Rosignano Marittimo ieri     8

 

                                   La sanità fra il 1600 ed il 1800
L'organizzazione sanitaria nei secoli XVII e XVIII, era praticamente inesistente e del tutto insufficiente sia per mancanza di conoscenze mediche sia perché i pochi e piccoli ospedali se presenti, più che luoghi di cura funzionavano come rifugio per i miserabili e gli incurabili. Soltanto alcuni frati, forti dello loro fede, si adoprarono per lenire i dolori fisici e le prostrazioni psicologiche di quanti, caduti malati, avevano ben poco da illudersi sulla loro sorte futura. In particolare i cappuccini, partecipi degli sconfinati dolori del popolo, splendono come rara luce in due secoli di vera decadenza del sentimento religioso, malgrado le innumerevoli processioni e le cerimonie di un culto prolisso e bigotto che non sembra sollevarsi oltre il semplice formalismo, come appare dalla lettura delle numerose cronache dell’epoca. Compiti importantissimi, come il soccorso ai malati e la sepoltura dei morti, furono lasciati ai membri delle confraternite religiose e laiche (per esempio alla Pia Casa della Misericordia), che fondarono e gestirono ospedali nelle città. Molti frati, poi, conobbero l’erboristeria e, sfruttando le molte conoscenze empiriche tratte dalla lunga pratica di assistenza ai malati, intervennero specialmente fra i più poveri con un’attività di soccorso che riguardava il corpo come lo spirito. I medici erano pochi nelle città, quasi inesistenti nelle campagne. A Castelnuovo della Misericordia è ricordata l’istituzione di una condotta medico-chirurgica dal 1786, quando a Rosignano esisteva già da tempo un medico, preceduto da un cerusico, artigiano del taglio, a mezza via fra chirurgo e barbiere. Nel «Regolamento particolare per la Comunità di Livorno» del 20 marzo 1780 si cita, come già esistente, la Cassa del Medico Chirurgo di Campagna, da cui dipendeva tutta l’area del Capitanato «vecchio» che comprendeva anche Rosignano. Gran parte della popolazione di campagna era in grado di applicare, per i disturbi più comuni e semplici dell’organismo, quei rimedi che erano noti per pratica antichissima e per i quali poteva procurarsi gli ingredienti dagli stessi prodotti offerti dal bosco, dal prato o direttamente dagli animali, per esempio le sanguisughe nei salassi, di gran moda in quegli anni (vedi Vada/campagna/Mignatte). In altri casi si ricorreva alle acque minerali, solfuree e clorurate. Quando la malattia era più grave e non bastavano i rimedi dettati dalla comune «sapienza», se c’erano i denari bastanti, si poteva interpellare un medico di città andandolo a trovare, oppure ci si poteva lasciare illudere da ciarlatani e guaritori, allora senza dubbio più numerosi di oggi, o prepararsi a tollerare l’infermità con animo rinforzato dal conforto della fede. Fra i medici non tutti recepirono gli insegnamenti dell’Aldrovandi, del Redi, del Malpighi, del Vallisnieri che, liberatisi del tradizionalismo di marca letteraria e filosofica, riferito sebbene a torto alla dottrina di Aristotele, introdussero il metodo delle osservazioni induttive e sperimentali anche nelle scienze biologiche e mediche. Tuttavia nella vicina Livorno l’ambiente cosmopolita, curioso delle novità, tipico di una città di mare priva di vincoli tradizionali, produsse e fu richiamo per ottimi studiosi nel campo delle scienze biologiche e mediche. Primo fra questi Diacinto Cestoni  che fu «protospeziale» nella Farmacia di Pescheria Vecchia, frequentata (dalla seconda metà del XVII secolo fino al 1718, anno della sua morte) appunto dal Redi e dal Vallisnieri oltre che dagli altri medici e naturalisti del tempo e dagli stessi granduchi Ferdinando II e Cosimo III. Questo speziale che «distrattamente» controllava le ricette, talora più pericolose che salutari di certi medici del tempo, ebbe uno stile di vita da igienista (raro per l’epoca), visse 81 anni in gran parte a Livorno dove fu amato dal popolo. Divenne proverbiale la sua ricetta «mangiate di meno budelloni!» che bonariamente era solito «somministrare» a quanti in occasione di feste avevano ecceduto nella tavola o nel bicchiere, abitudine tipica dei popoli che normalmente non si nutrono di cibi ricchi. Di grande importanza, malgrado