Rosignano Marittimo ieri |
L'antica trattoria dell'Acquabona sulla SS 206 Emilia |
Stazione di posta e cambio cavalli
fin dal 1630. L'osteria, menzionata nei documenti estimali del 1630, era di proprietà della famiglia Vernaccini (cittadini pisani), che la possedevano insieme ai due mulini idraulici dell'Acquabona. Passata poi ai Mastiani Brunacci che la ricostruivano dopo il terremoto del 1846, l'edificio, prospiciente la ex Strada Maremmana, oggi di proprietà della famiglia Dottori di Rosignano ha sempre ospitato un posto di ristoro gestito negli ultimi 40 anni dai 5 fratelli Sangiorgi che chiudono nel 2011 per lavori di manutenzione irrinunciabili. Prima delle Ferrovie i viaggi si effettuavano con le diligenze, le quali recavano da un paese all'altro anche la posta. Così in un certo tempo la posta di Pisa, per Rosignano, faceva capo all'Acquabona, all' Osteria di Giuseppe Zanobini detto Geppe Santo (l'altra si trovava a Caletta), rimasto celebre per le sue eccentricità, non sempre di buona lega come narrato più avanti. Durante il periodo dello sfruttamento della cava da parte della Solvay (1914-1928), l'osteria era tornata agli antichi splendori, rinnovata e piena di animazione. Tavoli moltiplicati e ressa giorno e sera. Porzioni saporite ad abbondanti. Oggi l'Acquabona è un tranquillo agglomerato di case in fondo alla salita che lo collega al paese di Rosignano M.mo, poste lungo la strada a monte del piazzale lungo la Via Emilia. Si riconosce lo stile dei palazzoni Solvay. Non molto è rimasto visibile della frenetica attività della cava di inizio '900, ma nel vasto e ben tenuto parco che si estende alle spalle delle abitazioni è possibile ritrovare gli aspetti tipici della cava, con ampie caverne abitate dagli sfollati in tempo di guerra. Oggi è anche la sede attrezzata dell'Associazione Arcieri Sei Rose di Rosignano. È rimasta l'Osteria, frequentatissima. Le diligenze dell'Ottocento e i barrocci dei primi decenni del nostro secolo hanno lasciato posto agli autocarri. I «Tir», a pranzo e cena, riempiono il vasto piazzale. Si sa che dove si fermano i camionisti si mangia bene. Qui sotto la storia... Acquabona, la nascita della trattoria nell'800 «Geppe Santo» portava gli orecchini, due cerchi d'oro. Gli pendevano ai lati del gran viso barbuto. Aveva le mani piene di anelli, tutti di pregio, frutto delle sue imprese di brigante. Eppure questo omaccione che incuteva paura soltanto a guardarlo, lasciò a tempo opportuno la strada e le ruberie. Lasciò tabarro e cappellaccio nel capanno della macchia del «Malandrone», ma conservò gelosamente il fido schioppo «a tromba». Lo tenne, a ricordo e monito, nella casa colonica che acquistò all'Acquabona e che ripulì, abbellì, ampliò, costruendovi anche una stalla capace di ospitare cavalli e diligenze. Vi fece pitturare un'insegna: «Trattoria e Locanda». Pose una frasca, bella larga, tra la sommità della porta e la dicitura, e applicò all'architrave un lumino rosso, segnale di fermata. Così «Geppe Santo», vestito di velluto nero, con una grossa catena d'oro ad attraversargli il panciotto e un ghigno soddisfatto a far capolino tra la barba, iniziò la nuova attività. Riprendiamo da «Cronache Maremmane» le tante notizie riguardanti la ristrutturazione dell'edificio, portata a compimento con cura estrema ai particolari. Sirio Saggini la descrisse in tal modo: «Di due stanze al piano terreno ricavò uno stanzone, perché buttò giù la parete divisoria; lì, mise un banco di mescita, sette od otto tavolini e una ventina di sedie e vi adattò, bene esposti, fiaschi e bottiglie. Usò