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     Don 
                Antonio 
                Vellutini nacque a Lucca il 9 settembre 1910, 
	 
                penultimo figlio di Olinto e di Mar ia Domenica Fiori. Olinto quarantenne, parte volontario per la grande guerra nel 1915 e torna 
	ferito gravemente meritandosi una medaglia d’argento e di bronzo al valore. Riesce a riprendere il suo lavoro alla Manifattura Tabacchi di 
	Lucca e sarà importante guida politica, religiosa e morale per il figlio Antonio. 
	Negli primi anni '20, rifiuta il fascismo ritenendolo, una rovina per il Paese. 
	Muore nel 1926. La giovinezza di Antonio passa tra la parrocchia ed il 
	convento dei Frati Minori: in questo periodo nasce la sua vocazione al 
	sacerdozio.
	Terminati gli studi liceali entra in Seminario dove trova un ambiente 
	antiquato e bigotto che lo mette in difficoltà. Si appassiona a quella parte 
	di letteratura e filosofia che la congregazione del Sant’Uffizio aveva da 
	anni posto all’Indice. Sopraggiungono noie di carattere politico ed i 
	superiori del Seminario per non trovarsi in difficoltà con il regime, 
	decidono per l'espulsione dato che la maggior parte del clero osannava il 
	fascismo almeno nella fase iniziale. Dopo un periodo di “confino” a Montalto 
	Uffugo in Calabria, si iscrive all’Università di Roma. Termina gli studi entrando in Congregazione 
                religiosa; si laurea a Roma
                nel '38, prima in materie letterarie, poi in filosofia ed 
                infine intraprende gli studi “utriusque juris”
                all’Università Lateranense. 
                Ordinato sacerdote il 24 aprile dello stesso anno, prima di 
                giungere nella Diocesi di Livorno (a Vada dal 1943) ha girato 
                gran parte d'Italia in veste
di studente. Poi, come
    insegnante, tra Orvieto e Piombino, tra Cecina (insegnando al magistrale 
    Sacro Cuore) e Livorno dove ha concluso la sua carriera dietro la cattedra. 
    Ad inviarlo nelle prioria vadese, è il vescovo Piccioni. Un 
    prete particolare, una personalità cristallina e coriacea, una formazione 
    culturale di tutto rispetto, una avversione verso ogni tipo di tirannia. Il 
    suo antifascismo, ereditato dal padre gli causò non poche noie. Nel 
    1941 ottiene una cattedra di insegnamento (italiano, latino, storia e 
    filosofia) al liceo scientifico di Piombino. Il 
    
    14 
    febbraio 1943 viene “incardinato” nella Prioria di Vada e continua 
    l’insegnamento alle Magistrali di Cecina. 
    Per quasi 40 anni ha insegnato lettere e religione nelle scuole del 
    livornese.
    
    
    Partigiano e antifascista, ha comandato il locale Comitato di 
    Liberazione Nazionale; dopo la guerra ha ricoperto anche incarichi civili: dal 
    '44 al '46 è stato vicesindaco del comune di Rosignano, prima con Tullio Secchi e 
    poi con Dardo Dardini sindaci. Nel 1998 la consacrazione ufficiale, 
    religiosa e civile: in occasione dei 60 anni del suo sacerdozio, gli viene 
    consegnata la medaglia d'oro per l'attività partigiana. 
    
	Resta parroco di Vada fino a metà degli anni Novanta, congedandosi come 
    parroco onorario e qui è morto il 25 luglio 2002. E' sepolto nel cimitero 
	locale. 529 cittadini hanno sottoscritto una petizione a favore della 
	tumulazione nella chiesa di Vada, che 
	è stata inviata a mons. Diego Coletti, Vescovo di Livorno, a mons. Paolo 
	Razzauti Vicario generale, a don Mario Nowakosky parroco di Vada e al 
	sindaco G. Simoncini, che ha dovuto lasciare la decisione alla comunità 
	religiosa.
     
