradone di Bolgheri; il Casone di
      Ugolino sotto Castagneto...»
		 (Il 
		Dizionario Repetti è 
        scaricabile dal sito alla sezione Scaricolibri)  | 
      
    
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		 Foto 
		5 - A destra lo stemma della famiglia Caputi che fu fra le più attive 
      protagoniste dell'allivellazione leopoldina. Nei decenni successivi la 
      famiglia si esaurisce e si imparenta con i Tardy che in tempi più recenti 
      fanno altrettanto con i Traverso. Nel secolo scorso i Traverso provvedono 
      a modificare il loro cognome in Tardy-Traverso per non disperdere parte 
      della tradizione familiare.
       (Note verbali rilasciate 
      dall'arch. Ernesto Traverso_Tardy il 21-5-2005)  
      
        
		 
	    
		Nel riquadro in alto a 
      destra si cita:" A ISTANZA DELLA MENSA ARCIVESCOVILE DI PISA E CON IL 
      PERMESSO DEL R.DIRITTO DATO CON LETTERA DEL 20 DICEMBRE 1815 S.E. 
      REVERENDISSIMA MONS.GIROLAMO GAVI VESCOVO TITOLARE DI MILTO E VESCOVO 
      DELLA DIOCESI DI LIVORNO CON DECRETO VESCOVILE IN DATA 4 LUGLIO 1816 SI 
      DEGNAVA CONCEDERE ALLA MENSA ARCIVESCOVILE, L'ORATORIO PUBBLICO AL CASONE 
      NUOVO DI VADA DEDICANDOLO A SAN RANIERI PROTETTORE DELLA CITTA' DI PISA. 
      L'ORATORIO APERTO AL CULTO NEL SETTEMBRE 1816 E BENEDETTO DAL REV.mo DON 
      RANIERI PARADOSSI PIEVANO IN ROSIGNANO MARITTIMO, E' STATO ORA 
      COMPLETAMENTE RESTAURATO E DECORATO DAL PROF.PITTORE ALESSANDRO PERICO DI 
      VILLA D'ADDA (BERGAMO) PER CONTO DELLE ATTUALI PROPRIETARIE FRECCERO MARIA 
      FRANCESCA FU FRANCESCO VEDOVA DI GIOVANNI TARDY E DELLA SIGNORA TARDY 
      CATERINA FU GIOVANNI IN TRAVERSO ALFREDO, NEL SETTEMBRE DELL'ANNO 1954 PER 
      ONORARE LA MEMORIA DEI LORO CARI DEFUNTI - VADA 30 SETTEMBRE 1954.
      Dietro l'altare una microscopica sacrestia. 
      	
        
		 
	    
		Sempre legate al mondo 
      rurale sono anche le "chiesine di fattoria", che i grandi proprietari 
      terrieri costruivano in una parte della villa padronale o nelle sue 
      vicinanze. Oltre ai bisogni spirituali del notabile, queste piccole chiese 
      dovevano servire anche ai bisogni spirituali dei mezzadri e dei braccianti 
      (e delle loro famiglie) che, spesso, l'insediamento polverizzato su podere 
      portava lontano dalle chiese parrocchiali.   | 
      
    
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      Foto 10 -
                                                                                                                
      Notizie su questo mulino sono state 
      raccolte dalle testimonianze del figlio di uno dei due mugnai - i fratelli
      Malerbi (Giovanni e Renzo), nativi di Calci 
      - che vi lavorarono dai primi anni del Novecento fino all'ultimo conflitto 
      mondiale. L'anno di costruzione dell'opificio non è noto per certo 
      sappiamo che nel 1908 il mulino funzionava ancora con l'ausilio del vapore 
      e, dopo un breve periodo di lavorazione "a gas povero" (1914), fu 
      installato un motore elettrico. Nell'edificio della foto dove compare la 
      scritta; "Mulino a vapore", si trovava la 
      caldaia (del tipo Cornovaglia) e le macchine 
      per la trasmissione del movimento che avveniva mediante un sistema di 
      cinghie passanti in una fossa coperta. Il mulino vero e proprio si trovava 
      nell'edificio accanto al precedente dove ancora oggi è possibile vederlo 
      completo in tutta la sua dotazione (foto piccola). L'impianto, che era 
      dotato di quattro palmenti, smise di funzionare fra il 1950 ed il 1960. In 
      origine dotato di macine, il mulino venne successivamente rimodernato e 
      trasformato in "mulino a cilindri", ma la qualità delle farine prodotte 
      con il nuovo sistema non era di gradimento ai contadini della zona ed i
      proprietari si videro costretti a 
      ripristinare le macine tradizionali. Con l'avvento dell'elettricità la 
      ciminiera dell'impianto a vapore fu demolita ed i mattoni usati per 
      ampliare la casa del vicino podere di S. Caterina. L'immobile che ospita 
      il mulino è attualmente di proprietà dell'Arch. 
      Ernesto Traverso, erede della famiglia Tardy 
      che nel 1876 possedeva in Vada la Fonderia. 
		 (Da: "Strade di pietra, vie d'acqua e di vento" di Giuseppe Milanesi e  
      Roberto Branchetti)  
                                           
