Pietro
Bernini, artigiano scultore originario di
Sesto Fiorentino
(1562-Roma 1629) si trasferisce a Napoli
verso il 1589,
per lavorare nel cantiere della Certosa di
San Martino e dove sposa la popolana
Angelica Galante. Nel 1605, Pietro si
sposta a Roma con la moglie e il
piccolo Gian Lorenzo, di soli sei anni,
richiamato da Paolo V,
dove ottiene la
protezione
del cardinale Scipione-Borghese e
lavorando in S. Maria Maggiore ha
l'occasione di mostrare in Vaticano il
precoce talento artistico del figlio che già
da piccolo lavora il marmo. Pietro si costruisce
casa di fronte alla Cappella Paolina a Santa Maria Maggiore,
dove il figlio Gian Lorenzo vive dall'età di 8
anni fino al 1641, anno in cui si trasferisce in una più
adatta abitazione con laboratorio in Via della Mercede.
Quando il padre Pietro muore nel 1629, Gian Lorenzo
(Napoli 1598 – Roma 1680),
architetto, scultore, pittore, scenografo, scrittore di
teatro, uno dei principali interpreti dell'arte barocca, definito da Papa Urbano VIII "...huomo raro e nato per disposizione divina..."
rimane in famiglia con la madre Angelica Galante ed i
fratelli Francesco, il più giovane Luigi ingegnere ed i due prelati
Domenico e Vincenzo.
Le opere giovanili dell'artista
appena ventenne, ne rivelano subito il
talento, raggiungendo i massimi livelli del barocco, con
le statue dei
soggetti mitologici Enea e Anchise, del Ratto di
Proserpina, del David e di Apollo e
Dafne,
oggi nella Galleria Borghese, che lo tengono
impegnato per cinque anni, dandogli una fama immediata.
Il genere del busto-ritratto fece poi la sua fortuna, anche
economica: per tutta la sua vita gli fu richiesto di
eseguire i ritratti di papi, regnanti, nobili e
personaggi più importanti e influenti del tempo, a
partire dai due del cardinale Scipione Borghese, scolpiti
nel 1632.
Il Papa Urbano che andò a trovarlo
nel 1636, perché malato e depresso, era accompagnato da sedici
Cardinali e come scrive il figlio Domenico, “... con altro
numeroso corteggio e un concorso infinito di popolo,
accorso ad ammirare la novità...". Volle visitare la casa ed il
laboratorio con le opere fatte e in corso, gli fece portare
dal medico personale un portentoso medicamento
("liquore”) capace di fargli riprendere le forze e che: “...lo haverebbe voluto imbalsamare e rendere eterno il Bernino...“ tanta era la stima di questo Papa per l’artista.
Addirittura
gli propose di ammogliarsi indicandogli una nobile romana.
Cosa alla quale "il Bernino” non dette retta perché sposò una
giovane ventenne, Caterina Tezio, figlia dell’avvocato
concistoriale, il 15 maggio 1639, che praticamente rapì
rinunciando alla sua dote di 15.000 scudi.
In precedenza aveva avuto una relazione con Costanza
Bonarelli (Buonarelli), moglie di uno dei suoi assistenti,
da lui ritratta per diletto in un indimenticabile busto. Per
oltre mezzo secolo, amato, ammirato, vezzeggiato da ben
quattro papi, decine di cardinali, addirittura dal Re Sole.
Ebbe nove figli:
Pietro Filippo, futuro canonico di S. Maria Maggiore, Paolo
Valentino che ebbe la primogenitura del padre, Francesco
anch‘egli prelato, Domenico, biografo del padre e
ottimo letterato, poi Agnese e Cecilia future monache,
Angelica, sposata al Conte Landi di Velletri, Maria
Maddalena, sposata al Marchese Lucatelli di Bologna e
Dorotea sposata col nobile napoletano De Filippo.
I principi morali di
Gian Lorenzo erano ben definiti: una fede cattolica certa ma
non convenzionale, il senso rigido dell’unione familiare, l‘affidare alla primogenitura maschile la salvaguardia del
patrimonio, il volere che i quattro figli maschi restino a
vivere in comune, aver fatto redigere l‘inventario di famiglia che, a distanza di 25 anni dalla sua morte
doveva essere sottoposto a
controllo di verifica.
Gian Lorenzo Bernini
muore a Roma nel novembre 1680 nel suo palazzo ancora
esistente in Via della Mercede.
Naturalmente dopo sei
mesi dalla sua morte, non tutte le disposizioni
testamentarie vennero rispettate: fu rinnovata la casa, l’arredo, affittati i locali del laboratorio, ecc.
Quel che fu osservato
e che riassume una gran qualità dì questo grande artista, fu
il rispetto del suo volere di conservare una delle sue ultime
opere, una commedia a cui dette il titolo: "LA VERITA' discoperta dal
tempo“, perché lasciò detto: "... guardando quella i miei
discendenti si ricordino che la più bella virtù del mondo
consiste nella VERITA', perché alla fine questa viene
discoperta dal TEMPO..."
A ereditare la casa saranno i figli di Gian Lorenzo,
essendo morto Francesco nel 1637 e ereditando dai due
fratelli prelati le loro quote e rimanendo la sola fidecommisso di
Lorenzo col fratello Luigi, col quale aveva avuto liti violente per
ragioni di donne che avevano portato Luigi a trasferirsi a
Bologna e Gian Lorenzo a trasferirsi in un più prestigioso
ambiente degno della rilevante clientela che si recava a
trovarlo.
