I racconti che riguardano l'eccidio
di Giuliano Bramanti
All'alba del 20 giugno, la rabbia
feroce di un esercito straniero in rotta, si abbatteva su questo nostro
piccolo paese, martoriato da quattro anni di guerra, quattro anni di
privazioni e di bombardamenti, mettendolo definitivamente in ginocchio,
nel terrore e nel dolore, assassinando quattro brave e innocue persone,
amate e stimate da tutti noi. Si trattò proprio di un inutile e
feroce assassinio, anche se i crucchi cercarono di gabellarlo come una
giusta e meritata punizione. Nessuno ha mai potuto spiegare la ragione di
questa gratuita levata di scudi di un esercito ormai in fuga e con i
giorni contati. I tedeschi sostennero che era stato
trovato un cadavere di un loro soldato nei pressi della Mazzanta ucciso,
dissero, dagli italiani. Ma ciò non è mai stato appurato e per quanto
anche successivamente ho cercato di sapere, non ho mai avuto conferme da
nessuno. Solo voci riportate ma niente prove. Qualcuno ha sostenuto esserci stato lo
zampino di un delatore, che denunciò al comando tedesco, la presenza di
partigiani nel paese. Certamente fu una maniera per intimorire la
popolazione e dissuaderla da eventuali attentati o sabotaggi. E il giuoco
riuscì: da quel giorno, il paese preso dal panico assunse l'aspetto di un
luogo disabitato; nessuno usciva fuori di casa se non per inderogabili
necessità. I pochi passanti si muovevano sveltamente e, incontrandosi, a
fatica si salutavano e se dovevano dirsi qualcosa, parlavano sottovoce. Il
silenzio incombeva tristemente su tutto. E chi mai avrebbe anche
lontanamente pensato ad atti di sabotaggio? Giovani combattenti a Vada non
ce n'erano più. Gli ex militari di un esercito ormai
disfatto, o erano prigionieri degli alleati, o nei campi di concentramento
tedeschi o al nord alla macchia, con i partigiani. Gli americani risalendo la penisola,
erano già a Grosseto e sarebbero arrivati
qui da noi poco più di un mese dopo, ma questo mese gravò sul paese come
una cappa di piombo. Il comando delle SS era nel viale Principe di
Piemonte, oggi viale Italia, e si era allogato all'incrocio con la strada
dei Polveroni, di fronte alla Croce nella casa della famiglia Ficcanterri
dove attualmente si trova il barrino (così chiamato affettuosamente dalla
clientela). Da quel giorno il coprifuoco fu imposto ad iniziare dalle
cinque del pomeriggio, dopo quell'ora era rigorosamente proibito circolare
a rischio della vita. E pensando che eravamo alla fine di giugno, in cui
il tramonto avveniva circa alle 21; per noi la notte incominciava quando
il sole era sempre alto. Ma anche di giorno le SS avevano messo severe
modalità di comportamento: per esempio erano proibiti assembramenti di più
di due persone. Se tre persone si fossero fermate per strada a parlare,
avrebbero corso grossi rischi, per cui trovando per via un conoscente, era
meglio limitarsi a dargli il buon giorno e continuare il proprio cammino.
Infatti sui bandi appesi in piazza e scritti in italiano, si poteva
leggere che se fossero state sorprese tre persone (anche soltanto a
parlare), sarebbero state passate per le armi. Il mio babbo, come medico del paese fa
munito dall' Ortskommandantur tedesco di una carta firmata: SS
Hauptsturmfaerer in data O.U. den 25.6.1944 per poter circolare a
qualsiasi ora e con l'ordine di gridare da lontano, se vedeva una
pattuglia di crucchi: "Ich bin Arzt! Icb bin Arzt!" (Io sono il dottore).