alcune polemiche di attribuzione, rimangono alcune ricerche del Cestoni in campo naturalistico, medico e farmaceutico quali, specialmente, l’individuazione nei «pellicelli» (si legga: acari) degli unici responsabili della scabbia e dell’utilità dell’uso del chinino per la cura della malaria. Risulta che verso la fine del 1700 i posti letto complessivi degli ospedali livornesi, ai quali potevano accedere tutti i cittadini, toscani o stranieri, si aggiravano intorno alle 500 unità. L’efficienza di questi istituti dovette essere del tutto conforme a quei tempi, dato che questi ospedali erano poco di più che semplici rifugi per gli strati più diseredati della popolazione, dove la cura spesso si limitava alla somministrazione di una ciotola di minestra calda. I ricchi, o chi comunque poteva, si facevano curare a casa e ciò era più che logico perché gli ospedali erano meno affidabili dei medici disposti a visitare a casa il paziente. Agli ospedali si aggiunsero i lazzaretti che furono di due tipi con funzioni piuttosto differenti:
- Il primo trattava le persone delle navi che arrivavano con la patente brutta (malattie a bordo); avevano strutture permanenti, ed erano organizzati secondo disposizioni ben precise della Sanità Marittima ospitando solo malati che fossero colpiti da morbo sulle navi, in porto o in rada;
— Il secondo raccoglieva e «curava» i colpiti dalle malattie infettive al momento del diffondersi delle epidemie; avevano strutture temporanee e lo scopo principale della loro formazione era quello di isolare i contagiati dal resto della popolazione; nella maggioranza dei casi funzionarono come anticamera della morte. In qualche modo occorreva difendersi da un male terribile, la cui natura era allora completamente sconosciuta; è noto infatti che il vero agente della peste fu isolato solo nella seconda metà del XIX secolo. A differenza della malaria, della quale pure non era conosciuta l’origine ma di cui era a tutti noto il proliferare in vicinanza dei paduli, per la peste ci si affidava come unica salvezza ad una prevenzione attraverso le contumacie, che avevano dato buoni risultati. Si trattava di isolare gli appestati, e in questo si era intravisto una spiraglio di verità, in quanto il contagio avveniva anche in modo diretto fra persone. La «fuga dagli altri» è tipica di tutti i momenti nei quali si sviluppano delle malattie epidemiche, così al primo avviso di contagio, chi poteva abbandonava l'abitato per rifugiarsi in campagna nell’isolamento maggiore possibile. Ma spesso non si salvarono neppure le campagne perché un totale isolamento era in pratica irrealizzabile. Si può ricordare a questo proposito che per la pestilenza del 1633 il borgo di Luciana rimase con pochissimi abitanti, tanto che, morto anche il parroco, la cura fu affidata a quello di Lorenzana; e, ancora, che a Crespina esisteva il caseggiato della «Guardia Nuova» nel quale stanziava in tempo di peste la guardia che doveva vigilare sul paese. Al momento in cui il contagio si manifestava in una località murata, venivano chiuse le porte, perché merci e persone rimanessero isolate, mentre il vettovagliamento era assicurato senza contatti diretti. Per viaggiare da una città all’altra, anche all’interno del Granducato, occorreva (almeno in teoria) una «bolletta di sanità», rilasciata dalle autorità del luogo di partenza e attestante la mancanza di epidemie in quel luogo alla data dell’inizio del viaggio. È dubbio che tutto questo complicatissimo sistema di misure potesse funzionare con equilibrio, dato che era in mano più che ai sanitari, quasi inesistenti, ai militari, incompetenti e più inclini a rigori di difficile attuazione. Ne dovettero derivare squilibri enormi fra il puntiglio massimo e la più completa inosservanza, a seconda delle persone e delle singole situazioni. Certamente qualcuno ne fece le spese perché le pene per i trasgressori furono gravissime, come costumava in quei tempi, e divennero anche assurde durante i contagi rivelando, in realtà, l’impotenza del legislatore di fronte al terribile male. L’esempio che prescriveva «la morte» a chi si recasse ad Antignano durante la peste del 1630, è sintomatico a tale riguardo.
(Da: "Il Capitanato Nuovo di Livorno" di Renzo Mazzanti)