		****** 
		 
	                        
		Il mulino dei Due Casoni 
		di Luciano Malerbi (classe 1933) 
      Era mio zio Renzo, il fratello di mio padre, che portava avanti il lavoro 
      del mulino. L'attività dei mulini era ininterrotta e indispensabile, tanto 
      che i mugnai, come altre categorie di lavoratori, ad esempio i fabbri, 
      erano stati dispensati dal sevizio militare, anche in tempo di guerra.  
      C'era così tanto da fare che mio zio chiamò ad aiutarlo anche mio padre. 
      La mia famiglia, infatti, abitava a Livorno, dove mio padre faceva 
      l'esattore del gas. La società per cui lavorava forniva il gas anche alla 
      Curia. Ricordo che di tanto in tanto, alla domenica, il babbo mi diceva: 
      "Vieni andiamo in duomo a veder se si riscuote qualcosa". In duomo cercava 
      don Ciabatti, che era stato parroco di Vada e poi era diventato canonico 
      della cattedrale. Don Ciabatti il più delle volte rispondeva a mio padre: 
      " Giovanni, torna un'altra volta: ora non ho soldi abbastanza". Quando don 
      Ciabatti dovette lasciare Livorno a causa dei bombardamenti, sfollò da 
      noi, al mulino. Mio padre infatti aveva accettato la proposta del fratello 
      e tutta la mia famiglia si era trasferita a Vada, al mulino dei Due Casoni. 
      In tempo di guerra, mio zio e mio padre hanno cercato di aiutare il più 
      possibile la gente di Vada e di altri paesi. Come? Macinavano di nascosto, 
      con grave pericolo se fossero stati scoperti. Chi coltivava e produceva 
      doveva portare tutto il raccolto all'ammasso statale. Le granaglie 
      raccolte all'ammasso erano destinate al resto della popolazione e alle 
      truppe. Invece si seppe che furono anche lasciate marcire...I contadini 
      produttori potevano macinare una sola volta e solo la quantità di grano 
      prescritta dal tesseramento. Portavano al mulino il quantitativo 
      consentito che veniva regolarmente macinato e registrato. Ma in quei tempi 
      di fame e di penuria si cercava anche di arrangiarsi un po', sottraendo 
      qualcosa all'ammasso. Perciò si faceva ritorno al mulino per macinare 
      ancora: questo era assolutamente vietato e comportava un grosso rischio. I 
      controlli erano frequentissimi. Veniva un tale da Livorno. Arrivava in 
      motocicletta, una Guzzi. Noi del mulino, quando si macinava di nascosto, 
      mettevamo due sentinelle: una sull' angolo dell' Aurelia e l'altra sulla 
      strada interna, quella che dal Ponte dei Fichi arriva ai Due Casoni. 
      Allora, di motociclette non ce n'erano tante, così il rombo del motore si 
      sentiva già da lontano e la sentinella gridava: "Arriva!!" Quel 
      controllore non era però "irreprensibile"!! Non disdegnava delle belle 
      "mangiate". Mia madre ogni tanto ammazzava un coniglio o un pollo e lo 
      invitava a restare a pranzo. Ci mettevamo a tavola e lui prendeva il 
      vassoio comune e, giù, versava tutto il contenuto nel suo piatto. Noi 
      tutti a guardarlo con due occhi così. Allora lui diceva: "Ne volete?" ma 
      mio padre rispondeva:"Fate, fate! Noi abbiamo già mangiato!". Poi quello 
      chiedeva il pane e, con un po' di furbizia, mia madre ne metteva in tavola 
      pochissimo che finiva subito: "Non ce n'è più?" chiedeva l'ospite. "E' 
      quello che abbiamo: sa, con la tessera...". Anche qualche contadino 
      riusciva corromperlo così, sacrificando vassoiate di prosciutto e mettendo 
      in tavola poco pane per ottenere il permesso di macinare qualcosa in più, 
      oltre al consentito dal tesseramento...Dobbiamo ricordare che i 200 grammi 
      di pane a testa consentiti, nel giugno del 1941, allorché iniziò il 
      razionamento, già nel marzo del '42, erano calati a 150 grammi. E oltre al 
      pane c'era ben poco con cui sfamarsi.
      
      (Da: Quaderni Vadesi n°12 - Vada 
      1940-1945 un tempo segnato dalla guerra p.72)  |