    
	                                             ***** 
    Cinque caccia inglesi bloccarono il treno e provocarono un fuggi fuggi 
    generale con morti e feriti 
    Vada e Sassetta sono state indicate come sedi del “Giorno della memoria” 
    2005 per ricordare il contributo dato nel 1944 dagli abitanti di Vada e dal 
    sacerdote don Antonio Vellutini, medaglia d’oro al valore partigiano, per 
    salvare la vita a 19 bambini dell’orfanotrofio ebraico di Livorno in età fra 
    7 e 18 anni, alcuni orfani, alcuni figli di matrimoni misti tra italiani ed 
    ebrei, ospitati a Sassetta. Nel gennaio 1943 la Comunità israelitica di 
    Livorno decise di sfollare il suo orfanotrofio in una villa di Sassetta, 
    in località Poggio, di proprietà del signor Biasci, segretario del locale 
    fascio. La vita nell’istituto diretto dalla signora Olga Coen Castiglioni 
    coadiuvata dalla maestra Luciana Archivolti (ebree) e da Stefania Molinari e 
    Palmira Fenzi (cattoliche) si svolgeva abbastanza tranquilla anche se non 
    arrivavano più le rimesse dalla Comunità israelitica livornese alla quale 
    erano stati confiscati tutti i beni.  Il 5 giugno 1944 inizia il dramma di 
    questi bambini, quasi tutti denutriti e malridotti. Inutile il tentativo del 
    segretario del fascio Biagi verso il podestà von Berger per sottrarre i 19 
    bambini al destino che li attendeva. Il giorno dopo verso le 11 su di un 
    camion scortati da due carabinieri (Pilade Barsotti e Rolando Calamai) i 
    bimbi dell’istituto, da Sassetta partirono per Vada. Il camion imboccò i tornanti che dalla vetta di Sassetta portano 
    giù verso il mare e in due ore si arrivò a Vada, da dove il viaggio della 
    morte sarebbe proseguito in treno. Non si poteva stare alla stazione, era 
    pericoloso e proibito. E così i ragazzi furono portati in una trattoria, ad 
    aspettare. L'attesa fu breve. Verso le 16 a piedi, fagotti alla mano, il 
    gruppetto serrato dei ragazzi si avviò verso la stazione, dove arrivarono 
    giusto in tempo per assistere a un bombardamento. Gli alleati erano a nord 
    di Grosseto e battevano senza risparmio le retrovie del fronte. Sulla 
    stazione cadevano spezzoni, ma i ragazzi non furono presi dal panico. In 
    fila dietro alla direttrice, i più grandi per mano ai più piccoli, i 
    carabinieri guidarono il gruppetto lontano dal pericolo. E il treno, visti i 
    danni, non fu fatto partire. Dove passare la notte? Alberghi nel paesino non 
    ce n'erano e le case erano invase dai tedeschi. Unico rifugio, la trattoria. 
    L'oste non si tirò indietro, mise in tavola qualcosa per calmare la fame e 
    poi tavoli e sedie diventarono tanti letti. «Dormii, mi ricordo bene, su un 
    biliardo - racconta Ugo Bassano - ero così stanco ed emozionato che caddi in 
    un sonno profondo. A dieci anni si può dormire anche sui sassi». Alle dieci, 
    la mattina dopo, i ragazzi erano di nuovo alla stazione di Vada. Il treno 
    per Collesalvetti era pronto, motrice, due vagoni passeggeri e un vagone merci carico di fieno 
    che nascondeva munizioni tedesche. Tornarono gli aerei, ci fu un fuggi fuggi 
    dalla stazione, ma dopo mezz'ora i bambini furono fatti salire in carrozza. 
    Il treno si mosse lentamente. Aveva appena fatto cinquecento metri, quando 
    giù dal cielo piombarono cinque velocissimi caccia. «Questa volta - ricorda Bassano - pensai che per noi fosse la fine». A bassissima quota i cinque 
    caccia passarono e ripassarono, mitragliando. Ci furono subito dei morti, il 
    frenatore e il macchinista. Il treno si arrestò, i ferrovieri fuggirono e i 
    ragazzi, con direttrice e carabinieri, si gettarono in un fossato che 
    correva lungo il binario. Mentre il bombardamento continuava, Olga 
    Castiglioni contò e ricontò i ragazzi. C'era tutti (anche i carabinieri), 
    anche se la piccola Ines era stata colpita dai vetri in frantumi e la 
    graziosa Maura aveva riportato ferite più gravi. Scorreva il sangue, 
    qualcuno piangeva, tutti erano atterriti. E in quel silenzio irreale, 
    assordato da bombe e mitraglia, uno dei ragazzini, studente del collegio 
    rabbinico, alzò gli occhi al cielo e disse a voce alta la preghiera dei 
    padri: «Sheman Israel, Adonai Eloenu Adonai Ehad (Ascolta Israele, l'eterno 
    è il tuo Dio, l'eterno è uno). I ragazzi in coro - guidati dalla direttrice 
    - risposero ad una voce: «Baruh shem chebod Malhutò lenolam Vaned» 
    (Benedetto il nome glorioso del suo regno, per sempre). In quel fossato, la 
    preghiera del risveglio e della sera sciolse l'emozione e si pianse di gioia 
    per lo scampato pericolo. 
    Da questo momento entra in azione don Vellutini che dopo ogni incursione 
    aerea raggiungeva sempre la stazione con alcuni volontari per assistere 
    eventuali feriti e portare aiuto. 
    Anche questa volta inforcata la bici, si diresse alla ferrovia e senza 
    perdere tempo riunisce i bambini, li porta 
    in paese, li fa dormire la prima notte sui biliardi e sui tavoli di marmo 
    del bar Impero, sotto le logge, ma il giorno dopo li affida a famiglia 
    contadine (un bambino lo prende lui stesso in canonica, Sigfrid Libson, 
    ebreo tedesco) per nasconderli da possibili rastrellamenti dei tedeschi e 
    dato che era il Venerdi Santo volle partecipassero anche alla processione in 
    paese. I 
    19 bambini di Sassetta sono così al sicuro. Fu come uscire da un tunnel. 
    Sempre lui don Antonio Vellutini, un cuore grande, un coraggio da leone, 
    segretamente partigiano, poco tempo prima, aveva tenuto testa ai tedeschi 
    offrendosi al posto di alcuni civili in procinto di essere fucilati. Ed era 
    riuscito a salvarli. Ora la sua ala protettrice si allungava sui piccoli 
    orfani ebrei.  I carabinieri non sapevano cosa fare. Chiesero 
    insistentemente alle autorità di Sassetta di riportare indietro i ragazzi, 
    ma non ci fu nulla da fare. A tutti i costi dovevano raggiungere Livorno e 
    poi il campo di smistamento tedesco di Fossoli (Modena), destinazione 
    Auschwitz. E così con un camion della Todt (l'organizzazione del lavoro 
    forzato tedesco) i 
    bambini furono portati a Livorno, e alloggiati nella scuola Carducci 
    all'Ardenza, nelle grandi aule deserte. Sette giorni durò l'attesa. Nessuno 
    sapeva cosa fare. Fu così che la ferrea logica nazista finì per 
    sbriciolarsi. Alcuni tra i più grandicelli riuscirono a scappare, altri, che 
    erano nati da matrimoni misti, vennero riconsegnati ai familiari che, saputi 
    i fatti, avevano insistito con la Prefettura (allora il capo era il 
    famigerato FacDouelle) per la loro liberazione. «Mia madre era cattolica, e 
    così fu mio zio Armando, nonostante il grande pericolo che gravava su di 
    lui, che venne a prendere me e mia sorella Luciana - ricorda Ugo Bassano - 
    Lui era sfollato a Vicarello e là ritrovai anche il mio fratellino Emilio. 
    Tutto avvenne come in un sogno. La famiglia salva e unita, in una comunità, 
    quella ebraica livornese, che subì lutti e perdite gravissime nei lager». 
    Così si misero in salvo una decina di ragazzi. E gli altri? Per gli altri 
    l'ordine di proseguire per Fossoli restava perentorio. Ma nello sfaldamento 
    del fronte, con gli alleati alle porte, i carabinieri presero una decisione. 
    Il comandante della compagnia da cui i due bravi carabinieri, Barsotti e 
    Calamai, dipendevano pose loro una alternativa con una sola risposta: 
    portare i ragazzi a Fossoli o, se non era possibile, riportarli a Sassetta». 
    Il ritorno a Sassetta fu una liberazione per tutti. 
    Qui furono ospitati fino all’arrivo delle truppe alleate dal parroco don 
    Carlo Bartolozzi, altro sacerdote fieramente antifascista a lungo 
    perseguitato dal regime. Ma 
    