1866 - La Pia Casa di Lavoro di Firenze offre ricovero per mendicanti, poveri, inabili, bambini orfani.

Prevenzione anticolera nel 1867 - "Non vogliamo dottori, non ci fidiamo "



1910 - Prevenzione anticolera 
R. Prefettura della Provincia di Pisa - Pisa 23 agosto 1910.
Dalla metà di settembre incomincia il rimpatrio degli emigranti analogamente a quanto ebbesi a praticare in addietro, prego i Sigg. Sindaci di allestire fin da ora e con ogni sollecitudine l'elenco dei lavoratori che si aspettano dall'Austria, Stati Balcanici, Russia e Turchia acciò sia facile preordinare le operazioni di Vigilanza Sanitaria contro la diffusione del colera, concentrandole ove vi è maggior probabilità di pericolo in relazione ai predetti rimpatri. Appena formati degli elenchi, ne dovrò essere trasmessa copia alla Prefettura, indicando per ogni Comune il numero dei lavoratori che s'attendono rispettivamente da ogni singolo Stato predetto. Opportune indagini sui nulla osta dei passaporti potranno agevolare le notizie di cui trattasi. Gradirei assicurazione. Il Prefetto Musi.
Assicuro la Signoria Vostra che nessun emigrante si attende di ritorno da Russia, Turchia e Stati Balcanici.

Pisa 14 ottobre 1910 - Sig. Sotto Prefetto di Volterra, Sigg. Sindaci 1° Circondario
Il ministro, pur compiacendosi che le condizioni sanitarie dei colpiti da colera vadano ovunque migliorando, raccomanda vivamente che non siano perciò diminuite le misure profilattiche ed anzi continuino con la maggiore intensificazione, consigliando che una speciale vigilanza sia esercitata nei luoghi ove per necessità di fiere o di mercati si affollano molte persone, onde la pubblica nettezza vi si compia rapidamente e completamente ed anche nei locali di pubblico ritrovo, soprattutto di carattere popolare. Non sarà quindi mai abbastanza raccomandato che là dove non siano imposte da assoluta necessità, si evitino le pubbliche riunioni e quegli assembramenti che sogliono richiamare folla di gente di varia provenienza. Sarà inoltre necessaria la più vigorosa vigilanza sull'acqua potabile e sulle derrate alimentari in genere e specialmente poi su quelle che si vogliono consumare crude e che sono facilmente soggette a deperire. Da ultimo dovrò essere pronto per ogni eventuale necessità il locale di isolamento e gli adeguati presidi di disinfezione e di assistenza. Il Prefetto Musi.

1910 - Medicinali ai poveri e spedalità

Adunanza 18 luglio 1922 - Invio di ammalati allo Spedale di Cecina.
Il Presidente a nome della Giunta Municipale propone
                                                                     Il Consiglio
Udito che a Cecina è sorto un Ospedale al quale è stata assicurata l'opera di valenti medici e chirurghi del luogo e delle vicine città di Pisa e Livorno;
Ritenuto che esso praticherà la retta di £ 13 al giorno, cioè quella minima di Pisa e inferiore a quella degli altri spedali vicini;
Considerato che possa essere conveniente, in specie per le zone di Castiglioncello e Vada di inviare gli ammalati a questo nuovo nosocomio non potendo obbligare le famiglie a renunziare agli spedali delle città vicine.
                                                                       Delibera
di inviare gli ammalati poveri del Comune allo spedale di Cecina, quando sieno consenzienti le famiglie.
Nessuno domandando la parola il deliberato che sopra viene posto ai voti e resulta approvato per alzata e seduta all'unanimità.

