Don
Antonio
Vellutini nacque a Lucca il 9 settembre 1910,
penultimo figlio di Olinto e di Maria Domenica Fiori. Olinto quarantenne, parte volontario per la grande guerra nel 1915 e torna
ferito gravemente meritandosi una medaglia d’argento e di bronzo al valore. Riesce a riprendere il suo lavoro alla Manifattura Tabacchi di
Lucca e sarà importante guida politica, religiosa e morale per il figlio Antonio.
Negli primi anni '20, rifiuta il fascismo ritenendolo, una rovina per il Paese.
Muore nel 1926. La giovinezza di Antonio passa tra la parrocchia ed il
convento dei Frati Minori: in questo periodo nasce la sua vocazione al
sacerdozio.
Terminati gli studi liceali entra in Seminario dove trova un ambiente
antiquato e bigotto che lo mette in difficoltà. Si appassiona a quella parte
di letteratura e filosofia che la congregazione del Sant’Uffizio aveva da
anni posto all’Indice. Sopraggiungono noie di carattere politico ed i
superiori del Seminario per non trovarsi in difficoltà con il regime,
decidono per l'espulsione dato che la maggior parte del clero osannava il
fascismo almeno nella fase iniziale. Dopo un periodo di “confino” a Montalto
Uffugo in Calabria, si iscrive all’Università di Roma. Termina gli studi entrando in Congregazione
religiosa; si laurea a Roma
nel '38, prima in materie letterarie, poi in filosofia ed
infine intraprende gli studi “utriusque juris”
all’Università Lateranense.
Ordinato sacerdote il 24 aprile dello stesso anno, prima di
giungere nella Diocesi di Livorno (a Vada dal 1943) ha girato
gran parte d'Italia in veste
di studente. Poi, come
insegnante, tra Orvieto e Piombino, tra Cecina (insegnando al magistrale
Sacro Cuore) e Livorno dove ha concluso la sua carriera dietro la cattedra.
Ad inviarlo nelle prioria vadese, è il vescovo Piccioni. Un
prete particolare, una personalità cristallina e coriacea, una formazione
culturale di tutto rispetto, una avversione verso ogni tipo di tirannia. Il
suo antifascismo, ereditato dal padre gli causò non poche noie. Nel
1941 ottiene una cattedra di insegnamento (italiano, latino, storia e
filosofia) al liceo scientifico di Piombino. Il
14
febbraio 1943 viene “incardinato” nella Prioria di Vada e continua
l’insegnamento alle Magistrali di Cecina.
Per quasi 40 anni ha insegnato lettere e religione nelle scuole del
livornese.
Partigiano e antifascista, ha comandato il locale Comitato di
Liberazione Nazionale; dopo la guerra ha ricoperto anche incarichi civili: dal
'44 al '46 è stato vicesindaco del comune di Rosignano, prima con Tullio Secchi e
poi con Dardo Dardini sindaci. Nel 1998 la consacrazione ufficiale,
religiosa e civile: in occasione dei 60 anni del suo sacerdozio, gli viene
consegnata la medaglia d'oro per l'attività partigiana.
Resta parroco di Vada fino a metà degli anni Novanta, congedandosi come
parroco onorario e qui è morto il 25 luglio 2002. E' sepolto nel cimitero
locale. 529 cittadini hanno sottoscritto una petizione a favore della
tumulazione nella chiesa di Vada, che
è stata inviata a mons. Diego Coletti, Vescovo di Livorno, a mons. Paolo
Razzauti Vicario generale, a don Mario Nowakosky parroco di Vada e al
sindaco G. Simoncini, che ha dovuto lasciare la decisione alla comunità
religiosa.