    presto, molto presto, ogni pena finì, con l'arrivo degli 
    alleati. Le cronache dell'epoca segnalano che i ragazzi vennero presi in 
    consegna dal cappellano ebraico della V Armata Aron Pepperman. L'odissea del 
    gruppetto di bambini ebrei perseguitati si era conclusa felicemente. Solo 
    uno imboccò il tunnel della morte. Il piccolo Benito Atthal. Aveva appena 
    dieci anni. Taciturno, le sofferenze e i traumi della guerra e delle 
    persecuzioni l'avevano profondamente scosso, «tanto che - ricorda con pietà 
    Ugo Bassano - era diventato incontinente. A dieci anni, infelice». Lui non 
    era di sangue misto, non aveva pensato a fuggire. La mamma era andata a 
    prenderlo alla scuola di Ardenza. L'avevano sconsigliata: «Ti prenderanno 
    con lui...». «Ma lui è mio figlio, dove va lui vado io», ricorda con un filo 
    di voce Ugo Bassano di aver sentito raccontare, dopo, dai più vecchi. E fu 
    così che dalla stazione di Livorno partì un treno per Fossoli, con il 
    piccolo Atthal e sua madre. Un viaggio senza ritorno. Bisogna leggerla, la 
    lista della gente di Livorno, Pisa, Lucca, Firenze. Esistenze come quella 
    della piccola Gigliola Finzi, che i suoi quattro mesi non hanno salvato 
    dall'orrenda strage. 
    