per illuminazione lumi ad olio, fatti come quelli dei barrocciai. «Nell'angolo dello stanzone ricavò una botte con la cannella pronta per spillare il vino. Pose sui tavolini i bicchieri, di quelli grandi, che si chiamavano conche, erano l'invito a bere. Lasciò com'era la scala per andare di sopra, ma abbellì anche quella con un passamano e con una ringhierina di legno. «Anche di sopra, di due stanze, ne fece una grande e lì ricavò la sala da pranzo. Ci mise un grande tavolo lungo, rettangolare, per dieci persone. In un canto, ma ben visibile, appoggiò il vecchio trombone. Approntò una decina di lucerne da tavola, quelle ad olio a quattro fiaccole, di ottone lucido, artistiche, col manico e la maniglia in alto, per meglio trasportarle. La luce si irradiava nella stanza e dava riflessi quando più intensi quando meno intensi, in un gioco d'ombre e di luci che era una cosa viva, bella a vedere. Quel furbone di «Geppe» mandava su i viaggiatori di riguardo con le borse più gonfie; giù, invece, faceva fermare la gente che male accozzava il desinare con la cena...». «Trattoria-locanda», dotata anche di quattro belle camere, all'Acquabona. Qui si mangiava benissimo, come ricordano le antiche storie, ed era quasi tutto gratis. Gratis le pappardelle, i tordi allo spiedo, la lepre in salmi, il vino delle colline di Castellina, ed anche il formaggio pecorino fatto con il latte delle pecore di «Pettinagrilli», pastore di Valdiperga. «Geppe Santo» faceva pagare soltanto la salvia, usata per far rosolare i tordi. Quella salvia, però costava carissima. Di qui le rimostranze che spesso erano foriere di ritorsioni che il viandante subiva specialmente se portava con sé una borsa ben fornita. Non si sa cosa capitasse, ma nel 1901-1902, quando la vicina fattoria "Il Poggetto" per ripiantare i vigneti fece fare i nuovi “scassi” del terreno ovviamente a vanga e piccone, trovò molte ossa umane nella zona a destra della strada che porta alla casa. Solo coincidenza? Anche nei primi anni del XX secolo l'Acquabona mantenne la sua osteria, ma le caratteristiche ed il pregevole addobbo se n'erano andate insieme al suo celebre gestore. Il locale era diventato disadorno, senza più la sala da pranzo al primo piano, senza più camere. Nello stanzone a terreno erano rimasti pochi tavolini screpolati, seggiole malferme, il bancone scheggiato, e nero. Soltanto la botte, incastrata nell'angolo, si era conservata abbastanza bene. Gli avventori erano piuttosto scarsi: vi facevano tappa, come una volta, alcuni carrettieri e barrocciai e, nei giorni di festa, i pochi contadini dei dintorni. Anche nei primi anni del XX secolo l'Acquabona ebbe la sua osteria, ma le caratteristiche ed il pregevole addobbo se n'erano andate insieme al suo celebre gestore. Il locale era diventato disadorno, senza più la sala da pranzo al primo piano, senza più camere. Nello stanzone a terreno erano rimasti pochi tavolini screpolati, seggiole malferme, il bancone scheggiato, e nero. Soltanto la botte, incastrata nell'angolo, si era conservata abbastanza bene. Gli avventori erano piuttosto scarsi: vi facevano tappa, come una volta, alcuni carrettieri e barrocciai e, nei giorni di festa, i pochi contadini dei dintorni. La Società Solvay, protesa alla ricerca della pietra, calcarea, operò accurati sondaggi nella località già nel maggio del 1912, con risultati molto soddisfacenti. Pertanto il 27 aprile 1913 acquistò da Emilio Monti, per la somma di 45.000 lire, la prima area utile per gli scavi. Vennero alcuni operai a spianare il terreno e frequentarono l'osteria, che tornò