Fumigano intorno agli argini del fiume i "pignoni"
(Celati-Gatini)
Cataste ricoperte
di ceppe d'erba e di zolle, forate, entro le quali le fascine
bruciano in continuo per cuocere l'argilla.
Al
pari di una grande fattoria dell’Ottocento, che al suo interno aveva la
fornace da laterizi per i propri bisogni edificatori, così l’industria
Solvay si munì di questo impianto, non per vendere i mattoni, ma per
usarli nella costruzione della fabbrica, delle case per le maestranze,
delle opere sociali (scuole, teatro, impianti sportivi, ecc). Tali
mattoni, murati a faccia vista (senza intonaco), sono ancora oggi ben
riconoscibili in gran parte degli edifici realizzati dalla Solvay nel
primo mezzo secolo della sua presenza a Rosignano. L'argilla del fiume
Fine costituisce materia preziosa per far mattoni a portata di barrocci.
Cinquanta milioni di mattoni saranno necessari per la fabbrica e
l'agglomerato urbano da costruire.
Nel primo anno la produzione è di 13 milioni di mattoni, che salgono a
25 milioni nel secondo. Lungo la riva ci sono
terreni adatti per la fabbricazione e la pre-essiccazione al sole. Si
comincia con l'arrivo dei mattonai belgi
che lavorano sodo e senza risparmio,
insieme a diciannove famiglie del posto, ingaggiate al completo con
donne e bimbi, che sono presto in grado di aiutare validamente nel
processo di fabbricazione. Il caposquadra belga accende il primo
fuoco con una banconota da dieci franchi, in segno
di augurio. Come manodopera vanno bene
anche le donne che fino ad allora raccoglievano e lavavano
la gramigna per venderla ai barrocciai
lungo la via per Rosignano e la via del Littorale. Verso la fine della guerra
arrivano vedove di Vada che hanno perso
il marito al fronte e si portano dietro
i figli piccoli. Pure i più grandicelli
si danno da fare, il lavoro minorile è
ovunque sfruttato e non è certo un problema. Cataste
ricoperte di ceppe d'erba e di zolle, forate, entro le quali le
fascine bruciano in continuazione per cuocere l'argilla, formano
i «pignoni» che fumigano
intorno agli argini del fiume.
I mattoni formati ed essiccati, appena disponibili, vengono
trasferiti e accatastati al Mondiglio,
ai margini del terreno che viene spianato, e negli spiazzi
adiacenti, pronti per l'uso. I signori al centro
della foto 1 in giacca e cravatta sono presumibilmente
responsabili belgi.
Oggi di tutta questa attività durata quasi vent'anni,
non resta più niente lungo il Fine
tranne la steccaia che alimentava il
laghetto dalla quale veniva prelevata
l'acqua per lavorare l'argilla (Foto
3-4-5).
Foto 2 - In primo piano mattoni costruiti
con le presse, prima di essere immessi in fornace venivano
lasciati asciugare al sole in apposite piazze dette “aie”; i
mesi più favorevoli per questa operazione erano quelli estivi. Sullo sfondo cataste già
sfornate pronte per
essere caricate sui barrocci e portate al Mondiglio per
l'utilizzo durante la costruzione dei fabbricati dello
stabilimento.
Prevalentemente donne, ragazzi e anziani, i giovani sono in
guerra o ne hanno subito le conseguenze dirette. Le donne portano sul lavoro anche i bambini quando non
hanno dove lasciarli. Racconta
Sirio Miliani che avendo appena pochi mesi, veniva portato
nell'estate 1916, dalla madre fresca vedova di guerra, presso questa fornace dove era da
poco occupata, per poter essere allattato e poi deposto su un
giaciglio di paglia all'ombra di un fico, insieme ad altri
neonati con madri operaie, fino alla nuova poppata. Poiché invece di
crescere, i bambini calavano di peso, le madri preoccupate
pregarono un vecchio dei Polveroni di sostare non lontano dai neonati
per capire cosa succedesse. Il vecchio si accorse che una serpe
metteva la coda in bocca ai bambini per fargli rigettare il latte e
succhiarlo. Questa era, nemmeno un secolo fa la condizione
lavorativa femminile e la tutela dell'infanzia possibile nelle nostre
campagne. Situazione del tutto analoga anche alla fornace della
Magona di Cecina.