E quando questi si avvicinavano, porgere il lasciapassare. E lui spesso
diceva che aveva sempre paura di questi giovani biondi dallo sguardo
gelido per i quali la vita altrui valeva quanto un fico secco...Quel che successe la mattina del 20
giugno e che ora mi accingo a raccontare, non l'ho direttamente vissuto,
perché insieme ai miei, mi trovavo sfollato nelle campagne di Vada, a
circa un chilometro dal paese, in via del Lupo, presso la famiglia
Pentolini. Eravamo lì sfollati, perché Radio Londra consigliava, in quel
periodo, di allontanarsi dagli incroci stradali per l'eventualità di
bombardamenti. La nostra abitazione era proprio ad un incrocio. Ma eravamo
sfollati anche in seguito alle minacce ricevute da mio padre alla casa del
fascio. Su quel che successe, riferisco perciò
la testimonianza di altri, facendo una specie di collage per collegare i
racconti delle varie fonti, qualche volta non collimanti nei
particolari.L'inizio fu nella canonica e nella sacrestia della chiesa,
come mi raccontò Ugo, il sacrestano, che a Vada chiamavano "il campanaro"
e che era una delle persone più buone e pacifiche che io abbia mai
conosciuto. La mattina al levar del sole, il povero Ugo che viveva in
canonica, fa svegliato da gran colpi nella porta e da grida in lingua
tedesca. Spaventato, si alzò in mutande, corse ad aprire e fa sbattuto per
terra da sette o otto soldati che spinsero violentemente il battente per
entrare con prepotenza. Erano comandati da un ufficiale, il quale urlava
nella sua lingua parole che per il sacrestano erano del tutto
incomprensibili. Non sapendo che cosa volessero se ne stava zitto,
attonito e impaurito. Quell'ufficiale urlava che voleva subito il prete,
ma Ugo non capiva; allora i soldati che erano entrati anche in sacrestia,
pensando che il suo atteggiamento silenzioso fosse espressione di
ostilità, per intimorirlo, se ce ne fosse stato bisogno, cominciarono a
spezzare con il calcio dei facili candelieri e grossi ceri che servivano
per le messe cantate. E fecero davvero un spicinio, e questo lo vidi
anch'io quando andai a trovarlo. Infatti, noi ragazzi consideravamo Ugo un
buon amico. In questa inattesa, caotica e inspiegabile situazione, il
sacrestano pensò che la cosa migliore fosse di andare a svegliare don
Antonio Vellutini, al piano di sopra, che era giovane ed energico e
soprattutto non aveva paura di nulla. Così, il povero e pacifico Ugo si
avviò per le scale, seguito dal codazzo dei tedeschi. Ma, arrivati sul
ballatoio, trovarono il prete che, svegliato dal trambusto, si era vestito
in tutta fretta ed era uscito di camera. I soldati non fecero tanti
discorsi e, presolo per un braccio, lo trascinarono con violenti spintoni
giù, al cospetto dell'ufficiale il quale senza preamboli gli ordinò di
radunare tutti gli abitanti del paese dentro la chiesa.
- Don Antonio, con una grinta più
feroce dell'ufficiale, rispose:- No! In chiesa no' Se volete radunarli,
radunateli in piazza! - Sapeva che in un altro paese la popolazione era
stata uccisa in massa, proprio dentro una chiesa, da dove era stato
impossibile scappare. "Se decideranno di uccidere tutti, pensò, qualcuno
dalla piazza riuscirà a scappare". Si raccomandò alla Madonna e si preparò
all'ingresso in paradiso. Così mi raccontò, anni dopo, quando ero il suo
medico curante, perché ormai credeva che sarebbe stato ucciso insieme ai
suoi parrocchiani.
Contrariato e indispettito per la
risposta, l'ufficiale lo fece agguantare dai suoi che, a botte e a
spintoni, lo costrinsero ad accompagnarli casa per casa, a svegliare gli
ignari e inermi paesani e a sottoporre le abitazioni a violenta e
arbitraria perquisizione. Uscendo dalla canonica ed avviandosi per le
strade, si accorse che il paese era circondato da tedeschi armati e nelle
vicinanze erano state piazzate due mitragliatrici. Così entrando nelle
case, si raccomandava alla gente:
-Uscite! Uscite! Non urlate, non
piangete! (le donne impaurite urlavano e piangevano). Venite dietro a me!
Dite ai vostri figli di ubbidire e non cercar di scappare! Sennò vi
sparano ! Le persone svegliate di soprassalto, venivano fatte vestire in
fretta e furia, sbattute fuori di casa, incolonnate lungo la strada e
avviate verso la piazza. Le loro abitazioni, poi, meticolosamente
perquisite e messe a soqquadro. A qualche famiglia, che ritardò
nell'aprire, fu sfondata la porta. I tedeschi cercavano le armi ed avevano
l'ordine di uccidere sul posto gli eventuali possessori. Ma armi non ne
furono trovate. Secondo qualche testimonianza, fu purtroppo rinvenuto
materiale esplosivo, tipo balistite, tritolo o altro, che alcuni tenevano
in casa, non per fare la guerra, ma per pescare. Una pesca non
regolamentare, d'accordo, ma a quel tempo che cosa mai c'era di
regolamentare? Ognuno per mangiare si arrangiava come poteva e la pesca
serviva a sfamarsi o a sbarcare il lunario, raccattando un po' di soldi
nella vendita del pesce. E questa, secondo alcuni, fu la causa
dell'uccisione di una o due persone. Il primo ad essere ucciso fu
probabilmente un ragazzo, Delfo Rofi, fratello di Orio, perché secondo
alcuni, aveva nascosto, sembra sotto il letto, dei panetti di tritolo.