    (Sintesi da alcuni 
    articoli de "Il Tirreno" 1999) 
	                                                
	****** 
	                                                                                        
	 Don Vellutini nel primo dopoguerra 
					1944 -
					Anche nell'immediato dopoguerra emerge la figura di Don 
					Antonio Vellutini eletto vicesindaco.  Nei giorni 
					successivi alla liberazione di Rosignano Marittimo, quindi 
					ai primi di luglio del 1944, essendo il paese di Rosignano, 
					quasi completamente distrutto dai bombardamenti, come prima 
					sede della nuova amministrazione comunale viene utilizzata 
					la canonica di Vada, messa a disposizione dal parroco, 
					mentre sindaco viene nominato Tullio Secchi di Caletta (vedi 
					biografia sindaci) e vicesindaco don Antonio, già presidente 
					del Comitato di Liberazione Nazionale, che alterna così le 
					sedute della Giunta a messe e funerali. Rimane in carica 
					anche nella Giunta successiva (sindaco Dardo Dardini) fino 
					al ‘46 quando, unitamente ad altri preti della Diocesi, 
					decise di tornare ad occuparsi a tempo pieno delle anime. Il paese era diventato 
					una specie di quartier generale della Provincia in attesa 
					della liberazione di Livorno: infatti qui si fermò il 
					Comando dei Partigiani del Comandante Livio Frangioni e 
					Furio Diaz, poi Sindaco di Livorno, ebbe la più cordiale 
					assistenza durante una sua malattia in Casa Cianchi. 
					Con gli alleati 
					arrivò subito l'aiuto alla popolazione e in particolare per 
					opera del Mgg. Kait il Comune di Rosignano fu uno dei più 
					fortunati. Si ebbe una larga distribuzione di viveri 
					completamente gratuiti alla popolazione ed assistenza in 
					tutti i campi specialmente con la distribuzione di 
					disinfettanti per ostacolare eventuali malattie. 
					Il parroco si recò poi a compiere un ‘opera veramente 
					caritatevole nel paese di Rosignano per la tumulazione dei 
					cadaveri e per il loro riconoscimento, in questa opera fu 
					aiutato da una squadra di vadesi che al comando dell’Ing. 
					Aldo Morelli ebbero cura di bruciare molti cadaveri che era 
					assolutamente impossibile trasportare al Cimitero. Il paese 
					di Rosignano M.mo era una rovina completa: la Chiesa 
					squarciata, le case semidistrutte o lesionate, completamente 
					disabitato suscitava un ‘impressione tremenda. Dopo la 
					liberazione di Livorno cominciò a tornare una calma relativa 
					ed il Comune fu trasferito a Rosignano Solvay, partì 
					l‘ospedale da campo che si era installato nella Caserma 
					della R. Guardia di Finanza. 
					(Dal "Memoriale A"- 
					Archivio parrocchia di Vada) 
                                                             
	****** 
              «Il futuro? Ho rinnovato la patente fino al 2002» «Vada? Ora è più brutta»  
	
    
	