Anche il fratello Luigi scultore e architetto (Roma 1612-1681). Costruttore ingegnoso,
nel 1634 divenne "soprastante" alla fabbrica di S. Pietro e sotto Alessandro
VII fu fatto architetto delle acque e condusse l'acqua
alle fontane di piazza S. Pietro (1677). I
discendenti dei due rami Bernini: quello di Gian Lorenzo e di Luigi si
stabiliranno rispettivamente a Roma con diramazioni a Napoli
ed in Toscana. In Emilia e al nord quelli di Luigi.
Resta da colmare il
vuoto del XVIII secolo nelle vicende dei successori degli
eredi di Gian Lorenzo.
In attesa entriamo nel XIX° secolo.
Occupiamoci per ora
della famiglia che dalla seconda metà dell’800 risiederà a
Vada.
Nel 1820 nasce a Roma, dove
risiedevano i suoi genitori, Sante Bernini
che intorno al 1843 si trasferirà in Toscana dove dimoravano,
in provincia di Pisa, suoi stretti parenti. Qui conosce una
ragazza di nome Cecilia Mercurini che sposerà l’anno
seguente. Prenderanno residenza
a La Rotta, vicino a Pontedera e qui nasceranno Aristodemo
nel 1845 e Ilario nel 1850.
Aristodemo che aveva
appreso il mestiere di falegname ritornerà a Roma dove
sposerà ed avrà un figlio di nome Ugo, ma manterrà stretti
rapporti col fratello venendo spesso a trovarlo anche
dopo la scomparsa dei loro genitori, quando Ilario si
trasferirà a Vada.
Intanto Ilario, che lavora nella fonderia
di Altopascio, viene a conoscenza nel 1872 che a
Vada gli industriali liguri Tardy stanno impiantando una
nuova fonderia e che la zona ha uno sviluppo particolarmente
promettente. Essendo ormai un buon
conoscitore del fondere metalli e pare sollecitato da
qualcuno interessato, decide di venire in questo nuovo paese
dove si sta sviluppando una nuova esperienza industriale.
Durante il tragitto
da La Rotta a Vada, conobbe una famiglia
che gestiva sotto Rosignano, uno dei tanti molini allora
attivi nella valle del fiume Fine. La famiglia si chiamava Filippeschi
ed oltre al lavoro curava
anche la passione per la musica. Infatti c’era un nonno di nome Serafino che
pare fosse bravo a suonare il violino e che in età avanzata perse
la vita attraversando il fiume Fine durante una piena. Figlio di Serafino era Andrea che aveva sposato una vadese di nome Assunta Centi. Da loro era nata a Vada la
figlia Maria Cesira che in ossequio alle tendenze di famiglia
si dedicherà anche alla musica suonando lo strumento
chiamato “Viola d ‘amore".
I Filippeschi
tornarono ad abitare in quel di Rosignano, dove appunto nel 1873
Ilario conobbe la giovane ragazza Maria Cesira Filippeschi
che il 30 ottobre del
1875 sposerà nella Chiesa di Rosignano. Ventisette anni lui
e diciotto lei.
Prenderanno dimora a Vada dove appunto Ilario aveva lavoro
nella Fonderia Tardy che iniziava la produzione il 9 febbraio
del 1876.
Ilario aveva trovato una ragazza
attiva e
decisa tanto che non contenti del lavoro in fonderia,
danno inizio anche ad una attività commerciale della quale Cesira sarà
valida protagonista.
Riusciranno
pertanto con la loro attività ed il concorso delle
rispettive famiglie ad acquistare dalla proprietà Fabbri una
buona porzione di fabbricato sulla piazza del paese: circa
40 stanze con annessi e un resede di circa 500 metri quadri, pagandolo la somma di Lire 28.000 di allora.
Grazie
alla loro operosità, malgrado la cessazione
dell’attività della Fonderia Tardy nel 1898, la
famiglia non si trovò in difficoltà.
Avevano due figli
piccoli: Ettore-Saul di 8 anni e Leone di 6. Sono gli ultimi due di una serie numerosa
di non vissuti (si diceva otto).
In questi anni la
presenza del fratello Aristodemo a Vada era
frequente. Ed i rapporti erano stretti tanto che il figlio
Ugo, che come il padre era domiciliato a Roma, venne a
sposare una ragazza di Vada che si chiamava Firmina Bandini.
La cerimonia avvenne nella Chiesa di San
Leopoldo il 24 marzo del 1890. Sarà Ilario a fare da
testimone al nipote Ugo, proprio nell‘anno di nascita del figlio Ettore, chiamato Saul.
Anche Aristodemo è
ricordato, per testimonianza dei nipoti Saul e Leone, come un tipo
dal particolare talento ed estrosità essendo stato il costruttore
della grande bussola interna all‘ingresso della Chiesa
di S. Leopoldo a Vada. Fu quello che a
seguito di un
evento climatico sali in cima alla punta del campanile a
rimettere a posto il parafulmine, non trovando il parroco gente del
mestiere disposta a rischiare l’operazione.
Aristodemo faceva
anche parte di “quei tipi” della Vada di allora, molti dei
quali si chiamavano “scaricatori di porto"
con tutte le loro prerogative e che frequentavano la “bettola”
gestita dalla famiglia Rasponi, pure loro "tipi", in quel
locale alla "dogana” sulla via del mare. Raccontavano i
nostri padri la bravata che riservavano all’ospite che non riempiva l’occhio:
o bere il vino in quel teschio
che faceva bella mostra sul bancone della mescita o essere
cacciato fuori della taverna con parole e mezzi che si
possono immaginare.