La sanità durante il fascismo...vietato sputare

Si moriva ancora di malaria, in diminuzione ovunque, ma non al punto da non rappresentare più un pericolo mortale. In Italia dai 4085 morti nel 1922 si era passati ai 3588 nel 1925. Le bonifiche delle paludi vadesi e degli acquitrini costieri avevano portato a una drastica riduzione dei focolai, ma non alla completa scomparsa della malaria, ormai debellata in tutta l’Europa civilizzata e la bonifica doveva ancora essere completata. Ancora nel 1939, benché il chinino fosse noto da almeno due secoli come specifico per la cura della malaria, si pretendeva di combattere la malattia con la «Smalarina», la terapia senza chinino, secondo un avviso pubblicitario in voga quell’anno.
Quasi debellata la pellagra, ma non completamente. Malattia derivata da carenze di vitamine, tipica delle popolazioni di montagna che si nutrivano prevalentemente di farina di granoturco. Derivava dalla miseria come lo scorbuto e il tracoma. Non erano del tutto scomparsi il vaiolo e la rabbia. Il vaiolo era sempre stato un flagello. Nell’Ottocento la malattia era così diffusa da aver dato corso al proverbio che tutti gli uomini si ammalavano di due malattie: il vaiolo e l’amore. Ma
la malattia che faceva più paura e di cui non ci si nasconde va la gravità e la recrudescenza era la tubercolosi. Al contrario della malaria, terrore delle campagne in ogni epoca, la tubercolosi era una malattia tipicamente urbana molto diffusa all’inizio del Novecento, sia per carenze alimentari sia per scarsa conoscenza delle norme igieniche. Era anch’essa una malattia della povertà e dell’ignoranza. I dati nazionali erano allarmanti: 52.293 morti nel 1922, 59.000 nel 1925. Si dimezzeranno solo nel 1940. C’era il terrore esasperato del contagio e la convinzione che la malattia si trasmettesse per semplice contatto fisico. Le famiglie raccomandavano ai figli di non baciare nessuno, di non bere o mangiare se non in casa di persone fidate. La farmaceutica Guido Rossi aveva messo in vendita lo sciroppo «Pulmosil» che, secondo una pubblicità degli anni Venti, «vince la tubercolosi». Il pubblico si fidava più dei prodotti «galenici», ossia sciroppi e polverine preparati nel retrobottega dal farmacista di fiducia, che delle «specialità» dell’industria farmaceutica; ma con la tubercolosi ci voleva ben altro.
Con l’istituzione dei Consorzi provinciali antitubercolari si diede inizio a una campagna di informazione, prevenzione e cura che si estendeva dalle scuole elementari ai luoghi di lavoro. Ci volle una assidua attività di convincimento e propaganda per sradicare una delle più inveterate e incivili abitudini popolari: quella di sputare per terra. Sui tram e nei bar, in ogni luogo pubblico, i cartelli «E' vietato sputare» contribuirono a debellare la tremenda malattia causata dal bacillo di Koch, che poteva essere trasmesso nell’aria dai residui essiccati dello sputo. L’assistenza e la ospedalizzazione dei malati di tubercolosi era gratuita e obbligatoria per gli ospedali e le cliniche attrezzate allo scopo, e doveva essere svolta indipendentemente da ogni competenza territoriale dei singoli istituti. Un compito rilevante veniva riservato alla scuola con la giornata del fiore e della doppia croce, i simboli della lotta alla tubercolosi da cui andava difesa l’infanzia. I manifesti informavano sulle norme di profilassi: «La tubercolosi è molto contagiosa e per i neonati e per i bambini, ma scarsamente contagiosa per adulti, a meno che il contagio non sia grave e continuato». Combattere energicamente gli sputi e la polvere era un mezzo di difesa assai importante. Non si tossisca senza portare il fazzoletto alla bocca e non si sputi mai a terra. Buona norma per il tubercolotico espettorare nelle sputacchiere che il Dispensano antitubercolare forniva anche in forma tascabile ed erano presenti in tutte le sale di attesa accanto al porta ombrelli. Nel 1929 venne introdotta l’assicurazione obbligatoria contro la tubercolosi, poi estesa nel 1938 ai maestri elementari e ai direttori didattici.
Non si era estinta la piaga dell’abbandono dell’infanzia. Nel 1923, con uno dei primissimi atti del regime, il sistema della ruota
(Vedi La 'ruota' della comunità di Rosignano (1829 - 1866) di Deborah Giusti scaricabile dal sito) che imperversava da secoli e permetteva alle mamme di sbarazzarsi dei figli affidandoli alla pietà delle chiese, dei conventi e degli ospedali, era stato abolito ed era stato sostituito con quello della consegna diretta dell’infante all’istituto di assistenza o all’ufficio appositamente incaricato. Erano in aumento i tumori maligni e qui la regione più colpita era proprio la Toscana, quella meno colpita la Sardegna.