    Tra 
    le cose se non impossibili, per lo meno molto difficili, c'è quella di 
    intervistare don Antonio Vellutini. Come si fa a intervistare un torrente in 
    piena, a chiudere nello stretto recinto del domanda e risposta un vulcano 
    scoppiettante di idee, associazioni fra fatti della vita quotidiana e 
    riferimenti storici, aneddoti, gravi riflessioni filosofiche e trancianti 
    giudizi che non ammettono replica? Don Antonio Vellutini, per oltre mezzo 
    secolo parroco di Vada, oggi compie 90 anni. «Dall'alto di questa età - dice 
    mentre l'intervista si trasforma subito in una sorta di monologo, circondati 
    da montagne di libri che affollano la sua casa - mi piace guardare con un 
    certo distacco ai fatti che succedono e a quelli successi in passato». Un 
    distacco che non significa certo disinteresse o mancanza di passione. Anzi. 
    Questa sorta d'intangibilità data dall'età rende i suoi slanci - sempre 
    critici, polemici, mai ipocriti o accomodanti - ancora più taglienti, anche 
    caustici, sempre e comunque supportati da convinzioni fermissime e da una 
    cultura vasta quanto aggiornata. «Ho sempre detto in faccia quello che penso 
    e ho sempre chiamato pane il pane e vino il vino». E questo che si parli di 
    politica, di Chiesa, di letteratura o di fatti paesani. Qualche esempio del 
    don Vellutini-pensiero versione 2000? Eccoli. Destra. «Non sopporto le 
    divisioni, i settarismi ideologici. Per fare un esempio, le polemiche sui 
    giovani morti combattendo per la Repubblica di Salò. Non erano diversi dai 
    loro coetanei che combattevano dall'altra parte. Erano cresciuti con quelle 
    idee, non potevano fare diversamente. Mi piacerebbe che si fosse fatto come 
    in Francia e su tutte le loro tombe fosse stato scritto semplicemente "morto 
    per la patria"». Sinistra. «Nel '48, quando ci fu la famosa condanna del 
    comunismo, io non la lessi in chiesa; mi vergognai. Forse fui uno dei pochi 
    in Italia. Ebbi anche dei rimproveri, ma non la lessi. Chi è il comunista? E 
    uno che ha una fede politica e io credo nella libertà. Per me è ancora 
    valido il principio "libera Chiesa in libero Stato"». Berlusconi. «Diceva 
    Churchill che "il regime parlamentare è il peggiore dei regimi, ma non ce 
    n'è uno migliore". Meglio litigarsi, ma nella democrazia, nel rispetto delle 
    idee altrui. Per questo non sopporto Berlusconi, indipendentemente dalle sue 
    idee politiche, perché è un prepotente, è un ducetto in ventiquattresimo». 
    Pio IX. «La beatificazione? Mah. Bisogna dire che le critiche sono venute 
    soprattutto sul ruolo storico di questo papa. E in questo senso pochi hanno 
    ricordato che Pio IX non ebbe un segretario di Stato di valore, come può 
    essere stato Casaroli per Giovanni Paolo II nell'affrontare il problema del 
    rapporto con il blocco comunista. Insomma, Pio IX fu poco abile a gestire 
    secolarmente il problema dell'unità d'Italia e rimase come ingabbiato fra 
    questa sua pochezza politica e la mancanza di un valido segretario di 
    Stato». I Savoia. «Ancora oggi non riesco a perdonare a Vittorio Emanuele 
    III di non essere morto da re cercando d'impedire la guerra fratricida 
    scoppiata dopo l'8 settembre del '43. Per il ritorno dei Savoia oggi in 
    Italia, invece, è una cosa che non capisco. Che male possono fare? E una 
    forma di revanscismo stupida; oramai di monarchici sono rimasti pochi vecchi 
    nostalgici, la monarchia è morta e sepolta, così come l'opera lirica: 
    appartengono tutte e due a un'epoca finita». La letteratura. «Leggo ancora 
    moltissimo, ma ultimamente mi capita certa roba, li chiamano romanzi, 
    vincono anche premi importanti, ma un ragazzino del liceo scrive così. Io 
    sono rimasto al "Mulino del Po" che forse è l'ultimo romanzo scritto bene in 
    italiano; perché anche Moravia è pesante. Anche i poeti in Italia sono 
    finiti da tempo». Caro petrolio. «E chiaro che la colpa è di quelle tre o 
    quattro compagnie che egemonizzano il mercato. Io direi di fare una specie 
    di sciopero. Per tre o quattro giorni nessuno dovrebbe comprare la benzina, 
    vedreste che il prezzo calerebbe subito. E che non si può perché la benzina 
    ormai è diventata come il pane e loro se ne approfittano. Questo è il 
    capitalismo: un continuo ricatto, siamo succubi di tutto». I preti. «Quello 
    che non mi piace del clero d'oggi è che non ci sono più differenziazioni. Un 
    prete oggi non lo riconosci più, sia per come si vestono - va bene il clargy 
    man, ma un segno di distinzione ci vuole - sia per quello che fanno. Ci sono 
    preti sindacalisti, preti che fanno i politici e mi pare ci siano sempre 
    meno preti che fanno i preti, cioé che pregano». Vada. «Eh Vada. Vado poco 
    in giro per il paese perché tutti mi fermano per parlare e non sempre ne ho 
    voglia. Se esco per camminare voglio camminare e per il paese mi è 
    impossibile. E poi ora Vada è più brutta, non mi piace come hanno snaturato 
    la piazza, quei marciapiedi enormi, quella stradina stretta, le auto 
    parcheggiate sotto i platani, la chiesa rinchiusa in quell'impalcatura che 
    chissà quanto resterà là. Preferisco andare a passeggiare in campagna». Il 
    futuro. «Si vive un'epoca di transizione tra un millennio che è finito e uno 
    che comincia, ma non saprei dire se il futuro sarà migliore o peggiore. Io 
    intanto ho rinnovato la patente fino al 2002, l'ho fatto più per dispetto 
    che altro, tanto la macchina non la guido più». 
    (Di Nicola Stefanini da "Il Tirreno del 9-9-2000) 
                                                              