Mentre Aristodemo e
Ugo con la moglie ritorneranno a Roma, Ilario con la sua
famiglia rimarrà a Vada.
Aprono un esercizio
commerciale in un fondo di loro proprietà vendendo pannine e
prodotti attinenti.
I figli: Saul ha 10
anni e Leone ne ha 8. La loro mamma svolge la sua attività,
oltre che nelle faccende domestiche, dove però ha aiuti,
anche nel negozio, mentre il nonno Ilario, con un calesse e la
cavallina di nome ‘Stellina” gira nelle campagne dei
dintorni a vendere i suoi prodotti.
Nelle periodiche
necessità di rifornirsi per la loro attività Ilario doveva
recarsi a Livorno e come raccontato dai figli Leone e
Saul, doveva portare con sé un gran revolver
essendo la collina del Romito frequentata da gente poco
raccomandabile.
In casa Bernini le
situazione economica era piuttosto tranquilla, ma qualcosa di
imprevisto avvenne proprio quando la floridezza era
assicurata.
Era il mese di giugno
del 1901 e per premiare il figlio Saul che aveva avuto
ottimi risultati a scuola, il padre lo affidò all’amico
Giuseppe Passaglia, un viareggino sposatosi nel 1873 con una
ragazza di Vada, Fanny Smith, residenti a Vada. Passaglia, stirpe di navigatori, era
Comandante di un veliero che in quel periodo faceva la rotta
Vada-Genova e ritorno trasportando generi industriali,
alimentari, agricoli.
Saul andò col
veliero di Passaglia a Genova. Al ritorno, la voglio del
padre di rivedere il figlio, indusse Ilario ad andare
incontro al veliero con una barca a remi. Una gran sudata
non controllata determinò una polmonite, pare
recidiva, ma fatale che gli tolse la vita nel 1901.
Vedova a 44 anni con
due figli rispettivamente di 11 e 9 anni,
ultimi due di una serie perduta, Cesira sembra non
resistere molto senza un uomo, infatti a 47 anni e dopo tante gestazioni, accetterà di
andare a nozze con un giovane di 26 anni. Il nuovo
matrimonio susciterà la contrarietà dei figli, nel vedere
la loro mamma con un altro uomo, dopo nemmeno tre anni dalla morte del
babbo. Lo sposo nativo di Castellina Marittima (Pisa), dimorante a Vada con una collocazione
precaria, trovò nel matrimonio tutto quanto poteva
assicurare buone prospettive economiche. Era l’11 gennaio del 1904. Dopo circa tre anni una
paralisi ridusse Cesira nell'infermità e dopo altrettanti lasciò
marito e figli che ora avevano 21 e 19 anni e che si
rendevano ben conto della situazione di fatto che
si prospettava.
Il maggiore dei
figli, Saul, dopo un anno contrasse matrimonio con la 19enne
Ada della famiglia Dardini e nel 1913 nacque un bambino a
cui fu dato il nome di Aulo.
E' l‘anno 1913,
anno in cui viene decisa in famiglia, per investire del
capitale esistente, la costruzione di un locale da adibire a
cinematografo. Sarà costruito su un
terreno al margine della loro proprietà, al confine con
la via Aurelia allora “via del Littorale“, lato mare.
Il locale avrà una
attività limitata per il sopravvenire della prima guerra
mondiale, quella del 1914-'18 nella quale sia Saul che
Leone saranno chiamati a combattere al fronte. E’ nel luglio
del 1915 che il nuovo locale sarà concesso per una recita
diretta dall‘attore vadese Remo Lotti, e una conseguente
dimostrazione popolare in favore dell'intervento in guerra e
dei soldati al fronte.
E' alla fine del 1918,
che l'epidemia cosidetta “spagnola“ portò via Ada, la
giovane moglie di Saul.
Leone, che intanto
era rimasto nella zona di guerra come capo cantiere per il
recupero di materiali in quelle zone, prese a frequentare
una famiglia di Santa Caterina di Lusiana (Vicenza), i Dalle Nogare.
Il capofamiglia, Giuseppe, ex maresciallo dei Reali
Carabinieri, gestiva una piccola banca agricola nel suo
edificio, mentre la famiglia composta dalla moglie
Italia Libera Romana, da tre figlie Dina, Olga, Lavinia ed un
maschio Fulvio, si occupavano di gestire nei loro locali una rivendita di generi
vari, con annessa osteria. E’
qui che Leone conosce e si fidanza con Lavinia.
Intanto Saul,
ricoverato in ospedale a Pisa a seguito dei disagi al fronte
nel 1918, aveva conosciuto una infermiera, Sira
Rossi. Dopo la perdita della moglie, si ricordò di questa
ragazza che sposerà nel 1919.
Gli interessi a
Vada indussero Saul a richiamare il fratello Leone a casa
per definire col patrigno quel che
c’era da definire, anche perché questi nel 1920, aveva
contratto matrimonio con una 33enne di Castelnuovo della
Misericordia.
Intanto l'11 di
Agosto 1920, era nata Dory da Sira e Saul, mentre Leone
ritornava dalla ragazza di Santa Caterina per sposarsi. Da
loro, nel 1921 nacque Jane.
