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              La sanità fra il 1600 ed il 
				1800L'organizzazione sanitaria nei secoli XVII e XVIII, era 
              praticamente inesistente e del tutto insufficiente sia per 
              mancanza di conoscenze mediche sia perché i pochi e piccoli 
              ospedali se presenti, più che luoghi di cura funzionavano come 
              rifugio per i miserabili e gli incurabili. Soltanto alcuni frati, 
              forti dello loro fede, si adoprarono per lenire i dolori fisici e 
              le prostrazioni psicologiche di quanti, caduti malati, avevano ben 
              poco da illudersi sulla loro sorte futura. In particolare i 
              cappuccini, partecipi degli sconfinati dolori del popolo, 
              splendono come rara luce in due secoli di vera decadenza del 
              sentimento religioso, malgrado le innumerevoli processioni e le 
              cerimonie di un culto prolisso e bigotto che non sembra sollevarsi 
              oltre il semplice formalismo, come appare dalla lettura delle 
              numerose cronache dell’epoca. Compiti importantissimi, come il 
              soccorso ai malati e la sepoltura dei morti, furono lasciati ai 
              membri delle confraternite religiose e laiche (per esempio alla 
              Pia Casa della Misericordia), che fondarono e gestirono ospedali 
              nelle città. Molti frati, poi, conobbero l’erboristeria e, 
              sfruttando le molte conoscenze empiriche tratte dalla lunga 
              pratica di assistenza ai malati, intervennero specialmente fra i 
              più poveri con un’attività di soccorso che riguardava il corpo 
              come lo spirito. I medici erano pochi nelle città, quasi 
              inesistenti nelle campagne. A Castelnuovo della 
              Misericordia è ricordata l’istituzione di una condotta 
              medico-chirurgica dal 1786, quando a Rosignano esisteva già da 
              tempo un medico, preceduto da un cerusico, artigiano del taglio, a 
              mezza via fra chirurgo e barbiere. Nel «Regolamento particolare 
              per la Comunità di Livorno» del 20 marzo 1780 si cita, come 
              già esistente, 
              
