LE FORNACI
Nell’area
di Vada è segnalata l’esistenza di numerose fornaci da ceramica
risalenti principalmente al periodo romano (località: Galafone, La
Valle, Stradone del Lupo, Vallescaia, Mazzanta, ecc.). La loro presenza
fu certamente favorita dalla facile reperibilità delle materie prime (in
primis argilla), ma anche dalla buona commercializzazione dei prodotti
finiti attraverso il porto di Vada Volaterrana (in località San Gaetano
sono ancora in corso scavi archeologici relativi all’area portuale) e
dal sistema di "villae rusticae" sparse nella campagna circostante.
Un’interessante raccolta di bolli, con i nomi degli artigiani romani che
fabbricarono alcune di queste ceramiche, è conservata nel Museo
Archeologico di Rosignano Marittimo. Relativamente al Medioevo non si
conoscono segnalazioni e neppure siti di fornaci appartenenti a tale
periodo. Nel Cinquecento gli Estimi dell’epoca riferiscono di un
toponimo, “Tegoleta”, individuabile nell’area del Galafone nei pressi
della foce del Fiume Fine, che sembrerebbe richiamare un particolare
tipo di produzione. Varie manifatture fittili, ubicate in vicinanza dei
principali corsi d’acqua della zona (Fiume Fine e Torrente Tripesce),
furono invece attive nei secoli XVIII-XIX e produssero laterizi
necessari all’edilizia locale che, congiuntamente alla bonifica delle
paludi e ad un intenso disboscamento per la messa a coltura di nuove
terre (anni quaranta dell’Ottocento), conobbe in questa parte della
Maremma Settentrionale una prolifica fase di sviluppo con la costruzione
di numerose case coloniche e del villaggio di Vada.
La localizzazione delle fornaci rispondeva all'esigenza di contenere i
costi di trasporto sia dei prodotti finiti sia delle materie prime. Per
questa ragione si preferiva costruirle vicino ai manufatti da realizzare,
in prossimità di strade carrabili e, soprattutto, dove c'era disponibilità
di legname, acqua, argilla (per i mattoni) e pietra calcarea (per la
calce). Le fornaci riportate sui plantari del 1795 e quelle registrate nel
Catasto del 1823 sono tutte scomparse; restano testimonianze di fornaci
presenti all'impianto del Catasto Fabbricati (1876), tra le quali: a Castelnuovo della M.dia quella "da calce" di Potenti Stanislao e quella a
mattoni ("Fornace a due forni") di Cuneo Aleandro, ai Polveroni di Vada.
L’attività estrattiva nelle cave e la produzione di mattoni e calcina
nelle fornaci sembra così essere stata assai notevole nel Piano di
Livorno. Senza dubbio dovette rappresentare la maggiore attività
industriale presente al di fuori della città fino a tutto il secolo
XVIII.
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Fornace romana del Galafone
Recentemente, in
seguito ai lavori agricoli condotti su alcuni terreni posti fra il Fiume
Fine e il fabbricato diroccato del podere Galafone, in un’area di circa
300 mq, sono venuti alla luce frammenti di anfore, resti di ceramica mal
cotta, distanziatori di fornace e terra rossa bruciata. La tipologia dei
reperti sembra testimoniare la presenza di un quartiere artigianale di
età romana. Un aspetto interessante, ai fini della ricerca, è
rappresentato dal fatto che il sito si trova a breve distanza da altre
fornaci contemporanee, anch’esse ubicate nei pressi del Fiume Fine (Tavv.
IV,2-V,2-VIa,2). Si intuisce, pertanto, come lo sfruttamento della
coltre argillosa depositata dal fiume, in questa zona, si sia protratta
per secoli.