Sfortunatamente
durante un soggiorno di Lavinia dai suoi genitori, la bimba
di poco più di un anno contrarrà una infezione intestinale
che non riuscirà a superare con gran sconforto delle
famiglie di Santa Caterina e di Vada.
Sarà nel 1923 che Lavinia metterà al mondo
Vinicio, accudito anche dall‘esperienza e dall‘affetto della zia Sira con la quale ci
sarà un particolare feeling per sempre.
Le due famiglie
dei fratelli convivranno fino alla guerra del 1940-45. In questo periodo
l’attività delle famiglie vede i fratelli avviare lo sviluppo
del loro cinema a cui sarà dato il primo nome di “IRlS” con
prevalenti, distinte mansioni a cui i due fratelli sono
inclini: tecniche quelle di Saul, amministrative quelle di
Leone.
Ma essi avranno anche un
lavoro stabile nello stabilimento Solvay, Saul con la
mansione di elettricista e Leone di impiegato
amministrativo.
Con la crisi del
1929, vi furono licenziamenti che l’allora regime dominante,
il fascismo, gestiva indicando volentieri quelli non
iscritti al ”Fascio“. Saul, che fin da giovane era legato
per amicizia e per parentela a Dardo Dardini, già suo cognato e futuro Sindaco socialista del Comune di Rosignano, e lui
stesso mai tesserato al Fascio, fu licenziato. Non si
sgomentò, il nucleo familiare aveva ancora in Leone il
sostenitore, mentre Saul non stette con le mani in mano, e
fra i cento mestieri che era capace di svolgere si orientò
verso il ramo fotografia. Apri così uno studio fotografico
a Vada, nella casa di proprietà in piazza Garibaldi e uno a Rosignano Solvay.
L'attività del cinema
riprese negli anni 1923-24 ora con il nome di "CINEMA
SAVOIA" e continuò fino agli ultimi anni ‘30, quando si cominciavano ad avvertire
i suoni della seconda guerra mondiale.
I due fratelli Saul e
Leone rimasero insieme con le loro famiglie fino agli
anni ’60 costituendo fino all'ultimo un richiamo di trattenimento
familiare aperto a ogni possibile ospitalità.
Dopo la loro
scomparsa c'è da augurarsi che qualcosa dei loro
comportamenti resti in chi ne prosegue la stirpe.
(Per gentile
concessione di Vinicio Bernini)
Riprendiamo dal giornalino: “La voce di Rosignano”
gennaio 1946
numero unico dell’Università Popolare di Rosignano Solvay (Lire
5) un articolo di Leone Bernini
All’ombra delle ciminiere
Salutando questo «Numero unico»
indipendente, creato all’ombra delle Ciminiere Solvay
(superstiti da tante raffiche di morte e memori dei sibili
ferali che solcarono lo spazio della nostra vita per lungo
tempo), ci sentiamo in dovere di porgere il nostro augurio ai
solerti creatori del modesto giornaletto letterario, scevro di
colori politici, e di battaglie campanilistiche che sono triste
retaggio dall’animo e del pensiero per il progresso e per la
civiltà. Per la massa lavoratrice (dagli intellettuali ai più
umili lavoratori della terra) è aperto, da oggi, un campo in cui
ognuno può tracciare il solco della propria intelligenza
esprimendo i propri desideri o illuminare quei meandri oscurati
da1 tempo, da incapacità precedenti, da incurie, illustrando i
propositi più sani che possano dimostrare, al presente, le vie
da percorrere per l’avvenire. Pur sapendo che taluno sorriderà
di scherno o di compassione sulle righe che scorreranno sotto il
proprio sguardo, che altri censori non limiteranno l’espressione
dell’animo verso i modesti collaboratori o ne chiederanno il
tramonto prima che si affermi l’alba nel nostro cielo, noi
esortiamo tutti a far buon viso a questo piccolo ed unico numero
locale e scusarne le battute errate le cui note non saranno mai
né velate di mistero, né sincopate, né maggiorate da toni
superiori, ma saranno un armonioso canto di fratelli che
lavorano e sudano offrendo al riposo le loro modeste capacità
intellettuali per affidarle al piccolo messaggero nostra
creatura sana di uomini sani che deve crescere e vivere in terra
libera per temprare il lavoro e ricreare il corpo nel meritato
riposo. Ognuno comprenda che le migliori battaglie
sono gli incontri sul campo del lavoro fecondo di vita e
dell’intellettualità che amalgamate nel crogiolo della volontà
creeranno le basi più solide all’avvenire che deve raggiungere
un Popolo sano e civile come il nostro che cammina sulle orme
gloriose dei grandi, di cui l’Italia fu Madre e culla dal solco
di Romolo ad oggi. Noi cercheremo dar vita e questa creatura
nostra, cercheremo di trasmettere ad essa ogni idea sana del
progresso attraverso le sue righe che non nasconderanno la
lealtà dei cuori temprati fra le pareti familiari delle nostre
officine ove l’ingranaggio produttivo deve essere orgoglio e
vanto della massa nostra, usa talvolta a confondere le idee, usa
talvolta a camminare nell’ombra pericolosa della vita. La nostra
promessa è un suggello di fede che solo il tempo ed il buon