              la Cassa del Medico Chirurgo di Campagna, da cui dipendeva tutta 
              l’area del Capitanato «vecchio» che comprendeva anche Rosignano.
              Gran parte della 
              popolazione di campagna era in grado di applicare, per i disturbi 
              più comuni e semplici dell’organismo, quei rimedi che erano noti 
              per pratica antichissima e per i quali poteva procurarsi gli 
              ingredienti dagli stessi prodotti offerti dal bosco, dal prato o 
              direttamente dagli animali, per esempio le sanguisughe nei 
              salassi, di gran moda in quegli anni 
				(vedi
              Vada/campagna/Mignatte). 
              In altri casi si ricorreva alle acque minerali, solfuree e 
              clorurate. Quando la malattia era più grave e non bastavano i 
              rimedi dettati dalla comune «sapienza», se c’erano i denari 
              bastanti, si poteva interpellare un medico di città andandolo a 
              trovare, oppure ci si poteva lasciare illudere da ciarlatani e 
              guaritori, allora senza dubbio più numerosi di oggi, o prepararsi 
              a tollerare l’infermità con animo rinforzato dal conforto della 
              fede. Fra i medici non tutti recepirono gli insegnamenti dell’Aldrovandi, 
              del Redi, del Malpighi, del Vallisnieri che, liberatisi del 
              tradizionalismo di marca letteraria e filosofica, riferito sebbene 
              a torto alla dottrina di Aristotele, introdussero il metodo delle 
              osservazioni induttive e sperimentali anche nelle scienze 
              biologiche e mediche. Tuttavia nella vicina Livorno l’ambiente 
              cosmopolita, curioso delle novità, tipico di una città di mare 
              priva di vincoli tradizionali, produsse e fu richiamo per ottimi 
              studiosi nel campo delle scienze biologiche e mediche. Primo 
              fra questi Diacinto Cestoni  che fu «protospeziale» nella 
              Farmacia di Pescheria Vecchia, frequentata (dalla seconda metà del 
              XVII secolo fino al 1718, anno della sua morte) appunto dal Redi e 
              dal Vallisnieri oltre che dagli altri medici e naturalisti del 
              tempo e dagli stessi granduchi Ferdinando II e Cosimo III. Questo 
              speziale che «distrattamente» controllava le ricette, talora più 
              pericolose che salutari di certi medici del tempo, ebbe uno stile 
              di vita da igienista (raro per l’epoca), visse 81 anni in gran 
              parte a Livorno dove fu amato dal popolo. Divenne proverbiale la 
              sua ricetta «mangiate di meno budelloni!» che bonariamente era 
              solito «somministrare» a quanti in occasione di feste avevano 
              ecceduto nella tavola o nel bicchiere, abitudine tipica dei popoli 
              che normalmente non si nutrono di cibi ricchi. Di grande 
              importanza, malgrado alcune polemiche di attribuzione, rimangono 
              alcune ricerche del Cestoni in campo naturalistico, medico e 
              farmaceutico quali, specialmente, l’individuazione nei «pellicelli» 
              (si legga: acari) degli unici responsabili della scabbia e 
              dell’utilità dell’uso del chinino per la cura della malaria.
              Risulta che 
              verso la fine del 1700 i posti letto complessivi degli ospedali 
              livornesi, ai quali potevano accedere tutti i cittadini, toscani o 
              stranieri, si aggiravano intorno alle 500 unità. L’efficienza di 
              questi istituti dovette essere del tutto conforme a quei tempi, 
              dato che questi ospedali erano poco di più che semplici rifugi per 
              gli strati più diseredati della popolazione, dove la cura spesso 
              si limitava alla somministrazione di una ciotola di minestra 
              calda. I ricchi, o chi comunque poteva, si facevano curare a casa 
              e ciò era più che logico perché gli ospedali erano meno affidabili 
              dei medici disposti a visitare a casa il paziente. Agli ospedali 
              si aggiunsero i lazzaretti che furono di due tipi con funzioni 
              piuttosto differenti:
 - Il primo trattava le persone delle navi che arrivavano 
              con la patente brutta (malattie a bordo); avevano strutture 
              permanenti, ed erano organizzati secondo disposizioni ben precise 
              della Sanità Marittima ospitando solo malati che fossero colpiti 
              da morbo sulle navi, in porto o in rada;
 — Il secondo raccoglieva e «curava» i colpiti dalle malattie 
              infettive al momento del diffondersi delle epidemie; avevano 
              strutture temporanee e lo scopo principale della loro formazione 
              era quello di isolare i contagiati dal resto della popolazione; 
              nella maggioranza dei casi funzionarono come anticamera della 
              morte. In 
              qualche modo occorreva difendersi da un male terribile, la cui 
              natura era allora completamente sconosciuta; è noto infatti che il 
              vero agente della peste fu isolato solo nella seconda metà del XIX 
              secolo. A differenza della malaria, della quale pure non era 
              conosciuta l’origine ma di cui era a tutti noto il proliferare in 
              vicinanza dei paduli, per la peste ci si affidava come unica 
              salvezza ad una prevenzione attraverso le contumacie, che avevano 
              dato buoni risultati. Si trattava di isolare gli appestati, e in 
              questo si era intravisto una spiraglio di verità, in quanto il 
              contagio avveniva anche in modo diretto fra persone. La «fuga 
              dagli altri» è tipica di tutti i momenti nei quali si sviluppano 
              delle malattie epidemiche, così al primo avviso di contagio, chi 
              poteva abbandonava l'abitato per rifugiarsi in campagna 
              nell’isolamento maggiore possibile. Ma spesso non si salvarono 
              neppure le campagne perché un totale isolamento era in pratica 
              irrealizzabile. Si può ricordare a questo proposito che per la 
              pestilenza del 1633 il borgo di Luciana rimase con pochissimi 
              abitanti, tanto che, morto anche il parroco, la cura fu affidata a 
              quello di Lorenzana; e, ancora, che a Crespina esisteva il 
              caseggiato della «Guardia Nuova» nel quale stanziava in tempo di 
              peste la guardia che doveva vigilare sul paese. Al momento in cui 
              il contagio si manifestava in una località murata, venivano chiuse 
              le porte, perché merci e persone rimanessero isolate, mentre il 
              vettovagliamento era assicurato senza contatti diretti. Per 
              viaggiare da una città all’altra, anche all’interno del 
              Granducato, occorreva (almeno in teoria) una «bolletta di sanità», 
              rilasciata dalle autorità del luogo di partenza e attestante la 
              mancanza di epidemie in quel luogo alla data dell’inizio del 
              viaggio. È dubbio che tutto questo complicatissimo sistema di 
              misure potesse funzionare con equilibrio, dato che era in mano più 
              che ai sanitari, quasi inesistenti, ai militari, incompetenti e 
              più inclini a rigori di difficile attuazione. Ne dovettero 
              derivare squilibri enormi fra il puntiglio massimo e la più 
              completa inosservanza, a seconda delle persone e delle singole 
              situazioni. Certamente qualcuno ne fece le spese perché le pene 
              per i trasgressori furono gravissime, come costumava in quei 
              tempi, e divennero anche assurde durante i contagi rivelando, in 
              realtà, l’impotenza del legislatore di fronte al terribile male. 
              L’esempio che prescriveva «la morte» a chi si recasse ad Antignano 
              durante la peste del 1630, è sintomatico a tale riguardo.
              