L’alcolismo era una piaga sociale e il fenomeno era in aumento. Si andava dai 664 morti nel 1922 ai 1315 nel 1925. Le osterie in Italia erano 187.000. Se ne dedusse che erano troppe, così se ne chiusero 25.000 senza concludere granché. Anche la mortalità legata a disturbi mentali era in aumento, così come il numero dei suicidi, benché dalle cronache dei giornali non risultasse.
Ma si moriva anche per malattie più comuni e frequenti dell’apparato respiratorio: bronchiti e polmoniti. Malattie da raffreddamento e specificamente legate al lavoro faticoso e disagiato dell’operaio e del contadino. Contro i mali di stagione, raffreddori, influenze, emicranie, nevralgie non c’erano rimedi efficaci, a parte la Rodina consigliata dalla pubblicità. Il raffreddore si curava al modo antico aspirando i fumi di qualche infuso d’erbe. Se trascurato, un semplice raffreddore poteva degenerare in bronchite e in broncopolmonite e, specie nelle campagne, il medico condotto poteva arrivare troppo tardi. Se il paziente non moriva, e molto spesso moriva, poteva intervenire la pleurite o la tubercolosi, malattia contagiosa, per cui era necessario il ricovero in sanatorio. Da quest’ultimo difficilmente si usciva vivi. Cavare il sangue «cattivo», come si faceva secoli prima con i salassi o le orribili mignatte, era ancora una pratica corrente e consigliata, mentre riduceva il paziente a una larva affrettandone la dipartita
(vedi Vada/campagna). L’appendicite, che non era la semplice operazione d’oggi, degenerava spesso in peritonite e il paziente moriva tra atroci dolori. Per il mal di pancia, mal di testa, inappetenza c’era un unico rimedio: l’olio di ricino. Lo si somministrava anche alle partorienti. Era semplicemente vomitevole, un incubo per intere generazioni di ragazzi. Ma si credeva facesse bene proprio perché era cattivo. Era l’idea della medicina amara dei tempi di Pinocchio. Questa almeno era la convinzione. La pubblicità vantava le doti dell’Euchessina che rispetto all’olio di ricino aveva il vantaggio di essere pratica, economica, perfino gradevole e ben tollerata anche dal più delicato intestino. L’olio di ricino non era tollerato da tutti e proprio per questo lo si somministrava agli oppositori e ai «sovversivi».
Le affezioni bronchiali si curavano con un impasto di farina di lino avvolto nella garza e applicato quasi bollente sul torace. Scioglieva il catarro e guariva i focolai d’infezione. Se sulla palpebra compariva il rossore di un orzaiolo si avvicinava l’occhio al collo di una bottiglia e se ne guardava il fondo: l’orzaiolo scompariva. In un seminario medico in Svizzera avevano sperimentato le prime lenti a contatto; ma il professore Pister, direttore della scuola superiore di ottica di Jena, «non profetizzava all’invenzione un luminoso avvenire...».
Col freddo comparivano i geloni, piaghe dolorosissime che arrossavano le mani e davano un forte prurito; una conseguenza della carenza di vitamine. Non c’erano rimedi, O meglio un rimedio c’era: l’olio di fegato di merluzzo, un altro calvario. Gli inverni erano più rigidi. Sarebbe stata necessaria una dieta più ricca di calorie. L’inizio d’anno 1940 fu tra i più rigidi a memoria d’uomo: -21 gradi nelle zone adriatiche, -14 a Brescia, -11 a Milano, Napoli era sotto la neve. Una statistica del 1938 sulla mortalità infantile quantificava in 40.000 all’anno il numero dei morti nei primi anni di vita e tra le cause principali c’era l’insufficiente protezione dell’abbigliamento contro il freddo.
I giornali erano pieni di pubblicità di insetticidi e di rimedi contro la cattiva digestione e la stitichezza. A giudicare dalla loro insistenza gli ambienti non dovevano essere troppo salubri, infestati com’erano dalle mosche e dalle zanzare, dai pidocchi e dalle cimici; e gli alimenti parevano di non facile digestione. Si proponevano polveri contro varici, ulcere, acne, eczemi. «Il sangue viziato rode la pelle.» Consigli sull’uso del sapone e del dentifricio. Digerire bene, depurare il sangue, curare la dieta dei bambini.
La pubblicità dell’Ischirogeno promette all’anziano, al vecchio, sorpreso dai malanni, di combattere gli acciacchi dell’età e di star bene. «L’Ischirogeno è una bevanda a base di fosforo, ferro, calcio, chinino, stricnina che rigenera le forze e l’organismo, debella ogni malanno e prolunga la gioia della vita. Basta ricordare soltanto i nomi di due illustri Medici: Albini e Cardarelli, che sono vissuti oltre i novant’anni usando l’Ischirogeno.»
Prodotto dalla Guidotti e C. di Pisa, l’insetticida liquido Attila, profumato, promette di distruggere mosche, zanzare e tutti gli insetti nocivi in quattro minuti. «Il Flit uccide più presto» gli fa eco la Manetti & Roberts produttrice del concorrente insetticida a spruzzo. «Le zanzare rubano il vostro vigore, tormentano i vostri nervi e guastano il vostro lavoro e i vostri divertimenti. Vaporizzate il Flit micidiale per mosche, zanzare, pulci, tignole, formiche, cimici e per le loro uova. Innocuo per le persone. Non macchia. Non confondete il Flit con altri insetticidi».

