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				  Durante la prima guerra mondiale, iniziò la costruzione della 
				casa del capo-cava, signor Mannocci e a seguire le altre case 
				operaie tipo "palazzoni". Le cave dell'Acquabona 
				ebbero il loro periodo di maggior sfruttamento negli anni dal 
				1924 al 1928. Impiegarono fino a 500 operai, poi la cava perse 
				di importanza, mentre veniva avviato lo sfruttamento delle assai 
				più ricche cave di San Carlo. Nel 1930 rimanevano solo 66 
				persone e l'anno seguente erano praticamente chiuse. Oggi il parco è un'area pochissimo 
				conosciuta che merita invece di essere visitata e frequentata 
				per la bellezza naturalistica e selvaggia che vi si respira. 
				Costituisce la zona di allenamento e gara della "Compagnia 
				Arcieri delle sei Rose" che ha posizionato anche nei posti più 
				impervi, una notevole serie piazzole con sagome di animali 
				selvatici per gli allenamenti dei soci. La Compagnia cura e 
				raccomanda la corretta custodia di gran parte del parco. Gli 
				stessi percorsi ora utilizzati per il tiro con l’arco possono essere 
		utilizzati anche per esperienze sul campo di orientamento ed uso delle 
		carte. Le piazzole di tiro e le sagome degli animali possono essere usate come stazioni di 
		riferimento nella pratica di orientamento, rivolta ai bambini delle scuole 
		elementari e medie. In virtù delle caratteristiche geologiche del luogo possono essere 
		trovati ulteriori indirizzi per la didattica dell’ambiente. Nella parte 
				più elevata e meno accessibile sono ancora presenti parte delle 
				gallerie realizzate durante gli scavi del calcare da parte della 
				Solvay come pure i piazzali dove veniva frantumato e partiva in 
				teleferica per lo stabilimento. Queste gallerie come pure i 
				forni sono stati a lungo abitati dagli sfollati durante l'ultima 
				guerra. Recentemente sono state organizzate intelligenti 
				esperienze didattiche denominate le 'Notti dell'archeologia', una giornata preistorica alle 
		cave dell'Acquabona con tessitura al telaio, accensione del fuoco, 
		cottura dei vasi, scheggiatura della pietra, pittura in grotta.
 1944 - IL RIFUGIO DELLE CAVE
 I primi giorni del passaggio 
				del fronte lasciammo la casa del Poggetto all'Acquabona e ci rifugiammo in una 
				galleria in disuso delle cave Solvay dopo aver messo delle 
				traverse di ferrovia a protezione dell’ingresso. Più che una 
				galleria era un antro; aveva una sola uscita. Era un budello 
				lungo una trentina di metri, largo tre circa, ancora oggi 
				esistente e là ci rifugiammo insieme a una trentina di persone 
				delle palazzine Solvay o dell’Acquabona.
 Si dormiva per terra sopra 
				dei giacigli formati da coperte, coltroni e per guanciale 
				qualche effetto personale. Uno accanto all’altro in una 
				promiscuità quasi totale.
 Si mangiava tutti insieme 
				quello che avevamo portato; disponevamo di molto pane messo in 
				sacchi da grano che però, dopo due o tre giorni, data l’umidità 
				dell’antro, era funghito. Senza curarcene, si tagliava, si 
				metteva in una zuppiera, si bagnava con l’acqua, si mescolava ai 
				pomodori e, così amalgamato, ce lo passavamo l’un l’altro lungo 
				il budello. Ognuno tuffava le mani nella zuppiera e, mentre 
				prendeva la sua porzione di “pan dei luci” (così si chiamava il 
				pastone), lo insaporiva col sudore e con lo sporco delle proprie 
				mani; si dice che gli ultimi lo sentissero più saporito; 
				comunque sembrava commestibile. Vivevamo in quell’antro stipati: 
				quaranta persone in meno di cento metri quadri!
 Dormivamo sdraiati sui 
				soliti giacigli, in posizione normale alla lunghezza della 
				galleria. Una sera, nel dormiveglia, sentimmo il nostro compagno 
				di sventura Ferrari (non credo di sbagliare il cognome) che 
				“combatteva” con uno dei suoi numerosi bambini. Improvvisamente 
				passò sopra di noi in direzione dell’ingresso. Aveva in collo un 
				bambino diarroico che, passando, lasciava tracce del suo malore 
				e molte di queste caddero su di noi. Non vi dico quanti epiteti 
				furono lanciati dai colpiti. Benché fossimo stanchi, fu 
				indispensabile ripulirsi il più possibile da quelle patacche 
				giallastre per “sopravvivere”.
