Vada oggi
La fila dei casotti dei pescatori da sempre presente lungo la spiaggia sud del porticciolo

                                      Vada e i pescatori pozzolani 
A Vada la comunità dei pescatori si è mantenuta più integra che altrove tanto da poterne ascoltare la storia da chi ancora ne fa parte. Varese Giovannelli, come tutti i pescatori, racconta mentre continua a cucire le reti o ad innescare gli ami dei palamiti seguendo con lo sguardo il lavoro come se leggesse i ricordi nelle trame dei calamenti o sul fondo delle coffe. Invece di descrivere il suo lavoro rievoca le immagini della prima giovinezza, quando i "trabaccoli", che pescavano a strascico, passavano la notte in rada nella zona del pontile Lamberti, allora detta "La buona posta". Di questo periodo ricorda come uno spettacolo le sagome grigie delle barche che venivano in terra e le grandi vele dipinte con figure di galli o di ancore, accese del rosso controluce del tramonto. Uguali per ogni coppia di trabaccoli, i disegni sulle vele erano il suggestivo riconoscimento del loro legame nella pesca. Gli scafi larghi e piatti giungevano vicinissimi alla riva mentre gli equipaggi, ammainate le vele, alzavano i grossi timoni con i paranchi:
— Anche le "tartane" — spiega Giovannelli, poiché il discorso è ormai sulla pesca a strascico — pescavano nella stessa maniera dei trabaccoli e delle paranze e si vedevano passare al largo, oppure fermarsi nelle bonacce per interi pomeriggi. Quando non rientravano a Livorno, due o tre marinai portavano il pesce in terra con una barchetta per spedirlo al mercato dalla stazione.
— In quegli anni, intorno al 1915, — continua Giovannelli indicando il paesaggio circostante — vicino al magazzino, c'erano i depositi di carbone da caricare sulle navi che venivano in rada; dalla spiaggia fino quasi alla vecchia torre era tutto occupato da questi grandi recinti che si chiamavano "serrate" e l'attività prevalente era quella portuale.
Infatti, l'indirizzo della pesca professionale, praticata in seguito con i tramagli ed i palamiti, era ancora agli inizi. Tuttavia già da molto tempo era frequente l'impiego di reti semplici e robuste chiamate "bestinare", adatte a prede di grosso taglio indicate come "bestino". Con il fegato di questi pesci, bollito e lasciato macerare, si faceva un olio che veniva utilizzato per lo spalmaggio dei legni di bordo, molto richiesto per le navi che facevano scalo a Vada e ceduto in cambio di maggiori quantità di olio di lino. Quasi nello stesso periodo dei Giovannelli (cioè verso il 1920), e con metodi simili, cominciarono a dedicarsi seriamente alla pesca anche i Catarsi. Bruno, il più giovane dei fratelli, nel descrivere l'ambiente, accenna ad alcune scherzose rivalità che sorgevano in occasione delle regate veliche con i gozzi da pesca a cui partecipavano i Simoncini di Caletta con l'Insuperabile, gli Ulivi di Vada con il Palombo, i Catarsi con il Leone ed un equipaggio misto di Castiglioncello a bordo del Me ne frego. Come gli altri anche Bruno parla delle difficoltà incontrate ai tempi dei remi e della vela e della prudenza apparentemente eccessiva dei pescatori nei riguardi del mare. Ma poiché le disavventure fanno parte di ogni mestiere racconta di una tramontana che lo sorprese, ragazzo, fuori delle secche di Vada e lo tenne con quattro uomini a forzare sui remi per ben otto ore prima di raggiungere il molo del faro, distante appena mezzo miglio. Li, in pieno inverno, trovarono rifugio per la notte e solo all'alba poterono far ritorno alla spiaggia dove la famiglia e i paesani attendevano muti per l'ansia (Vedi il racconto di "quella notte del '33" sulla sezione  Vada:Torre-porto-fanale" N.d.R.). Da vero figlio d'arte