*****
Cinque caccia inglesi bloccarono il treno e provocarono un fuggi fuggi
generale con morti e feriti
Vada e Sassetta sono state indicate come sedi del “Giorno della memoria”
2005 per ricordare il contributo dato nel 1944 dagli abitanti di Vada e dal
sacerdote don Antonio Vellutini, medaglia d’oro al valore partigiano, per
salvare la vita a 19 bambini dell’orfanotrofio ebraico di Livorno in età fra
7 e 18 anni, alcuni orfani, alcuni figli di matrimoni misti tra italiani ed
ebrei, ospitati a Sassetta. Nel gennaio 1943 la Comunità israelitica di
Livorno decise di sfollare il suo orfanotrofio in una villa di Sassetta,
in località Poggio, di proprietà del signor Biasci, segretario del locale
fascio. La vita nell’istituto diretto dalla signora Olga Coen Castiglioni
coadiuvata dalla maestra Luciana Archivolti (ebree) e da Stefania Molinari e
Palmira Fenzi (cattoliche) si svolgeva abbastanza tranquilla anche se non
arrivavano più le rimesse dalla Comunità israelitica livornese alla quale
erano stati confiscati tutti i beni. Il 5 giugno 1944 inizia il dramma di
questi bambini, quasi tutti denutriti e malridotti. Inutile il tentativo del
segretario del fascio Biagi verso il podestà von Berger per sottrarre i 19
bambini al destino che li attendeva. Il giorno dopo verso le 11 su di un
camion scortati da due carabinieri (Pilade Barsotti e Rolando Calamai) i
bimbi dell’istituto, da Sassetta partirono per Vada. Il camion imboccò i tornanti che dalla vetta di Sassetta portano
giù verso il mare e in due ore si arrivò a Vada, da dove il viaggio della
morte sarebbe proseguito in treno. Non si poteva stare alla stazione, era
pericoloso e proibito. E così i ragazzi furono portati in una trattoria, ad
aspettare. L'attesa fu breve. Verso le 16 a piedi, fagotti alla mano, il
gruppetto serrato dei ragazzi si avviò verso la stazione, dove arrivarono
giusto in tempo per assistere a un bombardamento. Gli alleati erano a nord
di Grosseto e battevano senza risparmio le retrovie del fronte. Sulla
stazione cadevano spezzoni, ma i ragazzi non furono presi dal panico. In
fila dietro alla direttrice, i più grandi per mano ai più piccoli, i
carabinieri guidarono il gruppetto lontano dal pericolo. E il treno, visti i
danni, non fu fatto partire. Dove passare la notte? Alberghi nel paesino non
ce n'erano e le case erano invase dai tedeschi. Unico rifugio, la trattoria.
L'oste non si tirò indietro, mise in tavola qualcosa per calmare la fame e
poi tavoli e sedie diventarono tanti letti. «Dormii, mi ricordo bene, su un
biliardo - racconta Ugo Bassano - ero così stanco ed emozionato che caddi in
un sonno profondo. A dieci anni si può dormire anche sui sassi». Alle dieci,
la mattina dopo, i ragazzi erano di nuovo alla stazione di Vada. Il treno
per Collesalvetti era pronto, motrice, due vagoni passeggeri e un vagone merci carico di fieno
che nascondeva munizioni tedesche. Tornarono gli aerei, ci fu un fuggi fuggi
dalla stazione, ma dopo mezz'ora i bambini furono fatti salire in carrozza.
Il treno si mosse lentamente. Aveva appena fatto cinquecento metri, quando
giù dal cielo piombarono cinque velocissimi caccia. «Questa volta - ricorda Bassano - pensai che per noi fosse la fine». A bassissima quota i cinque
caccia passarono e ripassarono, mitragliando. Ci furono subito dei morti, il
frenatore e il macchinista. Il treno si arrestò, i ferrovieri fuggirono e i
ragazzi, con direttrice e carabinieri, si gettarono in un fossato che
correva lungo il binario. Mentre il bombardamento continuava, Olga
Castiglioni contò e ricontò i ragazzi. C'era tutti (anche i carabinieri),
anche se la piccola Ines era stata colpita dai vetri in frantumi e la
graziosa Maura aveva riportato ferite più gravi. Scorreva il sangue,
qualcuno piangeva, tutti erano atterriti. E in quel silenzio irreale,
assordato da bombe e mitraglia, uno dei ragazzini, studente del collegio
rabbinico, alzò gli occhi al cielo e disse a voce alta la preghiera dei
padri: «Sheman Israel, Adonai Eloenu Adonai Ehad (Ascolta Israele, l'eterno
è il tuo Dio, l'eterno è uno). I ragazzi in coro - guidati dalla direttrice
- risposero ad una voce: «Baruh shem chebod Malhutò lenolam Vaned»
(Benedetto il nome glorioso del suo regno, per sempre). In quel fossato, la
preghiera del risveglio e della sera sciolse l'emozione e si pianse di gioia
per lo scampato pericolo.