senso potranno testimoniare, e perciò noi cercheremo di
collaborare con descrizioni letterarie, umoristiche, satiriche e
brillanti nonché con osservazioni giuste, con rilievi sereni e
ponderati, che non rivestano caratteri politici né altro che
debba ledere la dignità altrui né la serietà del nostro
Giornaletto. Con ciò se ragioni plausibili ci faranno
imbracciare la Balestra della giustizia per lanciare, attraverso
le nostre colonne qualche frecciata specialmente ai gestori dal
Cinema-Teatro Solvay, ai fieri rappresentanti dal CODI, ai
baldanzosi componenti la Commissione di Fabbrica, sia essa
accolta benevolmente dato che le nostre ferite non
sanguineranno mai, ma solo insegneranno qualche sistema di
procedimento che non sarà che da commentare. Pertanto a
tutti i lavoratori dai nostri Cantieri rimane aperta la
porta del nostro piccolo edificio, ove si sapranno ospitare
simpaticamente tutti i pensieri bene espressi purché
intonati alle realtà delle cose. Bernini
Leone
******
Riprendiamo dal giornalino: “La voce di Rosignano”
giugno 1947
numero unico dell’Università Popolare di Rosignano Solvay (Lire
10) un racconto di Aulo Bernini
Contessa Azzurra
Si erano sposati cinque anni orsono ed avevano
trascorsa una vita modesta e tranquilla. Avevano condiviso con
amore e rassegnazione tutti i disagi di quei terribili mesi di
guerra e di miserie, e per quanto avessero perduto al suo
passaggio una gran parte di quello che costituiva il loro
capitale masserizio, erano ritornati sani salvi alla loro
casetta, con quel tesoro di bimbo che maggiormente li univa. Si
erano promessi di ricostruire a poco a poco il loro nido d’amore, e
specialmente lei, la sua Sandra,
voleva ridare a tutte le cose, a
tutti gli oggetti, quell'impronta
gentile e quel gusto raffinato che
rispecchiava, come una volta, la
delicatezza del sua carattere.
Giorgio era in fondo un bravo
ragazzo e le aveva sempre voluto bene, ma da qualche tempo era diventato, senza
alcun motivo
apparente, più taciturno e più rude. Non apprezzava più la quiete
della sua casa e spesso si assentava per molte ore trovando
pretesti, delle scuse strane e
banali, che non avrebbero convinto neppure il suo piccolo Silvio. Il suo tesoro, come lo chiamava lui, aveva 4 anni appena,
due occhi azzurri come la mamma ed una testina piena di riccioli biondi e lunghi, da confonderne il sesso. Sandra era
ancora bella, il volto pallido e delicato, lo sguardo dolce a intelligente.
Era intelligente davvero, forse
troppo, ed aveva capito; ma era
rimasta buona, umile, incapace di ogni difesa. Volava mantenersi
indifferente al suo Giorgio e spesso piangeva di nascosto soffocando
in un silenzio, tormentoso la
sua angoscia. Non voleva urtarlo
perché lo temeva ma solo l’aspettava molte sere, con gli occhi
spalancati nel buio e gli orecchi tesi ad agni passo, quando lui
rientrava a tarda ora. Poi, con
il cuore in gola, si limitava a dirgli le stesse parole: —
perchè cosi tardi Giorgio? Fra poco dovrai
alzarti nuovamente per recarti al lavoro. Hai freddo? Accostati
a me ti riscaldo. Sei stanco? dormi subito adesso, ma pensa alla
tua salute. Lui rispondeva qualche monosillabo a bassa voce e si
addormentava. Passarono così altri giorni altre attese, altri ritardi. La vita continuava fredda e senza colore.
Una sera, durante la cena, le sembrò che lui fosse maggiormente accessibile e
volle approfittarne. Si foce coraggio e cominciò: - senti
Giorgio - la voce le tremava e le parole si smorzavano a tratti
- mi sembra che da qualche tempo tu sia cambiato, perché ti
manca forse qualcosa? - no non mi manca nulla...-
ma soltanto non so:potrei anche
sbagliarmi, mi sembra, ecco, non
saprei dire, mi sembra di non vederti più buono e affettuoso come
prima. Non te ne sei accorto? —
Neppure per sogno! Cosa d’evo fare di più? Lavoro l’intera settimana e non vorrai privarmi certamente di qualche ora di libertà
almeno la sera. Credo di averne
il diritto, ti pare? — Ma sì, Giorgino mio, ne hai tanti diritti, anche
quello di farmi soffrire se vuoi,
ma io non voglio rimproverarti
per questo soltanto mi spiace vederti molte volte lontano da noi
anche quando ci sei vicino — Cosa vuoi
dire? spiegati non ti capisco. — Ecco, non giudicarmi male, non
voglio frugare nei tuoi pensieri, ma ti lasci sorprendere spesso
con lo sguardo vuoto ed assente da farmi pensare a tante cose tristi che non avevo mai pensato.
— Sono idee, Sandra, sono idee tue che non hanno fondamento.
- Ed allora perché ti dimostri preoccupato? Io vedo il tuo viso
talvolta contratto dai nervi come tu stessi combattendo una
lotta che non comprendo. Giorgio, Giorgio mio, non ti conosco più. Egli non aveva parole, fissava io sguardo sulla tavola
ancora ingombra dei piatti della cena, ma non vedeva nulla.