ricorda come l'etica di questa professione consista nell'impegno continuo per il miglioramento degli strumenti di lavoro e nel sentimento di rispetto verso il mare, a volte ostile e minaccioso, ma sempre fonte di sopravvivenza. Insieme ai metodi di pesca a cui si dedicarono, Bruno elenca i nomi delle barche via via cambiate: agli inizi la Carmelita e il Mario, nel 1930 il Leone con il primo motore entrobordo tolto da una vecchia Cytroen e riadattato alla barca; quindi il Palombo ed ultimo un piccolo peschereccio, il S. Vincenzo. La traccia su cui si è fermato questo ambiente trova continuità in più generazioni, ed è collegata alla migrazione dei napoletani che, attratti dalla pescosità delle secche e dal facile approdo, si stabilirono definitivamente a Vada dopo molti anni di permanenza stagionale. La testimonianza di Angiolino Rotta, che appartiene ad una di queste famiglie, fa risalire al nonno e al padre l'usanza di venire in Toscana da Pozzuoli con un gozzo di loro proprietà. Angiolino rammenta i primi viaggi quando era ancora un "guaglione" e le scomode partenze alle undici di sera nei giorni seguenti le feste di Natale:
— Si partiva in sette o otto barche assieme, mentre i parenti e i paesani ci salutavano dal molo. Subito dopo io mi mettevo a dormire sotto prua. La navigazione, col favore del grecale, poteva essere breve, ma a volte durava anche quindici giorni. Poiché d'inverno a Vada i grandi mucchi di alghe impedivano l'approdo, si aspettava la primavera a Piombino. Qui i pescatori trovavano alloggio vicino al mare o in paese, ma più spesso si dormiva nei magazzini dove tenevamo i vestiti e tutti gli attrezzi che avevamo in barca. Durante questi tre o quattro mesi si andava a pescare alle isole. A quei tempi non usavano i gambali e quando si tirava la barca in terra alle isole o lungo costa si stava in acqua, scalzi anche di Gennaio e di Febbraio. Il compito dei ragazzi, in queste occasioni, era di fare la legna per scaldare il pranzo e per le scorte di bordo. Benché la zona fosse pescosa eravamo in troppi e appena facevano i primi caldi e si sapeva che a Vada le alghe erano calate, andavamo a ritirare la roba al magazzino e si partiva. Quaggiù si veniva in terra nel posto detto "La bucaccia" e si dormiva in barca. Coperte con un telo chiamato cagnaro, le barche racchiudevano un ambiente che i pozzolani curavano come fosse una casa e di cui spesso, come anche Angiolino, sottolineano tuttora l'efficienza, elogiando i maestri d'ascia di Torre del Greco per la loro bravura. Lo scafo del gozzo, lungo circa quaranta palmi (dieci metri) era diviso in due zone da una paratia stagna detta "marapece": a poppa ci stavano le reti bagnate e vi si svolgevano le operazioni di pesca. Nella parte verso prua trovavano posto gli stipetti per i vestiti e le cose personali, gli strapuntini per dormire, i cambi delle vele, i pali di ferro e i paranchi per tirare la barca in secco e insieme ai piatti e alle stoviglie anche il "cardaro" per cucinare la zuppa di pesce con la legna tenuta sotto i paglioli. Quando era buona stagione, dopo aver fatto scorta di pane salato, come si usa a Napoli, le barche si trattenevano in mare quattro o cinque giorni di seguito e tutte le mattine una di esse andava a consegnare il pescato a Livorno o a Vada. Mentre facevano vela da un posto ad un altro o durante il rientro i marinai ricucivano le reti e il ragazzo stava al timone, a volte legato per paura che una sbandata improvvisa lo buttasse in mare. Non sempre il vento aiutava negli spostamenti, allora l'equipaggio metteva mano ai remi dai pesanti gironi che bilanciavano le pale, cosi lunghe da costringere a vogare il destro nella parte sinistra della barca e viceversa.