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Fornace dei Billi
La fornace dei Billi, accatastata fin dal 1884, era ubicata sul lato
destro della Via di Vada al guado sul Fine, fra la fornace di Lemmi
Pellegrino e quella “diruta” del Cason Vecchio. Si trattava di una
“Fornace da mattoni”, di piani 1 e vani 1, intestata a Billi Cesare fu
Mosè, che solo pochi anni più tardi risultava già demolita per decisione
della Commissione Mandamentale di Rosignano. Nel 1904 un nuovo stato di
cambiamento provvedeva ad aggiornare la destinazione dei terreni in
precedenza occupati dall’opificio. Sulla base dei documenti fiscali
sembra che nello stesso sito, forse mediante un recupero delle strutture
superstiti, nel 1914 sia stata realizzata dai Foraboschi (nuovi
proprietari) una “Fornace da calce”. L’area dove sorgeva il manufatto è
oggi occupata da edifici di recente costruzione.
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Fornace del Cason
Vecchio
Fornace da mattoni del Cason Vecchio. L’unico riferimento dell’esistenza
di questa fornace è dato da una rappresentazione cartografica nella
mappa catastale del 1823, dove in sinistra idraulica del Fosso Ricavo,
poco prima della sua immissione nel Fiume Fine, è disegnata una “Fornace
diruta”. L’ubicazione del sito, molto vicino ad altre fornaci da mattoni
ottocentesche costruite nella zona, sembra non lasciare dubbi sul tipo
di prodotto lavorato: quasi certamente si trattava di laterizi. La
produzione doveva servire alla Mensa Arcivescovile di Pisa, proprietaria
della grande Tenuta di Vada, per costruire le prime case coloniche (1815
circa) in quelle aree della tenuta dove sussistevano condizioni
ambientali più favorevoli per le coltivazioni dei terreni e
l’insediamento stabile (poderi Valloncino, Sassicaia, ecc). Il sito dove
sorgeva la fornace è oggi chiuso da un recinto e non è stato possibile
eseguire indagini di campagna.
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Fornace da mattoni dei Caputi
Nell’ambito dell’allivellazione della Tenuta di Vada e al relativo
appoderamento (1839), uno dei maggiori assegnatari fu Raffaello Caputi,
al quale andarono 363 ettari suddivisi in 27 preselle, con l’obbligo di
edificarvi entro il 1843 ben 25 case. I suoi terreni, ubicati intorno al
Cason Nuovo, erano distanti dalle fornaci del Fine; forse per questo
motivo il Caputi decise di costruirsene una propria, sfruttando le
argille depositate dal Torrente Tripesce ed il legname delle vicine
boscaglie. Il luogo fu scelto lungo lo Stradone della Macchia e, quando
nel 1858, dopo l’appoderamento dell’ex-tenuta, furono ridisegnate per la
Comunità di Rosignano le nuove mappe catastali relative alla “Sezione F
detta di Vada”, vi fu rappresentata anche questa fornace, che tre anni
prima era stata così accatastata: “Sotto il vocabolo la Fornace è
situata la Fornace di contro, la quale vien distinta coll’appezzamento
702 e serve alla cottura di mattoni e di altro lavoro quadro.
L’appezzamento 703 rappresenta una loggia con tettoia sostenuta da
pilastri, ed una stanza a tetto per uso di fornaciaio”. Dalle dimensioni
riportate negli atti catastali doveva trattarsi di un impianto
abbastanza grande, che verosimilmente servì non solo ai bisogni
edificatori della fattoria Caputi, comprendente la villa padronale al
Cason Nuovo (con chiesa, forno, cisterna, e annessi vari) più numerose
case coloniche sparse nella zona, ma anche per la costruzione di altri
fabbricati rurali dell’appoderamento di Vada. Terminata la sua funzione
produttiva venne demolita (non sappiamo quando) per far posto alle
coltivazioni e già nel Catasto Fabbricati del 1876 non risultava più
censita. Nel luogo dove sorgeva (sulla destra della strada che collega
il “Podere La Macchia” con il “Podere delle Pescine”) si rinvengono
ancora oggi frammenti di laterizi, coppi ed altro materiale ceramico.