	****** 
    Un altro episodio che mette ulteriormente in chiaro il forte carattere di 
    questo sacerdote è raccontato da Carlo Mancini e Leo Gattini sul volume 
    "Dalle AM-lire all'Euro": 
    A febbraio 1944 comincia a funzionare il Partito Fascista Repubblicano. Il 
    segretario del fascio, un certo Cosimi gli assicurò che se avesse continuato 
    nel suo atteggiamento, sarebbe rimasto poco tempo in quella parrocchia. Don 
    Vellutini di rimando rispose:"Quel tanto che basta per veder andare via 
    lei". 
    
                                                               
	****** 
                                   
	Un museo intitolato a don Vellutini  
    
    Don 
    Vellutini non potrà avere la sepoltura nella sua chiesa, quella chiesa che 
    ha retto per più di cinquant’anni dopo averla salvata dal martirio dei 
    nazisti, ma avrà comunque un museo a lui dedicato. L’iniziativa è partita 
    dall’Accademia Gli Etruschi di Vada, che già avevano tributato un 
    riconoscimento all’anziano parroco per il cinquantenario del suo sacerdozio. 
    Ed è la stessa associazione che, in occasione del primo anniversario della 
    morte di don Antonio, ha tirato le file organizzative delle celebrazioni 
    parrocchiali. La proposta di dedicare al prete-coraggio il museo aperto 
    sulla via Aurelia, al civico 110, grazie a donazioni di soci e sostenitori 
    che hanno messo a disposizione le loro sculture e i dipinti, è scaturita da 
    un gruppo di accademici e passata al vaglio del consiglio direttivo 
    presieduto da Giovanni Mazzetti, che l’ha approvata. Il museo Gli Etruschi 
    sarà dunque intitolato alla memoria di don Antonio Vellutini. La cerimonia 
    d’intitolazione è per il mese di settembre, alla presenza del vescovo di 
    Livorno Monsignor Diego Coletti. 
    (m.m. 
    da "Il 
    Tirreno del 12-08-2003) 
                                                                  
	****** 
    
    
    Ancora le gesta di don Antonio relative all'eccidio di Vada su:
     
                "I racconti che riguardano l'eccidio" 
      di Giuliano Bramanti che trovi
    QUI 
    