Da questo momento entra in azione don Vellutini che dopo ogni incursione
aerea raggiungeva sempre la stazione con alcuni volontari per assistere
eventuali feriti e portare aiuto.
Anche questa volta inforcata la bici, si diresse alla ferrovia e senza
perdere tempo riunisce i bambini, li porta
in paese, li fa dormire la prima notte sui biliardi e sui tavoli di marmo
del bar Impero, sotto le logge, ma il giorno dopo li affida a famiglia
contadine (un bambino lo prende lui stesso in canonica, Sigfrid Libson,
ebreo tedesco) per nasconderli da possibili rastrellamenti dei tedeschi e
dato che era il Venerdi Santo volle partecipassero anche alla processione in
paese. I
19 bambini di Sassetta sono così al sicuro. Fu come uscire da un tunnel.
Sempre lui don Antonio Vellutini, un cuore grande, un coraggio da leone,
segretamente partigiano, poco tempo prima, aveva tenuto testa ai tedeschi
offrendosi al posto di alcuni civili in procinto di essere fucilati. Ed era
riuscito a salvarli. Ora la sua ala protettrice si allungava sui piccoli
orfani ebrei. I carabinieri non sapevano cosa fare. Chiesero
insistentemente alle autorità di Sassetta di riportare indietro i ragazzi,
ma non ci fu nulla da fare. A tutti i costi dovevano raggiungere Livorno e
poi il campo di smistamento tedesco di Fossoli (Modena), destinazione
Auschwitz. E così con un camion della Todt (l'organizzazione del lavoro
forzato tedesco) i
bambini furono portati a Livorno, e alloggiati nella scuola Carducci
all'Ardenza, nelle grandi aule deserte. Sette giorni durò l'attesa. Nessuno
sapeva cosa fare. Fu così che la ferrea logica nazista finì per
sbriciolarsi. Alcuni tra i più grandicelli riuscirono a scappare, altri, che
erano nati da matrimoni misti, vennero riconsegnati ai familiari che, saputi
i fatti, avevano insistito con la Prefettura (allora il capo era il
famigerato FacDouelle) per la loro liberazione. «Mia madre era cattolica, e
così fu mio zio Armando, nonostante il grande pericolo che gravava su di
lui, che venne a prendere me e mia sorella Luciana - ricorda Ugo Bassano -
Lui era sfollato a Vicarello e là ritrovai anche il mio fratellino Emilio.
Tutto avvenne come in un sogno. La famiglia salva e unita, in una comunità,
quella ebraica livornese, che subì lutti e perdite gravissime nei lager».
Così si misero in salvo una decina di ragazzi. E gli altri? Per gli altri
l'ordine di proseguire per Fossoli restava perentorio. Ma nello sfaldamento
del fronte, con gli alleati alle porte, i carabinieri presero una decisione.
Il comandante della compagnia da cui i due bravi carabinieri, Barsotti e
Calamai, dipendevano pose loro una alternativa con una sola risposta:
portare i ragazzi a Fossoli o, se non era possibile, riportarli a Sassetta».
Il ritorno a Sassetta fu una liberazione per tutti.