Questo materiale esplosivo era
capitato nelle mani di noi civili dopo l'otto settembre, abbandonato sul
territorio dall'esercito italiano che si era sbandato e dissolto come per
incanto. Fu così che molta gente, ed anche noi ragazzi, andando a
esplorare le postazioni militari abbandonate, trovò materiale esplosivo,
costituito in gran parte da balistite e saponette di tritolo e se lo portò
a casa. Noi ragazzi per curiosità e per giuoco, qualche altro per
lanciarlo in mare e raccogliere i pesci uccisi. E devo confessare che
anch'io me ne ero fatta una buona provvista. Quando il povero Delfo si accorse di
essere in pericolo, cercò di sfuggire alle mani dei suoi carnefici
precipitandosi giù per le scale, ma, raggiunto, fu immobilizzato, ucciso
freddamente e abbandonato fra le braccia della madre in lacrime.
La seconda vittima fu un ragazzo
sfollato da Livorno che viveva, insieme ai suoi e ad altre famiglie
livornesi, nelle scuole elementari di Vada. Anche lui "colpevole" del
solito ed innocuo reato: usava qualche volta esplosivo per pescare. Fu
agguantato e gli fu sparato un colpo alla testa. Ma la fortuna lo aiutò,
perché il colpo alla nuca lo prese di striscio e svenne, sanguinante, a
terra. La madre, si gettò sul suo corpo piangendo, per ingannare i
tedeschi, i quali lo abbandonarono lì. Così, quando rinvenne, aiutato
dalla madre e dagli amici, si dette alla fuga. Mi ricordo che,
successivamente, fu medicato e curato dal mio babbo. Orio, il fratello di
Delfo, allora bambino di nove anni, aveva assistito quasi completamente a
ciò che era accaduto. Di quei tragici momenti egli ha il seguente ricordo.
Quella mattina una donna, una certa Carola, corse in casa gridando al
fratello: - Scappa, scappa, ci sono i tedeschi che vengono a prenderti! -
Delfo scappò, ma arrivato al cancellino trovò i militari che lo
agguantarono. Orio si affacciò alla finestra e vide che per terra c'era il
ragazzo livornese con la testa sanguinante e un tedesco armato che diceva:
- Kaputt, pistola kaputt - dimostrando di essere stato lui a sparargli.
Convinto di averlo ucciso gli dette anche una pedata.
Accanto vide suo fratello Delfo nelle
mani di due o tre tedeschi, che lo picchiavano con violenza. Lo
trascinarono poi in casa di Ugo Ruggeri, suo coetaneo, dove gli spararono
alla testa e se ne andarono. Ma questo epilogo, Orio non lo vide. Lo seppe
poco dopo da Ugo Ruggeri, che si era nascosto provvidenzialmente in
soffitta e che, appena i tedeschi si furono allontanati, corse da Orio a
chiamare la sua mamma. Accorsero entrambi e trovarono Delfo morente. Morì
fra le braccia della madre. Intanto il livornese, finto morto, se l'era
data a gambe.
Il terzo fu il Lupichini. La
cronologia potrebbe anche essere diversa perché è ricostruita attraverso i
racconti di persone terrorizzate e comprensibilmente disorientate dalla
paura e dalla confusione dovuta all'accavallarsi degli avvenimenti.
L'accadimento si è svolto in maniera convulsa, fra gli urli degli
oppressori e le grida di spavento della popolazione, tanto che qualcuno
riferisce che ad un certo momento persino qualche tedesco dava
l'impressione di essere spaesato. Ruggero Lupichini, che abitava in
piazza Garibaldi, al secondo piano della casa Morelli, in quel periodo era
sfollato con la famiglia a Castellina. Era sceso a Vada la sera prima di
questa infelice giornata, insieme al giovane figlio Emilio, per prendere
alcune cose. Ed essendo ormai tardi, decise di dormire in casa sua e di
tornare a Castellina il giorno dopo. Questa fu una scelta fatale.