La mostruosa prolificità delle mosche viene descritta dai giornali per dare maggiore impulso alla campagna d’igiene pubblica in cui è impegnato il regime nel 1938. «Dalla metà di aprile alla fine di settembre da una sola mosca potrebbero nascere più di 128 milioni di miliardi di altre mosche.» I giornali riferiscono dei buoni risultati raggiunti dalla direzione della Sanità nella lotta alle mosche. La lotta va però proseguita, intensificata, perfezionata. Ma l’impressione è che si vada incontro a un altro fallimento. Se ne parla sempre meno. Finché l’argomento scomparirà dai giornali.
La direzione generale della Sanità aveva pubblicato un fascicoletto dal titolo: Istruzioni per impedire la moltiplicazione e la disseminazione delle mosche e relative disposizioni legislative e regolamentari. Si raccomandava più igiene in cucina, il frequente smaltimento di rifiuti, e l’uso dei «pigliamosche», ovvero la comune carta moschicida.
Il fumo non era considerato un rischio per la salute. Anzi dava tono, sicurezza, era parte del fascino maschile. La moda rappresenta l’uomo elegante in doppiopetto e borsalino con la sigaretta, da quando è stata abolita la pipa inglese. La pubblicità decanta le sigarette di Zara (manifattura tabacchi orientali - Zara): «Sono migliori di quelle estere, costano meno e sono italiane». Forte, aromatica, gusto americano, dolce, di fine gusto orientale. La pubblicità illustra la storia del tabacco attraverso i secoli. «I tempi moderni segnano il trionfo della sigaretta e del suo speciale fine tipo di tabacco. Ovunque impera il piacere squisito di una classica Macedonia extra. Sempre di più si diffonde il piacere del fumo...» Le Popolari erano le sigarette più diffuse con le AOI. C’erano le sigarette Savoia e le OND (Opera nazionale dopolavoro). L’esercito passava le sigarette Milit, che era diventato l’acrostico di «merda italiana lavorata in tubetti».
I più raffinati fumano le Tre Stelle, le Macedonia, le Turmac e le Giuba, dal fiume somalo. Gli anziani fumavano il toscano che appesta l’aria. I vecchi contadini continuavano a fumare la pipa di radica o di terra cotta usando il trinciato forte.