Qui furono ospitati fino all’arrivo delle truppe alleate dal parroco don
Carlo Bartolozzi, altro sacerdote fieramente antifascista a lungo
perseguitato dal regime. Ma
presto, molto presto, ogni pena finì, con l'arrivo degli
alleati. Le cronache dell'epoca segnalano che i ragazzi vennero presi in
consegna dal cappellano ebraico della V Armata Aron Pepperman. L'odissea del
gruppetto di bambini ebrei perseguitati si era conclusa felicemente. Solo
uno imboccò il tunnel della morte. Il piccolo Benito Atthal. Aveva appena
dieci anni. Taciturno, le sofferenze e i traumi della guerra e delle
persecuzioni l'avevano profondamente scosso, «tanto che - ricorda con pietà
Ugo Bassano - era diventato incontinente. A dieci anni, infelice». Lui non
era di sangue misto, non aveva pensato a fuggire. La mamma era andata a
prenderlo alla scuola di Ardenza. L'avevano sconsigliata: «Ti prenderanno
con lui...». «Ma lui è mio figlio, dove va lui vado io», ricorda con un filo
di voce Ugo Bassano di aver sentito raccontare, dopo, dai più vecchi. E fu
così che dalla stazione di Livorno partì un treno per Fossoli, con il
piccolo Atthal e sua madre. Un viaggio senza ritorno. Bisogna leggerla, la
lista della gente di Livorno, Pisa, Lucca, Firenze. Esistenze come quella
della piccola Gigliola Finzi, che i suoi quattro mesi non hanno salvato
dall'orrenda strage.
(Sintesi da alcuni
articoli de "Il Tirreno" 1999)
******
Don Vellutini nel primo dopoguerra
1944 -
Anche nell'immediato dopoguerra emerge la figura di Don
Antonio Vellutini eletto vicesindaco. Nei giorni
successivi alla liberazione di Rosignano Marittimo, quindi
ai primi di luglio del 1944, essendo il paese di Rosignano,
quasi completamente distrutto dai bombardamenti, come prima
sede della nuova amministrazione comunale viene utilizzata
la canonica di Vada, messa a disposizione dal parroco,
mentre sindaco viene nominato Tullio Secchi di Caletta (vedi
biografia sindaci) e vicesindaco don Antonio, già presidente
del Comitato di Liberazione Nazionale, che alterna così le
sedute della Giunta a messe e funerali. Rimane in carica
anche nella Giunta successiva (sindaco Dardo Dardini) fino
al ‘46 quando, unitamente ad altri preti della Diocesi,
decise di tornare ad occuparsi a tempo pieno delle anime. Il paese era diventato
una specie di quartier generale della Provincia in attesa
della liberazione di Livorno: infatti qui si fermò il
Comando dei Partigiani del Comandante Livio Frangioni e
Furio Diaz, poi Sindaco di Livorno, ebbe la più cordiale
assistenza durante una sua malattia in Casa Cianchi.
Con gli alleati
arrivò subito l'aiuto alla popolazione e in particolare per
opera del Mgg. Kait il Comune di Rosignano fu uno dei più
fortunati. Si ebbe una larga distribuzione di viveri
completamente gratuiti alla popolazione ed assistenza in
tutti i campi specialmente con la distribuzione di
disinfettanti per ostacolare eventuali malattie.
Il parroco si recò poi a compiere un ‘opera veramente
caritatevole nel paese di Rosignano per la tumulazione dei
cadaveri e per il loro riconoscimento, in questa opera fu
aiutato da una squadra di vadesi che al comando dell’Ing.
Aldo Morelli ebbero cura di bruciare molti cadaveri che era
assolutamente impossibile trasportare al Cimitero. Il paese
di Rosignano M.mo era una rovina completa: la Chiesa
squarciata, le case semidistrutte o lesionate, completamente
disabitato suscitava un ‘impressione tremenda. Dopo la
liberazione di Livorno cominciò a tornare una calma relativa
ed il Comune fu trasferito a Rosignano Solvay, partì
l‘ospedale da campo che si era installato nella Caserma
della R. Guardia di Finanza.