La mattina del 20 giugno, svegliato da
un insolito fracasso, si affacciò alla finestra e vide che alcuni soldati
tedeschi stavano forzando il portone di casa. La piazza antistante era
piena di soldati e c'erano due mitragliatrici piazzate. Spaventato corse a
svegliare il figlio raccomandandogli di scappare e nascondersi in soffitta
perché pensava che i tedeschi stessero rastrellando i giovani per
inquadrarli nel loro esercito. Emilio senza indugiare un attimo, corse su
in soffitta, sopra alla camera. L'impiantito della soffitta aveva una
fessura dalla quale si poteva vedere nella stanza di sotto. I tedeschi
appena entrati in camera, senza porre tempo in mezzo, spararono due colpi
nella testa del povero Ruggero e l'uccisero sotto gli occhi del figlio
che, di sopra, stava guardando dalla fessura. Senza dire ne fare altro,
com'erano arrivati, così rapidamente se ne andarono. Emilio disperato
scese in camera per vedere se poteva aiutare il padre che però era ormai
morto e in un lago di sangue. Mentre era lì, sconsolato, Emilio sentì
avvicinarsi di nuovo i soldati tedeschi e, non potendo più fuggire, si
nascose sotto il letto. I soldati entrarono, misero la casa sottosopra,
rovistando e arruffando tutto. Fortunatamente non guardarono sotto al
letto ed Emilio se la cavò. I cugini Vanni furono uccisi per una triste
fatalità. Erano dirimpettai di Delfo Rofi, per cui furono testimoni
oculari di quello scempio e, spaventati, si nascosero. Ivo in un
ripostiglio ed Elio, non ritenendolo sicuro, scappò da casa e, si
racconta, si nascose in un canneto. Un tedesco vide qualcosa muoversi,
sparò a casaccio e, credendo di aver preso un abbaglio, se ne andò. Invece
Elio era stato ferito, sia pur lievemente. Perciò il cugino Ivo, poiché
era l'ora in cui i due dovevano presentarsi al lavoro alla fabbrica della
Solvay, lo caricò sulla canna della bicicletta e insieme a lui si diresse
all'ospedale di Rosignano per farlo medicare, e poi recarsi ambedue sul
posto di lavoro, ignari del destino che li attendeva. I tedeschi, intanto, avevano, con la
forza, reclutato alcuni ragazzi, fra questi anche alcuni miei cari amici
come Abdenago Caroti e Mario Vannucci, per raccogliere gli uccisi ed
esporti in piazza. Quando i tedeschi si accorsero che il ragazzo livornese
non era più nel posto dove credevano di averlo ucciso, capirono che era
scappato. Fu ordinato di cercare il ferito ed ucciderlo e tutte le strade
furono subito bloccate e setacciate con scrupolo teutonico. Ivo ed Elio Vanni, nel frattempo si
stavano recando, in due su una bicicletta, verso Rosignano, percorrendo la
via Aurelia. Ma poco prima del ponte sul fiume Fine furono fermati da una
pattuglia di soldati i quali, vedendo che Elio era ferito, pensarono che
fosse il ricercato e così, sui due piedi, uccisero ambedue. Intanto, la popolazione di Vada era
stata raccolta e riunita nel centro della piazza, dove sorgeva il
terrapieno di un fortino costruito tempo prima dall'esercito italiano e
poi abbandonato. Un tedesco armato si diresse verso di me, racconta
Abdenago Caroti, che ero raggruppato insieme agli altri. Disse: "kommen" e
prese me, Alberto Bartoletti, Mario Vannucci e uno sfollato di Livorno e a
ci portò al portone dove stava il Lupichini, nella casa del Morelli. Ci
spinse su e arrivati in cima alle scale, era un finimondo, non posso dire
altro, uno spavento: l'armadio in terra, la vetrina tutta rotta, per terra
piatti, ciottoli, tutto quello che c'era in casa rovesciato per terra. E
si vide quel povero Ruggero, in fondo ad un angolo della stanza, ormai
senza vita, con un occhio grosso come una mela e la gola tutta gonfia,
irriconoscibile e immerso in un lago di sangue. Il tedesco ci fece capire,
a gesti, di portarlo giù. Si prese questo poveruomo in queste condizioni
e, facendo a fatica gli scalini, lo portammo giù. Fuori del portone, la
gente assiepata con la forza, colpita da questo spettacolo si mise a
urlare e piangere disperata. Ci costrinsero a portarlo di fronte alla
statua di Garibaldi e ce lo fecero mettere sul terrapieno del fortino e
poi ci fecero rientrare nel mucchio della gente. Dopo nemmeno dieci minuti, ecco altri
quattro giovani che erano andati a prendere Delfo, un ragazzino di
diciott'anni, più bono del pane, e lo misero lì, accanto al Lupichini.