La fornace da mattoni “della Fine” o
Fornace Solvay
“Trattavasi di una fornace che utilizzava materiale argilloso
prelevato in loco, trattato, essiccato al sole e cotto nella
fornace, produceva un materiale laterizio di colore
caratteristico che la fantasia popolare denominò “mattone giallo
Solvay” (“zoccoletti” per gli edifici e “radiali” per le
ciminiere)”. Con questa sintetica, quanto efficace descrizione,
iniziava la relazione allegata alla pratica di demolizione della
vecchia ciminiera (Fig. 3), ormai pericolante, della fornace del
Fine. Scompariva così l’ultimo segno visibile di questa gloriosa
manifattura, con la quale furono cotti gran parte dei mattoni
necessari alla costruzione della fabbrica e del Villaggio
Solvay. Il 4 maggio 1923 la Società Solvay & C.ie formalizzava
l’atto di compravendita con i Berti Mantellassi per £. 45.000 di “un
appezzamento di terreno in luogo detto ‘La Fine’ avente
sopra di se una fornace da vari anni fuori uso ed in parte in
rovina, con casetta annessa composta di quattro vani a
terreno..“ La manifattura, già esistente fino dal 1908, era così
descritta al Catasto: “Fabbricato ad uso fornace da laterizi a
sistema Lanuzzi con 16 forni, tettoia per deposito materiali e
annessi”.
Prima di proseguire nella sua descrizione è opportuno fare un
passo indietro. Nel 1913, quando la Solvay iniziò i lavori per
la costruzione della fabbrica, i primi mattoni non furono
comprati presso questa fornace, ma prodotti da mattonai fatti
venire appositamente dal Belgio, che si avvalsero dell’opera “di
diciannove famiglie del posto, ingaggiate al completo con donne
e bimbi”. E probabile che la fabbricazione dei mattoni avvenisse
con presse a mano del tipo Hercule o Dubois, molto diffuse in
Belgio in quel periodo e capaci di una produzione da 5.000 a
6.000 mattoni per pressa in 8 ore di lavoro effettivo.
La materia prima era costituita dall’argilla depositata dal Fine
e la cottura avveniva nelle sue vicinanze in semplici forni di
campagna. La sabbia, usata come sgrassante da mischiare
all’argilla, proveniva invece dalla località Molino a Fuoco
(Vada). I luoghi dove si costruivano e cuocevano giornalmente
una gran quantità di mattoni erano “al Mondiglio, alla parte a
mare, ed a monte della Via Provinciale” ed uno dei proprietari
confinanti, la famiglia Berti, ebbe a lamentare “danni
gravissimi (da fumo) ai pendenti raccolti del grano, biade,
orzi, granturco, erbai d’ogni genere, viti e grappoli d’uva nei
terreni prossimi alla costruzione di detti mattoni”. La risposta
della Società Solvay, di fronte a quella che forse fu la prima
contestazione di carattere “ambientale” a dover subire
dall’inizio del suo insediamento a Rosignano, fu che nessuna
esalazione nociva era emanata dalla cottura dei mattoni, che il
lavoro era intermittente e di breve durata.
In merito ai forni da campagna c’è da rilevare che essi
presentavano il vantaggio di avere a disposizione una riserva
considerevole di mattoni, permettendo di coprire i bisogni
urgenti, ma la qualità degli stessi era scadente. Certamente
migliori e più uniformi erano le produzioni ottenute dai forni
continui, preferibili nei casi di bisogni regolari e
considerevoli.
Dal 1915 al 1920 i lavori allo stabilimento si fermarono a causa
della Prima Guerra Mondiale. A partire dal 1923, con l’acquisto
e la rimessa in funzione di questa fornace “a fuoco continuo”,
la Solvay si assicurava la cottura di 8.000-10.000 mattoni al
giorno. Vicino alla fornace furono aperte nuove cave di argilla,
che opportunamente analizzata si rivelò idonea allo scopo.