(Dal "Memoriale A"-
Archivio parrocchia di Vada)
******
«Il futuro? Ho rinnovato la patente fino al 2002» «Vada? Ora è più brutta»
Tra
le cose se non impossibili, per lo meno molto difficili, c'è quella di
intervistare don Antonio Vellutini. Come si fa a intervistare un torrente in
piena, a chiudere nello stretto recinto del domanda e risposta un vulcano
scoppiettante di idee, associazioni fra fatti della vita quotidiana e
riferimenti storici, aneddoti, gravi riflessioni filosofiche e trancianti
giudizi che non ammettono replica? Don Antonio Vellutini, per oltre mezzo
secolo parroco di Vada, oggi compie 90 anni. «Dall'alto di questa età - dice
mentre l'intervista si trasforma subito in una sorta di monologo, circondati
da montagne di libri che affollano la sua casa - mi piace guardare con un
certo distacco ai fatti che succedono e a quelli successi in passato». Un
distacco che non significa certo disinteresse o mancanza di passione. Anzi.
Questa sorta d'intangibilità data dall'età rende i suoi slanci - sempre
critici, polemici, mai ipocriti o accomodanti - ancora più taglienti, anche
caustici, sempre e comunque supportati da convinzioni fermissime e da una
cultura vasta quanto aggiornata. «Ho sempre detto in faccia quello che penso
e ho sempre chiamato pane il pane e vino il vino». E questo che si parli di
politica, di Chiesa, di letteratura o di fatti paesani. Qualche esempio del
don Vellutini-pensiero versione 2000? Eccoli. Destra. «Non sopporto le
divisioni, i settarismi ideologici. Per fare un esempio, le polemiche sui
giovani morti combattendo per la Repubblica di Salò. Non erano diversi dai
loro coetanei che combattevano dall'altra parte. Erano cresciuti con quelle
idee, non potevano fare diversamente. Mi piacerebbe che si fosse fatto come
in Francia e su tutte le loro tombe fosse stato scritto semplicemente "morto
per la patria"». Sinistra. «Nel '48, quando ci fu la famosa condanna del
comunismo, io non la lessi in chiesa; mi vergognai. Forse fui uno dei pochi
in Italia. Ebbi anche dei rimproveri, ma non la lessi. Chi è il comunista? E
uno che ha una fede politica e io credo nella libertà. Per me è ancora
valido il principio "libera Chiesa in libero Stato"». Berlusconi. «Diceva
Churchill che "il regime parlamentare è il peggiore dei regimi, ma non ce
n'è uno migliore". Meglio litigarsi, ma nella democrazia, nel rispetto delle
idee altrui. Per questo non sopporto Berlusconi, indipendentemente dalle sue
idee politiche, perché è un prepotente, è un ducetto in ventiquattresimo».
Pio IX. «La beatificazione? Mah. Bisogna dire che le critiche sono venute
soprattutto sul ruolo storico di questo papa. E in questo senso pochi hanno
ricordato che Pio IX non ebbe un segretario di Stato di valore, come può
essere stato Casaroli per Giovanni Paolo II nell'affrontare il problema del
rapporto con il blocco comunista. Insomma, Pio IX fu poco abile a gestire
secolarmente il problema dell'unità d'Italia e rimase come ingabbiato fra
questa sua pochezza politica e la mancanza di un valido segretario di
Stato». I Savoia. «Ancora oggi non riesco a perdonare a Vittorio Emanuele
III di non essere morto da re cercando d'impedire la guerra fratricida
scoppiata dopo l'8 settembre del '43. Per il ritorno dei Savoia oggi in
Italia, invece, è una cosa che non capisco. Che male possono fare? E una
forma di revanscismo stupida; oramai di monarchici sono rimasti pochi vecchi
nostalgici, la monarchia è morta e sepolta, così come l'opera lirica:
appartengono tutte e due a un'epoca finita». La letteratura. «Leggo ancora
moltissimo, ma ultimamente mi capita certa roba, li chiamano romanzi,
vincono anche premi importanti, ma un ragazzino del liceo scrive così. Io