Pensava che domani lei l’aspettava per la seconda volta in
città, in quel solito caffè, da dove si sarrebbero incamminati
per andare all'albergo, in quel solito albergo, dove si pagava
bene e non si mostravano i documenti. Sentiva il desiderio di
lei sopra ogni cosa, e non pensava ad altro. Si era dimenticato
perfino di quello che gli aveva detto Mario il suo
intimo amico:
‘E’ una donna che on vale, e stata di tutti. Io posso assicurartelo come pure altri ancora; attento Giorgio e non
perderti nel
fango... Lo vuoi un pò di caffè? Egli si riscosse e poi rispose
— Grazie, vado e prenderlo fuori; dammi l’impermeabile.
Sandra
si asciugò le mani e corse a prenderlo. Tieni, non ritardare
troppo. Ciao Sandra, addio babbino, rispose il bimbo. Giorgio si
chinò in terra per baciare il suo piccino che tossiva e
giocava con una scatola vuota. L’occhio gli cadde sulle piccole
scarpe: erano rotte e bagnate. Perché non ti fai cambiare le scarpine da mamma?
Sandra si voltò di scatto’ con
gli occhi pieni di lacrime rispose: non c’e n’ha altre poverino;
domani lo tengo a letto e porto
quelle dal calzolaio. Perché piangi? Cos’hai? - Piange sempre la
mamma - rispose Silvio. Giorgio
divenne rosso di vergogna, si infilò l’impermeabile in fretta ed
uscì. La pioggia batteva contro i
vetri della finestra e il vento fischiava sui rami nudi dell’orto.
Andiamo a nanna tesoro, babbo
non e potuto restare con noi, sai, babbo ha tanto da fare, povero babbo...
Camminava nella notte, sulla strada asfaltata e luccicante dove
si rispecchiavano le lampade pubbliche e le luci dei negozi.
Era triste nell'anima, e non provava più quell'entusiasmo
segreto per l'indomani. Aveva i pensieri confusi e sconvolti e
sentiva ridestarsi a poco a poco, in un angolo remoto della sua
mente, quel rimorso che sembrava
moltiplicarsi ad ogni istante ed avanzare minaccioso.
Voleva non pensare, voleva combattere e soffocare quella voce imperiosa,
ma non ne era capace.
Si risolse infine e quasi per assicurarlo a se stesso pronunciò
forte alcune parole: domani andrò, andrò ugualmente, fosse pure
per l’ultima volta. Alzo la testa, la pioggia era cessata e
l’insegna luminosa del bar le apparve davanti. Entrò, bevve il solito
caffè, si distrasse con gli amici e
tornò a casa.
- Cosa fai alla sveglia? E’ già caricate come sempre.
-
Non curartene, devo alzarmi più
presto domani, buona notte. -
Buona notte - rispose Sandra, ma
era ancor lontana dal sonno. Pensava a lui, al suo Giorgio così
diverso, che l’aveva perduto senza un perché, senza una colpa.
Chi poteva essere quella donna
maledetta? Con qual diritto voleva portarglielo via? Non riusciva a
capire, e le passavano dalla
mente tutte le donne che lui conosceva facendo su ognuna di esse un rapido esame. Nulla. Tornò
indietro col tempo e pensò fugacemente a quella ragazza ormai
un po’ lontana che avevano conosciuto insieme laggiù, sulla
sommità di quelle colline, durante lo sfollamento. Infatti era davvero un vo’ sfacciatella quella
Maria perché le domandava sempre: dov’è il suo ‘Giorgio? Quando ritorna? E’ molto simpatico suo
marito... e teneva anche qualche
volta il suo piccolo Silvio in
braccio e gli sporcava le guancie
di rossetto perché Giorgio le ripulisse e la rimproverasse con un
sorriso incoraggiante. Forse aveva colpito giusto, ma il sonno
la sorprese e si addormentò. La sveglia segnava le sei precise e lui era già in piedi. Aveva
indosso il suo vestito migliore e la cravatta di seta pura. - Dov’è la mia sciarpa? Silenzio. Sendra, Sandra, ella si destò
pallida in
viso e gli occhi gonfi. - Cosa vuoi? Perché sei vestito così? Non devi
andare al lavoro? Si, ma, sai stasera abbiamo una conferenza al
teatro e non voglio andarci vestito da lavoro. - Ho capito, ho
capito tutto — rispose Sandra con
amarezza e si nascose sotto le
coltri. Dov’è la mia sciarpa di lana?
- E’ lì nel mio cassetto a destra, guarda. Giorgio aprì il tiretto e presa per un lembo
la sciarpa, la tirò via. Al tempo
stesso qualcosa cadde sul pavimento e andò in frantumi. Cosa
hai rotto? -Ma, non saprei, doveva
essere una bottiglietta quasi vuota credo, non vedo che vetri. Un
profumo soave e delicato si sparse subito nella camera. Lo riconobbe, riconobbe quel profumo
inconfondibile e si lasciò trasportare per un’istante sulle ali del
passato. Raccolse in silenzio i pezzi più grossi e ragionando fra se
li depose sul davanzale della finestra. Uno di questi mostrava intatta
l'etichetta e la lesse: «Contessa Azzurra». L'aveva comprata in quel
giorno ormai lontano, in quel pomeriggio di novembre che ricorreva
il 20° compleanno della sua
piccola Sandra. Era felice allora lui, e non vedeva nulla
intorno a
se che fosse più bello di quel musino pallido e delicato. L'ora incalzava e doveva partire.