Intanto eravamo tutti fermi, sotto il tiro della mitragliatrici, senza
sapere che cosa aspettare. Qualcuno disse che ne dovevano portare degli
altri. Dopo circa mezz'ora, si vide un
gruppetto di uomini, sulla via Aurelia dalla parte di Rosignano, che
venivano piano, piano, trainando una specie di carretto e, quando furono
vicini, li riconoscemmo: erano i tre Provinciali, Oscar, Amulio e il
sordomuto Sirio. Sdraiati sul carretto, c'erano i cugini Elio e Ivo Vanni,
morti. Vennero messi accanto a Delfo e a Ruggero. Intanto di fronte a noi,
davanti a dei soldati armati, c'era l'ufficiale comandante con accanto un
tenente che aveva a fianco il nostro prete, don Antonio. Il comandante parlava in tedesco, il
tenente traduceva in francese e Don Antonio lo trasformava in italiano per
noi. Diceva che il paese era pieno di partigiani, che avevano ucciso un
loro camerata, e che se fosse successo un'altra volta avrebbe fatto
mettere a fuoco tutto il paese. Quando i quattro morti furono esposti
l'uno accanto all'altro e la popolazione era sempre lì raccolta, piena di
paura, in balia dei tedeschi, il comandante ordinò a Don Antonio di dargli
altri sei nomi di persone da fucilare. Egli, ormai distrutto dal dolore,
ma irritato contro gli aguzzini, coraggiosamente disse: -Il quinto sono
io! Gli altri cercateli da voi!-
L'ufficiale ristette soprappensiero. Poi dette ordine di far sfilare la
popolazione davanti ai quattro morti e rimandò tutti a casa. I morti
rimasero esposti per tre giorni su quel rilievo di sassi e ghiaia sotto
il sole e con affisso un cartello che li additava come "Quattro banditi
che hanno ucciso un camerata tedesco"
conservato per tantissimi anni, in memoria dei quattro sventurati da don
Antonio. Solo dopo tre giorni, lunghissimi giorni per Vada,
essendo ormai caldo furono costretti a farli rimuovere e restituirli alle
famiglie. Furono preparate bare di fortuna e portate al cimitero su un
carretto della spazzatura. Quella mattina terribile del 20
giugno, noi, sfollati alla casa del Pentolini eravamo all'oscuro di tutto,
quando vedemmo arrivare alcune persone che erano riuscite a scappare. Ci
raccontarono, terrorizzate, quello che stava succedendo, lasciandoci
attoniti e quasi increduli all'udire i particolari raccapriccianti. Il
giorno dopo, andai in paese insieme al mio babbo che doveva fare alcune
visite. Proprio una di queste era in una casa di fronte al terrapieno. Mi affacciai timidamente alla
finestra. Il paese era deserto e immerso in un silenzio spettrale, il cui
ricordo mi fa ancora effetto. Non si vedeva anima viva e là sotto, di
faccia, i quattro cadaveri battuti dal sole. In fondo, la chiesa immobile
e solenne, quasi a guardia dei quattro infelici, testimone silenziosa del
barbaro eccidio e consolatrice di un paese messo in ginocchio e distrutto
nell'anima e nel cuore. Furono inumati in quattro tombe uguali ed accanto
fra loro.
Nel Giugno del 1945, quando l'Italia,
ormai libera, stava risalendo faticosamente la china della rinascita, il
comitato di liberazione di Vada, promosse una sottoscrizione popolare,
alla quale partecipò anche la Società Solvay, per la costruzione di un
monumento a ricordo dell'eccidio. Il monumento che fu posto nel luogo del
terrapieno dove erano stati esposti i corpi, nel centro della piazza,
proprio di fronte e a pochi metri dalla statua di Garibaldi. Alla base
della stele c'è scritto:
"All'alba del 20 giugno 1944 la
barbara ferocia tedesca si abbatteva sull'inerme popolazione di Vada
portando lutto e desolazione".
(Da: Quaderni Vadesi n°12 "Vada 1940-1945 Un tempo segnato dalla guerra"
pag.117 e segg.)
Biografia di don Antonio
Vellutini nella sezione
PERSONE/Ecclesiastici |