sono rimasto al "Mulino del Po" che forse è l'ultimo romanzo scritto bene in
italiano; perché anche Moravia è pesante. Anche i poeti in Italia sono
finiti da tempo». Caro petrolio. «E chiaro che la colpa è di quelle tre o
quattro compagnie che egemonizzano il mercato. Io direi di fare una specie
di sciopero. Per tre o quattro giorni nessuno dovrebbe comprare la benzina,
vedreste che il prezzo calerebbe subito. E che non si può perché la benzina
ormai è diventata come il pane e loro se ne approfittano. Questo è il
capitalismo: un continuo ricatto, siamo succubi di tutto». I preti. «Quello
che non mi piace del clero d'oggi è che non ci sono più differenziazioni. Un
prete oggi non lo riconosci più, sia per come si vestono - va bene il clargy
man, ma un segno di distinzione ci vuole - sia per quello che fanno. Ci sono
preti sindacalisti, preti che fanno i politici e mi pare ci siano sempre
meno preti che fanno i preti, cioé che pregano». Vada. «Eh Vada. Vado poco
in giro per il paese perché tutti mi fermano per parlare e non sempre ne ho
voglia. Se esco per camminare voglio camminare e per il paese mi è
impossibile. E poi ora Vada è più brutta, non mi piace come hanno snaturato
la piazza, quei marciapiedi enormi, quella stradina stretta, le auto
parcheggiate sotto i platani, la chiesa rinchiusa in quell'impalcatura che
chissà quanto resterà là. Preferisco andare a passeggiare in campagna». Il
futuro. «Si vive un'epoca di transizione tra un millennio che è finito e uno
che comincia, ma non saprei dire se il futuro sarà migliore o peggiore. Io
intanto ho rinnovato la patente fino al 2002, l'ho fatto più per dispetto
che altro, tanto la macchina non la guido più».
(Di Nicola Stefanini da "Il Tirreno del 9-9-2000)
******
Un altro episodio che mette ulteriormente in chiaro il forte carattere di
questo sacerdote è raccontato da Carlo Mancini e Leo Gattini sul volume
"Dalle AM-lire all'Euro":
A febbraio 1944 comincia a funzionare il Partito Fascista Repubblicano. Il
segretario del fascio, un certo Cosimi gli assicurò che se avesse continuato
nel suo atteggiamento, sarebbe rimasto poco tempo in quella parrocchia. Don
Vellutini di rimando rispose:"Quel tanto che basta per veder andare via
lei".
******
Un museo intitolato a don Vellutini
Don
Vellutini non potrà avere la sepoltura nella sua chiesa, quella chiesa che
ha retto per più di cinquant’anni dopo averla salvata dal martirio dei
nazisti, ma avrà comunque un museo a lui dedicato. L’iniziativa è partita
dall’Accademia Gli Etruschi di Vada, che già avevano tributato un
riconoscimento all’anziano parroco per il cinquantenario del suo sacerdozio.
Ed è la stessa associazione che, in occasione del primo anniversario della
morte di don Antonio, ha tirato le file organizzative delle celebrazioni
parrocchiali. La proposta di dedicare al prete-coraggio il museo aperto
sulla via Aurelia, al civico 110, grazie a donazioni di soci e sostenitori
che hanno messo a disposizione le loro sculture e i dipinti, è scaturita da
un gruppo di accademici e passata al vaglio del consiglio direttivo
presieduto da Giovanni Mazzetti, che l’ha approvata. Il museo Gli Etruschi
sarà dunque intitolato alla memoria di don Antonio Vellutini. La cerimonia
d’intitolazione è per il mese di settembre, alla presenza del vescovo di
Livorno Monsignor Diego Coletti.
(m.m.
da "Il
Tirreno del 12-08-2003)
******
Ancora le gesta di don Antonio relative all'eccidio di Vada su:
"I racconti che riguardano l'eccidio"
di Giuliano Bramanti che trovi
QUI
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Per completezza riportiamo un
diverso profilo di Don Vellutini, tracciato da Emilio Lupichini, allora esponente
del comunismo locale, negli anni difficili del
dopoguerra.