gradatamente ad animarsi. Alla ditta Rotigliano furono affidati i lavori per la costruzione delle prime due case, commissionate dall'Azienda belga mentre già era allo studio il progetto della teleferica, per portare la pietra al nuovo stabilimento. Le fondamenta dei primi piloni vennero gettate nel dicembre del 1914 e i lavori proseguirono a ritmo sostenuto. Mestiere duro, quello dei cavatori. Quando la fabbrica iniziò la produzione si lavorava all'Acquabona dieci ore nei giorni feriali, sei ore la domenica, a forza di piccone e pala, con gran fatica. Nel 1917 la forza-lavoro era di circa cinquanta persone, fra minatori, caricatori, addetti alla torre, addetti alla tramoggia, manovali, apprendisti e donne. La paga media era di 35 centesimi l'ora più 75 centesimi di carovita al giorno, con eccezione per gli apprendisti e soprattutto per le donne, la cui paga oraria era di soli 17 centesimi. La teleferica era in pieno funzionamento e intorno alla «Trattoria-Locanda» che fu di «Geppe Santo» si erano affastellate altre costruzioni, aggrappate l'una all'altra davanti al piazzale. Mentre i carrelli, carichi di pietra, risalivano la collina fino al «Molino a Vento» per correre poi giù, verso la pianura e la fabbrica, l'osteria rimaneva deserta. Gli operai mangiavano pane e cipolla sul posto di lavoro. Solo di primo mattino, qualche volta, e soprattutto al tramonto, andavano a bere un bicchiere di vino per colmare l'arsura. Quando la guerra finì e la produzione dello Stabilimento si fece più massiccia, cominciarono a scatenarsi le prime battaglie sociali. La scintilla della più grave e più lunga agitazione operaia nella storia della Solvay, si accese appunto all'Acquabona. Avvenne il 17 dicembre 1919. Quel giorno ebbe avvio lo sciopero dei 62 addetti alle cave, che trascinò, poi, gli altri dipendenti della Società e provocò la serrata della fabbrica e mesi di miseria. La vertenza trovò finalmente il suo blocco solo nell'aprile del 1920, dopo quasi cinque mesi. Intanto era iniziata la costruzione della casa del capo-cava, signor Mannocci, e, tornata la normalità, in data 24 luglio 1920 la «Selection Film» chiese l'autorizzazione per poter girare un documentario sulla teleferica. «Si concede il permesso» rispose la Solvay sempre fedele al suo atteggiamento di costante riservatezza «se non verrà citato il nome del costruttore e, tanto meno, la nostra Società». Le cave dell'Acquabona ebbero il loro periodo di maggior sfruttamento negli anni dal 1924 al 1928. Raggiunsero il vertice di mezzo migliaio di unità lavorative. L'Osteria era tornata agli antichi splendori, rinnovata negli arredi, fittissima di animazione. I tavoli si erano moltiplicati e a mezzogiorno ed a sera c'era addirittura ressa, per poter mangiare. Venivano servite porzioni saporite ad abbondanti. Poi, però, la cava perse di consistenza, in linea con l'apertura dei cantieri di San Carlo. Nel 1930 aveva solo 66 addetti, l'anno seguente quasi più nessuno. Adesso l'Acquabona è un quieto agglomerato di case, le une poste quasi a semicerchio davanti al piazzale lungo la Via Emilia, le altre, che hanno pressoché del tutto perduta l'impronta Solvay, alle pendici della collina, sulla strada per il capoluogo, segnata da alcuni cipressi. Ben poco è rimasto visibile della frenetica attività d'una volta. È rimasta l'Osteria, frequentatissima. Le diligenze dell'Ottocento e i barrocci dei primi decenni del nostro secolo hanno lasciato posto agli autocarri, nel rinnovarsi della tradizione. I «Tir», alle ore del pranzo e della cena, parcheggiati al... millimetro, coprono