 Lido Arrighi era un ragazzo 
				delle palazzine Solvay, classe 1925, riservato, ma 
				intellettualmente vivace.
 Una notte di luna si 
				presentò all’ingresso dell’antro un’ombra che noi intravedevamo 
				controluce, meglio “controluna”: era un soldato tedesco con il 
				suo elmetto ben piantato in testa e con il fucile in mano che 
				disse nella sua lingua: “Foiar (Feuer)” e noi, risvegliati da 
				quella voce, rimanemmo impietriti. Nessuno, né giovane né 
				vecchio guerriero della prima guerra mondiale, sapeva come 
				comportarsi. Passarono pochi secondi e ancora: “Foiar” ripeté 
				l’ombra dall’ingresso. Fu uno sgomento generale, ma Lido si alzò 
				dal fondo della galleria, a piedi nudi passò sopra i nostri 
				corpi distesi sui giacigli, andò verso l’ombra e porse al 
				tedesco una scatola di fiammiferi di legno forse umidi. Il 
				Tedesco disse: “Danke”. Lido gli fece capire che poteva tenere 
				tutta la scatola; la sua offerta, la sua prodigalità, non fu 
				criticata da nessuno.
 Nedo Pelosini era uno dei nostri amici dell’Acquabona anche lui 
				sfollato nelle cave per allontanarsi dalla via Emilia dove di 
				notte, fino alla fine di giugno, passavano le colonne tedesche 
				in ritirata. Come già detto, in quella galleria dormivamo uno 
				vicino all’altro e, come sempre avviene, si erano formati dei 
				gruppi a seconda delle varie età. Una notte nella zona dei 
				giovani, vicino a me, sentii degli strani e sommessi sospiri di 
				una ragazza, seguiti da un colpo secco. Tutto ciò durò poco, ma 
				capii egualmente di cosa si trattava. Forse quella ragazza aveva 
				sognato e poi si era svegliata; infatti nella penombra non 
				vedevo né intuivo altro movimento rivelatore. Solo dalla 
				disposizione dei corpi capii cosa succedeva e ciò mi fu 
				confermato il giorno dopo dall’interessato. Nedo aveva 
				casualmente allungato una mano appoggiandola delicatamente sulla 
				coscia della vicina; questa, addormentata, ma evidentemente 
				molto “viva” non reagì, forse non se ne accorse. Nedo allora 
				prese coraggio, continuò ad avanzare verso l’obiettivo e 
				l’accarezzò sino a suscitare l’estasi. Forse la giovane era 
				convinta di sognare. Nulla di incomprensibile dati i sensi 
				repressi delle giovani di buoni costumi di quei tempi, ma il 
				bello venne a questo punto: evidentemente la ragazza uscì dal 
				dormiveglia, capì cosa le era meravigliosamente accaduto e, 
				vergognandosi di sé, individuato l’autore del servizio, sparò 
				uno schiaffo tremendo sulla guancia del suo servitore. Nedo, che 
				era arrivato alle stelle, fu riportato a terra, proprio a terra!     (Sintesi da: "Un 
				ragazzo in Toscana negli anni quaranta" di Piero Santi)
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 Durante il periodo bellico, molte famiglie della Solvay, per 
				allontanarsi dalle loro abitazioni vicine allo stabilimento 
				(ritenute pericolose), sfollarono alle cave dell’Acquabona di 
				proprietà dello stabilimento, dove esistevano alcune baracche e 
				qualche piccola costruzione in muratura. Le cave erano state 
				abbandonate già da tempo dalla Società Solvay, perché aveva 
				trovato a San Carlo una pietra calcarea migliore e più 
				abbondante per produrre la soda. Un cugino del mio babbo, 
				Garibaldo Anguillesi, con la famiglia si era trasferito alle 
				cave; aveva due figlie Mirella e Emidia della mia età. Le cave 
				erano come un vasto anfiteatro circondato da alte colline. Nelle 
				abitazioni c’erano tanti bambini... L’anno scorso sono tornata 
				alle cave dopo 70 anni, ma non ho ritrovato l’incanto 
				dell’infanzia. Le baracche non ci sono più e tutta la zona è 
				coperta dalla vegetazione e dalle erbacce. Dove prima c’era 
				allegria ora c’è silenzio e solitudine. 
				Da: "Come 
				eravamo..." di Anna Maria Raigi scaricabile dal sito.
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