...Nel gennaio del 1947 il viaggio di De
Gasperi in America capovolse l'intera situazione della politica estera
italiana, spostando decisamente l'ago della bilancia verso il blocco
Americano. Quel viaggio segnò praticamente la fine dell'equilibrio interno
italiano e soffocò sul nascere la nuova politica estera che comunisti e
socialisti avevano cercato di stabilire tra Oriente e Occidente. Esplose
l'anticomunismo! Si cominciò con le campagne allarmistiche del tipo "Oro di
Dongo"; si affermò lo slogan della conquista comunista del potere con le
elezioni; si presentò l'immagine del comunista truculento con il coltello
tra i denti. Venne lanciato un appello alla crociata religiosa. Il 22
gennaio, durante il suo viaggio in America, De Gasperi fu accolto nella
Cattedrale di San Patrizio a New York dall'Arcivescovo il quale, davanti al
cardinale Spellman, pronunciò queste parole: «Il Mediterraneo è un mare
cristiano che non dovrà essere arrossato dal comunismo ateo». Questi toni
accesi divennero panacea di propaganda in tutte le campagne elettorali e
nella vita politica italiana. E' stupefacente come ancora oggi, nei proclami
televisivi, ritornino alcuni di quei toni vecchi di cinquanta anni.
Nel clima generale che si respirava in Italia in quegli anni, anche il
nostro parroco, che era stato antifascista, iniziò la sua particolare lotta
a Vada, condannando l'Unione Donne Italiane che avevano organizzato una
distribuzione di pacchi dono alle famiglie più bisognose in occasione delle
festività pasquali. I dirigenti del P.C.I. locale, furono invitati sotto il
sacrato della chiesa ad un pubblico dibattito che finì in un alterco di
offese. Don Vellutini continuò per anni a perseguire con atti e iniziative i
comunisti ed i democratici di Vada: fummo informati che all'interno del
portone della chiesa aveva affisso un manifesto di scomunica ai comunisti.
Non volle celebrare matrimoni di dirigenti comunisti; non volle battezzare i
figli di capi-lega e attivisti ed in qualche modo riuscì a dimostrare al
Governo che nella casa dell'ex partito fascista esisteva già un asilo della
parrocchia impedendo al Comune di diventarne proprietario. Nel tempo sono
avvenuti altri fatti criticabili del parroco verso i cittadini di Vada.
Prima di lui era stato parroco per molti anni Don Mario Ciabatti che fu
amico di tutti. Don Mario si era prestato molto verso i suoi cittadini ed
era stato un parroco veramente al di sopra delle parti; Don Vellutini, con
le sue iniziative si è isolato recando
danno alla
Chiesa...Nel 1947 fu pubblicato il decreto del Santo Uffizio contenente la
scomunica dei comunisti. Per effetto di quel decreto, tutti i fedeli che
professano la dottrina del comunismo, materialista e anticristiana, e coloro
che la difendono e ne sono propagandisti, ipsofatto incorrono nella
scomunica. A seguito della scomunica il nostro parroco continuò con più
accanimento la sua guerra contro i comunisti di Vada. Come ho già detto la
scomunica ebbe un effetto controproducente per la Chiesa ed anche per il
Paese. In Italia la Chiesa era una istituzione, una consuetudine, un
costume, per un Paese la cui maggioranza dei cittadini viveva nelle
campagne, dove aveva ereditato modi di vita che si tramandavano da
generazioni. Proprio a causa di questa posizione della Chiesa e per il modo
con il quale intendeva mantenerla, si ebbero le prime rotture con
l'istituzione religiosa che avvennero, non tanto per un'avversione alla
credenza, quanto perché essa voleva essere imposta. Si ebbe a Vada il primo
matrimonio civile che fu celebrato nel nostro circolo ricreativo, con tanto
di manifestazione pubblica, fiori, regali e brindisi; a sposarsi fu una
nostra compagna, responsabile delle donne contadine, che si maritò con un
compagno mezzadro. Il compagno Cheti, mezzadro e attivista comunista, aveva
da battezzare il figlio e Don Vellutini gli negò questo sacramento perché il
Cheti portava in tasca quella tessera. Mi ricordo, andai a Solvay a trovare
il prete che mi aveva fatto lezione quando frequentavo l’avviamento, Don
Ezio Rivera, lo incontrai davanti alla dispensa Solvay, gli presentai il
caso dicendogli che il Cheti intendeva battezzare il figlio e che il parroco
di Vada si rifiutava. Conoscevo bene Don Ezio e conoscendolo ero convinto
che avrebbe voluto conquistare un cristiano. Mi ricordo molto bene che, con
il sorriso sulle labbra che aveva avuto con i suoi ragazzi di ieri e che
aveva mantenuto, mi disse: «Fai venire il Cheti con il figlio a Solvay,
...l'aspetto!»...