Intanto i carichi di sabbia provenienti dal Mulino a Fuoco
avevano ripreso a transitare verso il luogo di fabbricazione dei
mattoni con una frequenza di un barroccio al giorno (1923), che
raddoppiarono a partire dal 1925. Il prelievo della sabbia dalle
spiagge del litorale era soggetto a tassazione, regolamentato
nei modi di estrazione e sorvegliato dagli agenti della Finanza;
esso si protraeva da marzo/aprile sino alla fine di settembre,
coprendo in tal modo tutta la campagna di fabbricazione. Anche
il transito dei barrocci attraverso la pineta di Vada (nel
tratto della Via del Galafone) prevedeva il rilascio di una
licenza a titolo oneroso da parte dell’Amministrazione della
Foresta Demaniale di Cecina. Una delle annate maggiormente
documentate è il 1928. L’anno si aprì con il mancato rinnovo del
contratto al fornaciaio Giuseppe Morroni che, come da accordi
precedenti, lasciò libera la casa della fornace. In aprile
iniziarono i sondaggi per l’estrazione dell’argilla nel vicino
“Piano delle Sedici”; proprietario dei terreni era il Dott. Gino
Vestrini che venne indennizzato per la perdita dei “raccolti
pendenti”. Ma l’evento più importante fu certamente la “vertenza
mattonai”, che vide gli operai mattonai della Solvay rivendicare
una paga salariale in linea con una convenzione stipulata nel
maggio dello stesso anno fra i rappresentanti dell’Unione
Industriale Fascista e quelli dei Sindacati Fascisti della
Provincia di Livorno. Il carteggio agli atti di quella vertenza
offre un interessante spaccato delle condizioni di lavoro delle
maestranze in quel periodo. In particolare, un dettagliato
prospetto, redatto in data 25 luglio 1928, riassume il risultato
del lavoro svolto da 9 squadre di mattonai composte da famiglie
della zona, nonché la paga giornaliera percepita dagli operai
adulti, dalle donne e dalle ragazze/i, questi ultimi di età
compresa fra i 13 e i 17 anni. Da una sommaria elaborazione dei
dati riportati nel prospetto risulta che in 605 giornate di
lavoro furono prodotti 2.167.945 mattoni e che la produttività
di un mattonaio variava, fra le diverse squadre, da un minimo di
60 ad un massimo di 93 mattoni/ora. Quando il combustibile
utilizzato per alimentare la fornace era rappresentato da
fascine di legno, queste venivano introdotte nel fuoco con
l’aiuto di lunghe pertiche terminanti con una piccola forca.
L’introduzione del legname nel forno era un’operazione delicata
in quanto occorreva che la temperatura fosse il più uniforme
possibile in tutte le parti del forno. Il fabbisogno era stimato
in 1250 kg di legno per 1000 mattoni cotti; quando si passò al
carbone il quantitativo variava da 250 kg per l’antracite a 150
kg per il carbone vagliato a fiamma lunga. Ovviamente i consumi
di combustibile variavano in funzione delle dimensioni dei
mattoni, della compattezza delle argille, del loro grado di
umidità. Il calore all’interno del forno doveva raggiungere una
temperatura di circa 1100°, anche se questa dipendeva dalla
natura della terra d’impasto. Al fine di facilitare il passaggio
delle fiamme, i primi sei tassoni di mattoni venivano posti nel
forno verticalmente e sistemati in modo da costituire una specie
di ciminiera (camino). Si comprende come la messa in piano dei
mattoni ed il processo di cottura dovesse essere fatto da
specialisti alfine di evitare bruciature. Il caricamento di un
forno semplice (a “tino”) contenente 22.000 mattoni richiedeva 6
uomini, durante 3 giornate di 8 ore, mentre per la cottura erano
necessari due giorni e due notti di fuoco continuo. A cottura
terminata il forno doveva raffreddare lentamente (da 5 a 7
giorni a seconda della stagione) altrimenti i mattoni si
rovinavano con formazione di cavità interne e di polvere. Per
ottenere prodotti di buona qualità era indispensabile evitare
l’entrata dell’aria fredda dalle pareti laterali, per evitare
ciò anche la porta del forno doveva rimanere ben chiusa. La
proporzione di mattoni buoni in una cottura ben fatta oscillava
da 98 a 99%. Lo scaricamento durava da 1½ a 2 giorni.