                                                                
	****** 
    Per completezza riportiamo un 
    diverso profilo di Don Vellutini, tracciato da Emilio Lupichini, allora esponente 
    del comunismo locale, negli anni difficili del 
    dopoguerra. 
    ...Nel gennaio del 1947 il viaggio di De 
    Gasperi in America capovolse l'intera situazione della politica estera 
    italiana, spostando decisamente l'ago della bilancia verso il blocco 
    Americano. Quel viaggio segnò praticamente la fine dell'equilibrio interno 
    italiano e soffocò sul nascere la nuova politica estera che comunisti e 
    socialisti avevano cercato di stabilire tra Oriente e Occidente. Esplose 
    l'anticomunismo! Si cominciò con le campagne allarmistiche del tipo "Oro di 
    Dongo"; si affermò lo slogan della conquista comunista del potere con le 
    elezioni; si presentò l'immagine del comunista truculento con il coltello 
    tra i denti. Venne lanciato un appello alla crociata religiosa. Il 22 
    gennaio, durante il suo viaggio in America, De Gasperi fu accolto nella 
    Cattedrale di San Patrizio a New York dall'Arcivescovo il quale, davanti al 
    cardinale Spellman, pronunciò queste parole: «Il Mediterraneo è un mare 
    cristiano che non dovrà essere arrossato dal comunismo ateo». Questi toni 
    accesi divennero panacea di propaganda in tutte le campagne elettorali e 
    nella vita politica italiana. E' stupefacente come ancora oggi, nei proclami 
    televisivi, ritornino  alcuni di quei toni vecchi di cinquanta anni. 
    Nel clima generale che si respirava in Italia in quegli anni, anche il 
    nostro parroco, che era stato antifascista, iniziò la sua particolare lotta 
    a Vada, condannando l'Unione Donne Italiane che avevano organizzato una 
    distribuzione di pacchi dono alle famiglie più bisognose in occasione delle 
    festività pasquali. I dirigenti del P.C.I. locale, furono invitati sotto il 
    sacrato della chiesa ad un pubblico dibattito che finì in un alterco di 
    offese. Don Vellutini continuò per anni a perseguire con atti e iniziative i 
    comunisti ed i democratici di Vada: fummo informati che all'interno del 
    portone della chiesa aveva affisso un manifesto di scomunica ai comunisti. 
    Non volle celebrare matrimoni di dirigenti comunisti; non volle battezzare i 
    figli di capi-lega e attivisti ed in qualche modo riuscì a dimostrare al 
    Governo che nella casa dell'ex partito fascista esisteva già un asilo della 
    parrocchia impedendo al Comune di diventarne proprietario. Nel tempo sono 
    avvenuti altri fatti criticabili del parroco verso i cittadini di Vada. 
    Prima di lui era stato parroco per molti anni Don Mario Ciabatti che fu 
    amico di tutti. Don Mario si era prestato molto verso i suoi cittadini ed 
    era stato un parroco veramente al di sopra delle parti; Don Vellutini, con 
    le sue iniziative si è isolato recando 
    danno alla 
	 Chiesa...Nel 1947 fu pubblicato il decreto del Santo Uffizio contenente la 
    scomunica dei comunisti. Per effetto di quel decreto, tutti i fedeli che 
    professano la dottrina del comunismo, materialista e anticristiana, e coloro 
    che la difendono e ne sono propagandisti, ipsofatto incorrono nella 
    scomunica. A seguito della scomunica il nostro parroco continuò con più 
    accanimento la sua guerra contro i comunisti di Vada. Come ho già detto la 
    scomunica ebbe un effetto controproducente per la Chiesa ed anche per il 
    Paese. In Italia la Chiesa era una istituzione, una consuetudine, un 
    costume, per un Paese la cui maggioranza dei cittadini viveva nelle 
    campagne, dove aveva ereditato modi di vita che si tramandavano da 
    generazioni. Proprio a causa di questa posizione della Chiesa e per il modo 
    con il quale intendeva mantenerla, si ebbero le prime rotture con 
    l'istituzione religiosa che avvennero, non tanto per un'avversione alla 
    credenza, quanto perché essa voleva essere imposta. Si ebbe a Vada il primo 
    matrimonio civile che fu celebrato nel nostro circolo ricreativo, con tanto 
    di manifestazione pubblica, fiori, regali e brindisi; a sposarsi fu una 
    nostra compagna, responsabile delle donne contadine, che si maritò con un 
    compagno mezzadro. Il compagno Cheti, mezzadro e attivista comunista, aveva 
    da battezzare il figlio e Don Vellutini gli negò questo sacramento perché il 
    Cheti portava in tasca quella tessera. Mi ricordo, andai a Solvay a trovare 
    il prete che mi aveva fatto lezione quando frequentavo l’avviamento, Don 
    Ezio Rivera, lo incontrai davanti alla dispensa Solvay, gli presentai il 
    caso dicendogli che il Cheti intendeva battezzare il figlio e che il parroco 
    di Vada si rifiutava. Conoscevo bene Don Ezio e conoscendolo ero convinto 
    che avrebbe voluto conquistare un cristiano. Mi ricordo molto bene che, con 
    il sorriso sulle labbra che aveva avuto con i suoi ragazzi di ieri e che 
    aveva mantenuto, mi disse: «Fai venire il Cheti con il figlio a Solvay, 
    ...l'aspetto!»... 
	