                          (Da: "Il Capitanato Nuovo di Livorno" di Renzo Mazzanti)
 
				1866 - La Pia Casa di Lavoro di Firenze offre ricovero per 
				mendicanti, poveri, inabili, bambini orfani.
  
									
              						
									Prevenzione anticolera nel 1867 - "Non 
									vogliamo dottori, non ci fidiamo "
  
  
  
  
				1910 - Prevenzione anticolera 
				R. Prefettura della Provincia di Pisa - Pisa 23 
				agosto 1910.
 Dalla metà di settembre incomincia il rimpatrio degli emigranti 
				analogamente a quanto ebbesi a praticare in addietro, prego i 
				Sigg. Sindaci di allestire fin da ora e con ogni sollecitudine 
				l'elenco dei lavoratori che si aspettano dall'Austria, Stati 
				Balcanici, Russia e Turchia acciò sia facile preordinare le 
				operazioni di Vigilanza Sanitaria contro la diffusione del 
				colera, concentrandole ove vi è maggior probabilità di pericolo 
				in relazione ai predetti rimpatri. Appena formati degli elenchi, 
				ne dovrò essere trasmessa copia alla Prefettura, indicando per 
				ogni Comune il numero dei lavoratori che s'attendono 
				rispettivamente da ogni singolo Stato predetto. Opportune 
				indagini sui nulla osta dei passaporti potranno agevolare le 
				notizie di cui trattasi. Gradirei assicurazione. Il Prefetto 
				Musi.
 Assicuro la Signoria Vostra che nessun emigrante si attende di 
				ritorno da Russia, Turchia e Stati Balcanici.
 
  
              Pisa 14 ottobre 1910 - Sig. Sotto 
				Prefetto di Volterra, Sigg. Sindaci 1° CircondarioIl ministro, pur compiacendosi che le condizioni sanitarie dei 
				colpiti da colera vadano ovunque migliorando, raccomanda 
				vivamente che non siano perciò diminuite le misure profilattiche 
				ed anzi continuino con la maggiore intensificazione, 
				consigliando che una speciale vigilanza sia esercitata nei 
				luoghi ove per necessità di fiere o di mercati si affollano 
				molte persone, onde la pubblica nettezza vi si compia 
				rapidamente e completamente ed anche nei locali di pubblico 
				ritrovo, soprattutto di carattere popolare. Non sarà quindi mai 
				abbastanza raccomandato che là dove non siano imposte da 
				assoluta necessità, si evitino le pubbliche riunioni e quegli 
				assembramenti che sogliono richiamare folla di gente di varia 
				provenienza. Sarà inoltre necessaria la più vigorosa vigilanza 
				sull'acqua potabile e sulle derrate alimentari in genere e 
				specialmente poi su quelle che si vogliono consumare crude e che 
				sono facilmente soggette a deperire. Da ultimo dovrò essere 
				pronto per ogni eventuale necessità il locale di isolamento e 
				gli adeguati presidi di disinfezione e di assistenza. Il 
				Prefetto Musi.
 
  
              1910 - Medicinali ai poveri e 
				spedalità
  
				 
				Adunanza 18 luglio 1922 - Invio di ammalati allo Spedale di 
				Cecina.Il Presidente a nome 
				della Giunta Municipale propone
 Il Consiglio
 Udito che a Cecina è sorto un Ospedale al quale è stata 
				assicurata l'opera di valenti medici e chirurghi del luogo e 
				delle vicine città di Pisa e Livorno;
 Ritenuto che esso praticherà la retta di £ 13 al giorno, cioè 
				quella minima di Pisa e inferiore a quella degli altri spedali 
				vicini;
 Considerato che possa essere conveniente, in specie per le zone 
				di Castiglioncello e Vada di inviare gli ammalati a questo nuovo 
				nosocomio non potendo obbligare le famiglie a renunziare agli 
				spedali delle città vicine.
 Delibera
 di inviare gli ammalati poveri del Comune allo spedale di 
				Cecina, quando sieno consenzienti le famiglie.
 Nessuno domandando la parola il deliberato che sopra viene posto 
				ai voti e resulta approvato per alzata e seduta all'unanimità.
 