interamente il pur vasto piazzale. Dove si fermano i camionisti - è risaputo - si mangia bene davvero. (Sintesi da "Sale e Pietra" di Celati-Gattini) (Scaricabile dal sito: "Geppe Santo dell'Acquabona malandrino e locandiere") Fra storia e leggenda all'Acquabona: GEPPE SANTO Prima del 1800 le strade maestre del nostro Comune, ed in modo particolare quelle traverse, sia di giorno che di notte, non erano sicure per i pericoli di aggressioni, nel tratto Acquabona-Malandrone, dove, in seguito all'uccisione di certo Francesco Bellomini, fu chiesto lo smacchiamento della strada, nella salita del Malandrone, luogo famoso, che tuttora ci ricorda le gesta di Geppe Santo (classe 1840) dell'Acquabona, dove aveva l'osteria. Costui - uomo corpacciuto - vestiva sempre di velluto, ed al panciotto teneva un catenaccio d'argento, campanelle d'oro agli orecchi e anelli nei diti della mano. Uomo bisbetico ed anche lazzerone incuteva timore a vederlo, con il suo barbone e per i suoi dispotici modi di vita. Di lui si dice che il Granduca Leopoldo II, passando sulla Via Emilia e conoscendo le stravaganti imprese e le sue azioni con i clienti, l'obbligò a radersi la barba, lo esortò a cambiare tenore di vita, sotto gravi sanzioni qualora avesse fatto orecchi da mercante alle intimidazioni fattegli. Beppe, impressionato e temendo il peggio, ottemperò, sebbene a malincuore, agli ordini del Sovrano, che dopo poco ripassava da lui. Quando morì la sua salma fu deposta nel camposanto di Rosignano Marittimo e con la morte di Geppe, ebbero termine anche le aggressioni del Malandrone. (Da "Vada nei secoli" di Don Mario Ciabatti) GEPPE SANTO DELL’ ACQUABONA Anche oggi, vicino alla nostra proprietà c’è il “Ristorante Acquabona” dove si mangia a prezzi onesti e molto bene. È gestito dai cinque fratelli Sangiorgi che sono specialisti dell’ospitalità e hanno ristoranti o alberghi anche a Cecina e a Cecina Mare. Nell’Ottocento, o prima ancora, era una stazione di posta gestita da un certo Giuseppe Zanobini detto Geppe Santo. La successiva stazione di posta in direzione Roma sì trovava dopo la salita del Malandrone, da cui prendeva il nome, ed era gestita dal fratello di Geppe (forse il nome della salita e della locanda derivava dal gestore, che era un po’ più che un malandrino, forse un “Malandrone”). Si dice che all’Acquabona si mangiasse bene, ma che si potesse arrivare a diverbi o a sorprese al momento di pagare il conto. Il viandante si informava del prezzo, ad esempio del pollo e, trovatolo conveniente, lo ordinava innaffiandolo col buon vino forse del Poggetto, ma quando arrivava a pagare c’era la sorpresa: il conto era “salato”. Il pollo veniva fatto pagare quanto pattuito, ma in supplemento veniva conteggiato il “costo della salvia”. Infatti il prezzo dell’erba aromatica necessaria per un buon pollo allo spiedo era molto più alto di quello del pollo, del vino e del pane messi insieme. Di qui le rimostranze che spesso erano foriere di ritorsioni che il viandante subiva specialmente se portava con sé una borsa ben fornita. Non posso assicurare cosa capitasse; posso solo affermare che nel 1901- 1902, quando mio nonno per ripiantare i vigneti fece fare i nuovi “scassi” del terreno ovviamente a vanga e piccone, trovò molte ossa nella zona a destra della strada che porta alla casa del Poggetto. Egli ha sempre asserito che erano ossa umane. Coincidenza? Né mio nonno né tantomeno io eravamo presenti ai tempi di Geppe Santo! (Da "Un ragazzo di Toscana negli anni Quaranta" di Piero Santi 1998) |
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