    In quel periodo (1949) i 
    mezzadri tolsero al fattore la possibilità di gestire, attraverso il 
    famigerato  libretto, la contabilità della resa del podere; mi ricordo 
    di aver aiutato Francalacci, contadino della fattoria Rozzi, a gestire il 
    libretto dei conti. Sempre in questi anni si svolsero gli scioperi del 
    braccianti che organizzavano manifestazioni in bicicletta percorrendo le 
    strade comunali. Fu in una di queste occasioni che, mio malgrado, ebbi 
    ancora uno scontro con il parroco di Vada don Vellutini. Passando i 
    braccianti e non avendomi visto, don Vellutini si rivolse a Boschi Dario e 
    gli disse: 
    «Cosa girano questi matti!».
    Ed io che l'avevo udito gli 
    risposi: «Ci sono tanti 
    manicomi». 
    Il parroco vedendomi reagì 
    violentemente, nacque tra noi un battibecco vivace, molta gente si avvicinò; 
    il parroco molto arrabbiato mi si rivolse contro affermando: «Voi... 
    (sapeva che facevo parte della segreteria della C.G.I.L. di Rosignano)...invitate 
    questa gente alla lotta e la tradite per 30 mila lire!», prese la 
    bicicletta e sparì. La sera stessa mi rivolsi alla caserma del Carabinieri e 
    feci regolarmente querela per diffamazione. Il giorno dopo il maresciallo 
    dei Carabinieri andò a trovare don Antonio e gli riferì della mia 
    iniziativa. Bernini Leone fu cercato dal parroco e insieme vennero a 
    trovarmi dove abitavo: il prete si scusò in presenza del Bernini, ma a me 
    questo non bastò perché l'annuncio infamante nel miei confronti fu fatto in 
    presenza di almeno 200 persone. Proposi allora di riunire quelle persone, le 
    scuse le avrebbe fatte pubblicamente, ma il parroco mi rispose che 
    organizzare questo incontro era impossibile e mi avrebbe inviato una 
    lettera. Il giorno dopo infatti mi giunse questa lettera, intestata Chiesa 
    di San Leopoldo, con la quale don Vellutini riconosceva la serietà e il 
    valore della Camera del Lavoro. Ritirai la denuncia. 
	
                           
                          (Da: "Ricordi di un operaio" di Emilio Lupichini 
                          1997,  scaricabile dal sito) 
	
                                                                               
	****** 
	
	(Occorre tenere presente che nei paesi conquistati dall'Armata Rossa e 
	divenuti comunisti in meno di due anni, la Chiesa fu bersaglio di feroci 
	repressioni. Non è quindi difficile per lo storico comprendere quali fossero 
	le preoccupazioni di Pio XII che aveva rischiato la vita durante la breve 
	repubblica dei Soviet a Monaco di Baviera e per cui l'Urss era la casa madre 
	di una minacciosa strategia antireligiosa. Eravamo poi, agli inizi della 
	guerra fredda, vale a dire in un momento in cui nessuno poteva prevedere gli 
	esiti del conflitto. - ndr).  
	 
                                                                               
	****** 
	Il 5 ottobre 2012 a Vada, intitolazione di "Via Don Antonio Vellutini" 
	(tratto di strada che inizia all'incrocio con via B. Telesio e collega via 
	Aurelia con via per Rosignano), alla presenza del vescovo di Livorno, 
	monsignor Simone Giusti. 
	 
                              
	  
	"Don Vellutini è stato 
	oltre ad un grande sacerdote, un uomo delle istituzioni che con impegno 
	sociale, politico e civile ha contribuito a creare la Rosignano di oggi", ha 
	affermato il sindaco Alessandro Franchi. 
	 
         
	
	  
      
	
	  
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