Prese
il cappello, se lo calo sugli occhi
e alzandosi il bavero del cappotto disse addio a Sandra. Ella non
rispose. Entrò nella cameretta di
Silvio, si chinò per baciarlo ma ne ebbe vergogna. Il suo bimbo
dormiva sereno e inconsapevole
sognando forse quei balocchi che non aveva mai avuto. Lo carezzò
brevemente sui capelli e uscì. La
strada era buia. e deserta ed il
vento piangeva ancora sui fili
della ferrovia. La staziona era vicina. Laggiù, in direzione di
quella vedeva il suo cantiere che sonnecchiava in un letto di luci e di
vapori. Pregò quasi un rimpianto
perché sapeva che oggi sarebbe mancato, non avrebbe guadagnato
nulla e sarebbero sfumate le 5
mila lire dei suoi segreti risparmi. La voce del rimorso invase
quasi tutta la mente. Eppure lei
oggi, l’aspettava in città, come la
volta avanti, alla stessa ora, nel
solito caffè. Avrebbe passato con
lei una seconda giornata memorabile e ben diversa dai soliti appuntamenti
serali.
Pensava alle sue carezze esperte, alle sua labbra tumide e procaci al suo corpo perfetto
e dinamico, mescolando intanto quei
desideri, quelle visioni, ad altre
immagini, in quel momento importune, ma ben più care, che si
sovrapponevano a quelle. Era
giunto alla stazione, il treno era già partito dal vicino paese
e sarebbe arrivato a momenti. Fece
il biglietto e uscì nuovamente all'aperto. Il vento cominciava a
fischiare impetuoso come un lungo lamento. Giorgio l’udiva e un
brivido gli percosse le ossa. Gli
parve quasi che quei lamenti fossero il pianto delle sua Sandra
che aveva lasciata da poco nascosta sotto le coltri. Vide la sua
casa senza sorriso e nei fanali
del treno che si avvicinavano
lentamente rivide due occhi azzurrissimi e pieni di pianto. Era
lei, la sua mogliettina buona e
fedele ch forse a quell’ora stringeva fra le braccia il suo
piccolo Silvio che tossiva ancora perché aveva portato le
scarpine rotte e bagnate. Il treno arrivò in stazione, ma l’ondata
di vento prodotta dal convoglio gli buttò un
lembo della sciarpa sul viso. Non vide più nulla. Risenti quel
profumo e rimase immobile. Gli sportelli si richiusero e il treno
scomparve lasciandolo sul marciapiede. Spuntava l’alba e la
sirena del cantiere lo richiamava al lavoro. Si mosse, si
strinse la
sciarpa al collo e ella bocca e
respirò a pieni polmoni quel profumo inconfondibile di «Contessa
Azzurra» che avrebbe ricomprato la sera stessa, come una volta, per la
sua piccola Sandra. AULO BERNINI
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Il partigiano Waira:
«La politica stia fuori dalla Liberazione»
Ci sono momenti, nella vita, in cui diventa facile, quasi
automatico, sapere
«da che parte stare». Per Vinicio Bernini l’aprile del 1945 fu
uno di quei momenti. Così come pochi mesi più tardi quando, di
fronte al comando militare che gli ordinava di telefonare ad
ogni passaggio aereo sul cocuzzolo di Monforte d’Alba, terra di
tartufi e Barbera, scelse un’altra guerra. Quella partigiana,
antifascista, contro l’occupazione tedesca. Una resistenza fatta
dalle macchie, con poche armi raccolte qua e là nei depositi o
paracadutate dall’alto dagli inglesi. Arruolato nella 14esima
Divisione Garibaldi, nome di battaglia Waira, diventò uno dei
protagonisti della liberazione delle Langhe. Oggi, quasi
novant’anni, nella sua casa di viale Italia a Vada dove vive con
la moglie, con una memoria lucida che rimanda a quei giorni (un
anno vissuto tra Monforte d’Alba e Torino), ci racconta «la sua
Liberazione». Partendo da un’esortazione, un invito che non
manca mai di recapitare il 25 Aprile, ogni qualvolta enti locali
ed associazioni si apprestano a commemorare una pagina tragica
ed esaltante della nostra storia: «Non mescoliamo la Liberazione
con la politica. La guerra di Liberazione ha una sua strada. Non
mi importa se uno è comunista, socialista, democristiano.
Fascista no, quello non lo accetto. L’importante è essere una
persona retta, per bene». Dialettica di una volta che richiama
una saggezza paesana, asciutta, mai ridondante. Qualche
silenzio. «Dovete scrivere della Liberazione, non di me», è una
premessa ed un invito. Difficile, però, rispettare la consegna.
La storia vive nella memoria, ma ci proviamo. Anche se bisogna
partire dall’inizio, dalle radici vadesi e da quel giorno in cui
Vinicio e suo cugino Silvano, insieme ad altri giovani ventenni,
fu preso e messo su un treno per una destinazione sconosciuta.
«Eravamo sfollati a Saline di Volterra - racconta Bernini -
c’era un gerarca fascista, che ci aveva chiamato per presentarci
alle armi. La prima volta non andammo. La seconda dovemmo dire
di sì. A quei tempi non si scherzava. Se non mi fossi presentato
avrebbero ucciso il mio babbo». Così un ragazzo di vent’anni,
che pensa alle ragazze e a trovarsi un lavoro, si ritrova
improvvisamente chiamato ad una guerra che conosce solo perchè
nella sua famiglia si respira una cultura antifascista. «In casa
mia licenziarono il fratello del mio babbo perché non aveva
aderito al fascismo. E da Rosignano Solvay, da dove c’è il
circolino, venivano a casa mia, a Vada, ad ascoltare Radio
Londra». Racconta che quel treno si fermò a Casarza. E fu un
sospiro di sollievo. «Temevamo di finire in Germania, nei
lager». Fu alloggiato in un campo di addestramento, frequentò un
corso denominato Fluco. «Ci dettero una zona e a me e mio cugino
ci toccò Monforte d’Alba». Compito: piccole vedette italiane.