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Fornaci da mattoni
dei Polveroni. Fornace di Meucci Ridolfo, poi fornace del Dottori
Sulla cartografia corrente, in località Polveroni, fra il Fiume Fine e
lo stabilimento “Ecomar”, è ancora riportato il toponimo “Fornace”. La
ricerca ha evidenziato che si trattava di una “Fornace da mattoni”, che
il Catasto Fabbricati del 1876 censiva, con una consistenza di piani 1 e
vani 2 (ma con numero di particella errato), fra i beni di Meucci
Ridolfo (di Niccola), proprietario anche di una fornace da calce alla
Maestà (v. Fornaci di Rosignano M.mo). Nel 1884 l’impianto, che
produceva laterizi, passava per successione ereditaria al figlio Silvio
(mentre quello per la cottura della calce, alla Maestà, al figlio
Albano). Nei registri fiscali di quell’anno è riportato il numero di
particella corretto, dal quale è stato possibile risalire alla precisa
collocazione territoriale dell’immobile che è ancora esistente, ma con
una diversa destinazione d’uso (abitazione). Nel 1901 la fornace veniva
venduta a Pierattelli Francesco e da questi a Dottori Raniero fu
Giovanni, che, ancora nel 1928, la possedeva insieme ad una “fabbrica di
mattonelle in cemento” (un capannone a piano terreno di due vani). Non
abbiamo notizie certe di quando la manifattura abbia cessato di
funzionare, poiché le testimonianze ivi raccolte sono discordi
nell’attribuire la fine dell’attività produttiva a poco prima o subito
dopo l’ultima guerra.
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La fornace di Lemmi Pellegrino
Sebbene i documenti
d’archivio non specifichino il tipo di prodotto che veniva cotto nella
fornace dei Polveroni, testimonianze raccolte in loco confermano che la
fornace produceva mattoni; del resto la sua ubicazione vicino al Fiume
Fine, dove altre fornaci di quel tipo sono state censite, non lascia
dubbi in proposito. Lemmi Pellegrino fu uno dei diciotto livellari che,
in seguito al bando del 1839, si spartirono la grande tenuta di Vada di
proprietà dell’Arcivescovato pisano. Egli fu assegnatario di tre
appezzamenti di terreno in località Polveroni, sui quali costruì quattro
edifici; uno di questi, come risulta dall’accatastamento del 1845, era
la fornace. Gli altri avevano i n° 18-19-21. Su quest’ultimo
appezzamento costruì una casa con la seguente iscrizione: “Podere de
Beveragnoli condotto a livello da Pellegrino Lemmi e dal medesimo fatta
edificare la casa l’anno d.s. MDCCCXLI”. Il Catasto Fabbricati del 1876 la censiva come “Fornace a
due forni con due stanze annesse”, con una consistenza di piani 2 e vani
5, fra le proprietà di Cuneo Aleandro. Nel 1918 l’impianto veniva
comprato da Lazzero Lazzeri e nel 1924 da Catarsi Attilio. L’opificio
era posto lungo la “Via di Vada”, sul lato sinistro della strada che
scende al guado sul Fiume Fine. Testimonianze raccolte in loco
riferiscono che la fornace già prima della guerra non era più
funzionante. Oggi l’edificio è adibito ad altri usi, ma al suo interno
sono ancora riconoscibili le due bocche da fuoco che ne provano
l’originaria funzione.
Da "Antiche manifatture del
territorio livornese" di Taddei-Branchetti-Cauli-Galoppini,
scaricabile dal sito)
Oggi la vecchia fornace a
mattoni che dava lavoro agli inizi del '900 a diversi addetti è
diventato un caseggiato dove vivono sei famiglie. Questa la breve
cronistoria del secolo scorso: negli anni 20/30 fu acquistata dalla
famiglia Catarsi (con il ristorante omonimo) che la riadattarono a casa
colonica costruendovi stalle per bovini e magazzini. Negli anni 50 il
fabbricato fu venduto alla famiglia Abate proveniente dalla provincia di
Trapani e successivamente la proprieta' fu suddivisa in particelle con
diversi proprietari (i quattro fratelli Abate) di cui tre emigrati in
Canada. Rimase una quarta sorella con una particella poi ampliata,
mentre il restante fu comprato dalla famiglia Rugi (siculo/abruzzesi) e
dopo varie modifiche una particella fu venduta alla famiglia Bandini di
Pisa e altre a tre famiglie fiorentine (Cucchi/ Ambrosini/Sacchi) che
oggi hanno ampliato e modificato l'insieme.
(Per gentile concessione di
Andrea Mariottini ) |