Generalmente si fuma molto nei paesi più poveri e arretrati. Si fuma tanto nei paesi balcanici, in Russia, in Medio Oriente, in Cina, in Turchia. Infatti si dice: «Fumare come un turco». La Germania nazista invece combatte il fumo con una martellante campagna di dissuasione. Lo slogan più convincente pare va questo: «I soldati li vogliamo sani». Si fuma molto anche in Italia e dappertutto, con poche limitazioni; si fuma in ufficio, sui tram, sui treni, davanti al superiore, nelle case l’ospite non si fa scrupolo di accendersi la sigaretta, talvolta senza nemmeno chiedere il permesso; nei caffè avvolti in una cappa di fumo acre e stagnante si fa fatica a respirare. Il fumo si mescola all’odore del caffè e al vapore acqueo della macchina espresso, enorme, d’acciaio inossidabile e ottone, lucida come una locomotiva. Una sola eccezione. Accanto a Mussolini nessuno doveva essere colto nell’atto di fumare. Il regime, che si vanta di tutelare la salute pubblica, non pare consapevole dei danni provocati dal tabacco. Non c’è alcuna prevenzione o pregiudizio; del tabacco si apprezzano il gusto e le qualità rilassanti; e il numero dei fumatori è in costante aumento, anche a causa di una insinuante pubblicità sui giornali. Dato interessante se si considera che a fumare sono soprattutto gli uomini. «Le donne possono fumare? Una simile domanda fatta quindici o vent’anni or sono» scriveva in una nota di costume sul «Mattino» Matilde Serao «avrebbe scandalizzato le persone di idee più liberali. Oggi pare una domanda un poco oziosa. La verità è che la sigaretta può essere fumata da una signora, ma sempre in via eccezionale. Bisogna accettare una sigaretta, ma non fumarne dieci al giorno. Il fumo, anche della sigaretta, fa male alla bocca, e soprattutto ai denti delle donne, e lo sa Iddio se una donna ha sempre bisogno di una bocca bella e sana, per sorridere, per parlare, per baciare!»

Fumare per la morale corrente è permesso solo alle donne ricche e alle puttane. Le donne del popolo non fumano; non fumano i preti e i ragazzi sorpresi a farlo ricevono energiche punizioni. Non si fuma nei musei e nei teatri, sarebbe vietato anche al cinema, ma fumano tutti e nessuno dice nulla. (Sintesi da: "Otto milioni di biciclette" di Romano Bracalini)

...la storia continua nelle didascalie delle foto con ...

Rosignano Marittimo - Ieri