A partire dal 1° gennaio 1930 la Solvay dette in locazione per
uso abitazione, ad Amadori Vincenzo (operaio), l’appartamento
annesso alla fornace. Poi, per dieci lunghi anni i documenti
tacciono fino al gennaio del 1941, quando abbiamo notizia che al
31 dicembre 1940 si concludeva la gestione di Paolo Lamberti
alla fornace del Fine e che, nell’anno successivo, l’impianto
non avrebbe lavorato a causa della guerra. In seguito a tale
evento nel 1942 la Solvay concedeva temporaneamente una parte
dei locali annessi alla fornace per l’accantonamento truppa del
47° Reggimento Artiglieria Divisione “Bari”. Dal 1947 al 1950
l’attività edilizia per la costruzione di nuove case “Solvay”
riprendeva a ritmo sostenuto ed è probabile che in quel periodo,
rimessa in funzione la fornace. Nel 1965 furono presi contatti
con una fabbrica specializzata per rimodernare l’impianto di
lavorazione dell’argilla, ma la fornace, già da tempo
abbandonata, non fu più rimessa in funzione e ne venne decisa la
demolizione.
Da "Antiche manifatture del
territorio livornese"
di R. Branchetti, M.Taddei, L.Cauli, R.Galoppini, scaricabile dal
sito)
La tutela alle madri lavoratrici
viene introdotta nel 1927
Benché le aziende avessero l’obbligo di sottoporre i dipendenti
a periodiche visite mediche non si faceva abbastanza per
tutelarne la salute, l’integrità fisica e la sicurezza sul posto
di lavoro, esattamente come in URSS e nei paesi totalitari poco
sviluppati dove vigeva un sistema di lavoro inumano e arcaico.
Non si poteva andare troppo spesso al gabinetto senza destare
sospetti e passare per scansafatiche. Nelle ritirate c’erano
cartelli che dicevano: «Non più di cinque minuti a bisogno». Gli
ambienti di lavoro erano pericolosi e malsani. I macchinari
vecchi e poco sicuri. L’officina tipica era una selva di pulegge
al soffitto collegate da cinghie di trasmissione ai macchinari
in basso, prive di protezioni e che spesso si spezzavano
colpendo il personale presente. Gli infortuni anche gravi erano
all'ordine del giorno ed erano considerati un rischio da
correre. Il concetto fascista di «civiltà» del lavoro restava
primordiale. Ma per altri versi la legge era all’avanguardia, in
ossequio al programma nazionale di aumento delle nascite. Alle
madri lavoratrici veniva garantito il diritto alla conservazione
del posto di lavoro; ed erano previsti permessi per
l’allattamento della prole e l’obbligo per le aziende con più di
500 operaie di adibire un locale a camera per l’allattamento
durante il lavoro. Tutte le lavoratrici dipendenti (escluse
quelle che percepivano un salario superiore alle 800 lire
mensili) erano assicurate per «l’evento maternità» presso
l’Istituto Nazionale Fascista di Previdenza Sociale (da cui è
derivato l’attuale INPS epurato soltanto della parola
«fascista»), che versava alla madre un assegno di 300 lire: la
metà pagata entro la prima settimana di puerperio e l’altra metà
al termine del periodo di riposo. Questa indennità veniva
corrisposta per compensare la perdita economica che la
lavoratrice subiva, visto che il datore di lavoro era tenuto a
pagare l’intero salario per il primo mese di permesso di
gravidanza, mentre per i due mesi successivi previsti dalla
legge la retribuzione veniva dimezzata.
In caso di aborto naturale (l’aborto procurato era considerato
un reato grave) la lavoratrice riceveva dall’INFPS un contributo
di 100 lire. Le donne e i fanciulli venivano esonerati da
mansioni particolarmente gravose e pericolose, e se i compiti
risultavano faticosi e insalubri avevano diritto a una riduzione
dell’orario di lavoro rispetto a quello normale e a periodi di
riposo intermedio; fermo restando che l’assunzione dei minori
era subordinata all’adempimento degli obblighi scolastici. Così
fu più difficile assumere «in nero» e impiegare bambini in età
scolare. Solo negli opifici del settore tessile laniero e serico
nel 1922 lavoravano 95.000 bambini dai 6 agli 11 anni. Nel
biellese su 80.000 addetti, 40.000 donne sottopagate e 20.000
bambini, di cui 3000 tra i 6 e 7 anni, lavoravano 12 ore al
giorno. Con la nuova legislazione del lavoro, e l’ONMI che
vigilava sulla corretta applicazione delle norme, la piaga del
lavoro minorile venne in gran parte eliminata e le famiglie
costrette a mandare i figli a scuola.
(Sintesi da: "Otto milioni di biciclette" di Romano Bracalini) |