In quel periodo (1949) i
mezzadri tolsero al fattore la possibilità di gestire, attraverso il
famigerato libretto, la contabilità della resa del podere; mi ricordo
di aver aiutato Francalacci, contadino della fattoria Rozzi, a gestire il
libretto dei conti. Sempre in questi anni si svolsero gli scioperi del
braccianti che organizzavano manifestazioni in bicicletta percorrendo le
strade comunali. Fu in una di queste occasioni che, mio malgrado, ebbi
ancora uno scontro con il parroco di Vada don Vellutini. Passando i
braccianti e non avendomi visto, don Vellutini si rivolse a Boschi Dario e
gli disse:
«Cosa girano questi matti!».
Ed io che l'avevo udito gli
risposi: «Ci sono tanti
manicomi».
Il parroco vedendomi reagì
violentemente, nacque tra noi un battibecco vivace, molta gente si avvicinò;
il parroco molto arrabbiato mi si rivolse contro affermando: «Voi...
(sapeva che facevo parte della segreteria della C.G.I.L. di Rosignano)...invitate
questa gente alla lotta e la tradite per 30 mila lire!», prese la
bicicletta e sparì. La sera stessa mi rivolsi alla caserma del Carabinieri e
feci regolarmente querela per diffamazione. Il giorno dopo il maresciallo
dei Carabinieri andò a trovare don Antonio e gli riferì della mia
iniziativa. Bernini Leone fu cercato dal parroco e insieme vennero a
trovarmi dove abitavo: il prete si scusò in presenza del Bernini, ma a me
questo non bastò perché l'annuncio infamante nel miei confronti fu fatto in
presenza di almeno 200 persone. Proposi allora di riunire quelle persone, le
scuse le avrebbe fatte pubblicamente, ma il parroco mi rispose che
organizzare questo incontro era impossibile e mi avrebbe inviato una
lettera. Il giorno dopo infatti mi giunse questa lettera, intestata Chiesa
di San Leopoldo, con la quale don Vellutini riconosceva la serietà e il
valore della Camera del Lavoro. Ritirai la denuncia.
(Da: "Ricordi di un operaio" di Emilio Lupichini
1997, scaricabile dal sito)
******
(Occorre tenere presente che nei paesi conquistati dall'Armata Rossa e
divenuti comunisti in meno di due anni, la Chiesa fu bersaglio di feroci
repressioni. Non è quindi difficile per lo storico comprendere quali fossero
le preoccupazioni di Pio XII che aveva rischiato la vita durante la breve
repubblica dei Soviet a Monaco di Baviera e per cui l'Urss era la casa madre
di una minacciosa strategia antireligiosa. Eravamo poi, agli inizi della
guerra fredda, vale a dire in un momento in cui nessuno poteva prevedere gli
esiti del conflitto. - ndr).
******
Il 5 ottobre 2012 a Vada, intitolazione di "Via Don Antonio Vellutini"
(tratto di strada che inizia all'incrocio con via B. Telesio e collega via
Aurelia con via per Rosignano), alla presenza del vescovo di Livorno,
monsignor Simone Giusti.
"Don Vellutini è stato
oltre ad un grande sacerdote, un uomo delle istituzioni che con impegno
sociale, politico e civile ha contribuito a creare la Rosignano di oggi", ha
affermato il sindaco Alessandro Franchi.
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