In terra le barche venivano pulite con una cura di cui Angiolino tiene a precisare i particolari; e accenna anche con un mezzo sorriso, alla dieta di pesce che ha fatto fin da piccolo. (Da "Pescatori d'altri tempi" di Claudio Castaldi, scaricabile dal sito)

    Si cominciò con i “trabaccoli” per passare alle mini flotte. l ricordo di Varese, 90 anni
Una comunità compatta, quella dei pescatori di Vada, rimasta tale fino a pochi anni fa: a quando, cioè, i vecchi hanno tirato, come si sul dire i remi in barca. Ci riferiamo ai Catarsi, Giovannelli, Rotta, Ducci, Ulivi, Grassi, Sandri, Neri, Bartoletti, Pierattelli... che del mare vivevano e di cui avevano fatto praticamente la loro abitazione a cielo aperto. Varese Giovannelli, oggi 90enne, fisico ancora robusto, è l’ultimo rappresentante di quella generazione di pescatori indomiti ai quali lo spazio aperto del mare offriva la gioia di vivere nonostante le ristrettezze ed i pericoli quotidiani.  Sin da ragazzo Varese bordeggiava sui “trabaccoli”, barche a vela che, in coppia, pescavano a strascico, spesso di notte, nella zona del pontile Lamberti o della Magona, meglio nota come Bonaposta, dove spesso le navi gettavano l’ancora quando il mare era in tempesta o in attesa di essere scaricate del carbone che che avevano nel ventre. Ma è stato a bordo pure delle “tartane”.  LE BESTINARE.  Poi si iniziò la pesca con tramagli e palamiti anche se imperavano ancora le “bestinare”, reti per grosse prede in cui rimanevano, danneggiandole, verdesche, squali volpe, pesci vacca e “bestie” di notevole caratura.  Negli anni ’20 giunsero i Catarsi con il piccolo ma ben piantato Ernesto con al seguito i figli Autilio, Romolo, Bruno e una femmina. In breve nacque una mini-flotta di barche da pesca (a remi e a vela), più tardi dotate di motori recuperati da vecchie auto ed adattati alla bisogna.   I CATARSI. Dei Catarsi rimane un gran ricordo poiché dettero vita prima alla Rotonda e poi alla Barcaccina, due locali con tanto di bagnetti: i primi apparsi a Vada. La Barcaccina, in seguito, assunse una notorietà, grazie a Vincenzo e Franco Catarsi, pari a qualche locale della Versilia, tanto da essere frequentata da attori, cantanti, complessi e persone in vista. Molte le avventure dei Catarsi per mare, tra cui ne ricordiamo una: quella in cui incappò Bruno.  ALLA DERIVA. La tramontana sorprese lui - ragazzo - con altri 4 pescatori a 4 miglia e mezzo dalla costa. Remarono fino allo stremo per raggiungere il faro di Vada (ovvero la Gabbia in cui all’epoca abitava il fanalista) dove, sfiniti, trascorsero la notte per riprendere la via di casa dopo l’alba. Sulla spiaggia ad attendere la barca, cinque famiglie in ambasce.   ULIVI E POZZOLANI. E gli Ulivi? Un’altra “stirpe” che ha speso più di mezzo secolo tra le onde. Marcello, Renato, Libero (ma soprattutto i primi due), ne hanno passate di cotte e di crude. Infine i “pozzolani”, cioè i Rotta, ma non solo loro, così chiamati perchè venivano da Pozzuoli, per compiere la stagione di pesca a remi ed a vela. Dal centro campano si muovevano 7-8 gozzi insieme per navigare, in genere, 8-15 giorni a seconda del tempo. La barca era la loro casa, la loro vita: a poppa tenevano le reti ed a prua le “brande” per dormire, gli stipetti per gli abiti. Un posto era riservato alla riserva di acqua potabile ed al caldaro ove cuocevano gli scarti di pesce. Quello di pregio veniva venduto. Col tempo decisero di restare a Vada, tanto che molte sono le famiglie che vi vivono ancora con discendenti “toscanizzati” al massimo, come del resto accadde ai loro nonni, impagabili e onesti lavoratori, che ben si integrarono con gli abitanti dell’allora piccolo borgo, dove sulla marina esistevano le tipiche casette, oggi demolite. Una vita difficile quella del pescatore, sempre esposto al pericolo, affrontata con gran rispetto per il mare, anche quando per giorni toglieva loro, con le tempeste, i mezzi di sostentamento.
Manrico Falorni 25-2-2004

                         Morto Varese Giovannelli storico pescatore
23 agosto 2006. È morto all’ospedale di Cecina dove era ricoverato, Varese Giovannelli, l’ultimo della generazione dei “vecchi” pescatori che per mezzo secolo e passa avevano caratterizzato la marina di Vada. Aveva 92 anni ma era ancora robusto, anche se la vista aveva un po’ ceduto.  Varese, che aveva sempre abitato a “Dogana”, a pochi metri dal mare, apparteneva appunto a quella stirpe che soventemente sfidava le tempeste, pur di recuperare le reti o i palamiti tanto sudati per raggranellare il denaro per sostenere la famiglia. Uomo saggio e misurato, ha insegnato il mestiere, come avevano fatto anche i Catarsi, gli Ulivi, i Rotta ed altri “clan” tradizionali che ogni giorno, spesso con grandi pericoli prendevano il largo. I funerali si svolgeranno oggi nella chiesa di San Leopoldo, dopo che il feretro sarà transitato alle “casette dei pescatori” ove Varese ha passato la maggior parte della sua lunga vita.
Il Tirreno  24-8-06

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