Segnalare all’esercito i movimenti di aerei sui colli delle
Langhe. Fu allora che Vinicio e gli altri soldati entrano in
contatto con la gente di Monforte. «Capivano il nostro stato, ci
aiutavano. Ricordo il medico del paese, il dottor Gallo che poi
diventò uno della Brigata. C’erano un socialista ed un
comunista, un bravo comunista, si chiamava Portonero.
Cominciammo ad organizzarci. A quei tempi, in zona, c’erano solo
le formazioni del colonnello Mauri. Così entrammo nella 14esima
Divisione d’assalto Garibaldi, la Sulis». Un crogiuolo di
nazionalità ed esperienze politiche diverse: «C’erano comunisti,
socialisti, sovietici, i maquis (resistenti) francesi, i serbi.
Ricordo che i serbi non mi piacevano. Una volta presi un pezzo
di stoffa per farci dei pantaloni, perché usavo i soliti da un
mese. Un serbo disse che avevo preso la sua stoffa e chiese la
mia fucilazione. Il comandante non fu di questo avviso».
Cominciano le azioni. «Usavamo la tecnica del mordi e fuggi, che
era il nostro motto. Non potevamo competere con i tedeschi con
le armi, quindi facevamo incursioni e poi ci ritiravamo. La
gente del posto era con noi». Paura sì, ma anche coraggio. Come
quando con la Sulis passano il Tanaro e puntano su Torino.
Combattimenti, paesi liberati, cecchini da cui guardarsi ad ogni
angolo. Come a Torino «quando io e Silvano sfuggimmo al tiro al
bersaglio in via Bertola». E’ qui, nel capoluogo piemontese, che
Bernini conosce il comandante Barbato, figura mitica della
Resistenza. E con la battaglia di Moncalieri che segna l’addio
alle armi. Un anno di cui conserva anche ricordi di momenti
difficili. Come quando, membro del tribunale di guerra, evita la
fucilazione ad un compagno partigiano beccato a rubare
vettovaglie. «Dissi al comandante che aveva tanti figli e che se
l’avessimo ucciso ce li saremmo trovati contro». O come quando,
a Torino, incontra un vadese che sta «dall’altra parte, con la
Decima Mas». «Giocavamo insieme da bimbetti ed era asserragliato
in una caserma. Dissi al mio comandante che c’era un mio
paesano, che conoscevo. Alcuni ce la fecero a scappare, lui no».
Oggi è il 25 aprile. Vinicio Bernini ha ancora tanti ricordi.
Molti li conserva con gelosia. Come i tanti nomi e i cognomi di
vincitori e vinti. La storia no, quella si può raccontare. Anzi
si deve. (Andrea
Rocchi "Il Tirreno" 25/4/2012)
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Vinicio
Bernini è nato a Vada il 15 agosto 1923 e
deceduto a Vada l'11 febbraio 2016. Durante la
seconda Guerra mondiale, sfollato a Saline di
Volterra con la famiglia, dovette presentarsi
alle armi. Insieme al cugino Silvano fu
destinato alla zona di Monforte d’Alba con il
compito di segnalare avvistamenti di aerei. Lì
cominciarono i rapporti di Bernini con i
partigiani, tanto che lui e il cugino entrarono
nella 14esima Divisione d’assalto Garibaldi, la
Sulis. Il suo impegno nelle truppe partigiane è
andato avanti dal febbraio del 1944 al maggio
45, e ha partecipato anche alla liberazione di
Torino, il 28 aprile 1945. In quei mesi di lotta
gli fu dato il nome partigiano di “Waira”. Al
termine della guerra ha cominciato a lavorare
all’interno dello stabilimento Solvay, dove è
diventato capo fabbrica dell'impianto
Polietilene, ruolo che ha ricoperto fino alla
pensione, nel 1985.
CORDOGLIO DEL SINDACO ALESSANDRO FRANCHI PER LA
SCOMPARSA DI VINICIO BERNINI.
Non appena appresa la triste notizia della
scomparsa di Vinicio Bernini, il
Sindaco
Alessandro Franchi ha voluto manifestare il
proprio cordoglio e quello del Comune di
Rosignano Marittimo, ricordando con affetto il
concittadino di Vada, classe 1923. Esempio di
impegno civile, Bernini è stato partigiano nelle
Divisioni Garibaldi delle Langhe, presidente
della Pro Loco ed autore di alcune pubblicazioni
sulla storia locale, tra cui “Quaderni Vadesi” e
“Con Vada in quegli anni”. Per tutta la vita ha
conservato l’entusiasmo e la passione che gli
hanno consentito, anche in tarda età, di
partecipare attivamente alla vita della nostra
comunità ed alle iniziative organizzate
dall’Amministrazione nell’ambito del “Progetto
Memoria”. Il Sindaco e la Giunta comunale hanno
inviato un telegramma alla famiglia per salutare
“il caro Vinicio, di cui ricorderemo sempre
l’impegno profuso in nome della libertà e della
democrazia”. (11/2/2016)
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