  
              La sanità 
				durante il fascismo...vietato sputare 
              Si 
				moriva ancora di malaria, in diminuzione ovunque, ma non al 
				punto da non rappresentare più un pericolo mortale. In Italia 
				dai 4085 morti nel 1922 si era passati ai 3588 nel 1925. Le 
				bonifiche delle paludi vadesi e degli acquitrini costieri 
				avevano portato a una drastica riduzione dei focolai, ma non 
				alla completa scomparsa della malaria, ormai debellata in tutta 
				l’Europa civilizzata e la bonifica doveva ancora essere 
				completata. Ancora nel 1939, benché il chinino fosse noto da 
				almeno due secoli come specifico per la cura della malaria, si 
				pretendeva di combattere la malattia con la «Smalarina», la 
				terapia senza chinino, secondo un avviso pubblicitario in voga 
				quell’anno.Quasi debellata la 
				pellagra, ma non completamente. Malattia derivata da carenze di 
				vitamine, tipica delle popolazioni di montagna che si nutrivano 
				prevalentemente di farina di granoturco. Derivava dalla miseria 
				come lo scorbuto e il tracoma. Non erano del tutto scomparsi il 
				vaiolo e la rabbia. Il vaiolo era sempre stato un flagello. 
				Nell’Ottocento la malattia era così diffusa da aver dato corso 
				al proverbio che tutti gli uomini si ammalavano di due malattie: 
				il vaiolo e l’amore. Ma 
				la 
				malattia che faceva più paura e di cui non ci si nasconde va la 
				gravità e la recrudescenza era la tubercolosi. Al contrario 
				della malaria, terrore delle campagne in ogni epoca, la 
				tubercolosi era una malattia tipicamente urbana molto diffusa 
				all’inizio del Novecento, sia per carenze alimentari sia per 
				scarsa conoscenza delle norme igieniche. Era anch’essa una 
				malattia della povertà e dell’ignoranza. I dati nazionali erano 
				allarmanti: 52.293 morti nel 1922, 59.000 nel 1925. Si 
				dimezzeranno solo nel 1940. C’era il terrore esasperato del 
				contagio e la convinzione che la malattia si trasmettesse per 
				semplice contatto fisico. Le famiglie raccomandavano ai figli di 
				non baciare nessuno, di non bere o mangiare se non in casa di 
				persone fidate. La farmaceutica Guido Rossi aveva messo in 
				vendita lo sciroppo «Pulmosil» che, secondo una pubblicità degli 
				anni Venti, «vince la tubercolosi». Il pubblico si fidava più 
				dei prodotti «galenici», ossia sciroppi e polverine preparati 
				nel retrobottega dal farmacista di fiducia, che delle 
				«specialità» dell’industria farmaceutica; ma con la tubercolosi 
				ci voleva ben altro.
 Con l’istituzione dei 
				Consorzi provinciali antitubercolari si diede inizio a una 
				campagna di informazione, prevenzione e cura che si estendeva 
				dalle scuole elementari ai luoghi di lavoro. Ci volle una 
				assidua attività di convincimento e propaganda per sradicare una 
				delle più inveterate e incivili abitudini popolari: quella di 
				sputare per terra. Sui tram e nei bar, in ogni luogo pubblico, i 
				cartelli «E' vietato sputare» contribuirono a debellare la 
				tremenda malattia causata dal bacillo di Koch, che poteva essere 
				trasmesso nell’aria dai residui essiccati dello sputo. 
				L’assistenza e la ospedalizzazione dei malati di tubercolosi era 
				gratuita e obbligatoria per gli ospedali e le cliniche 
				attrezzate allo scopo, e doveva essere svolta indipendentemente 
				da ogni competenza territoriale dei singoli istituti. Un compito 
				rilevante veniva riservato alla scuola con la giornata del fiore 
				e della doppia croce, i simboli della lotta alla tubercolosi da 
				cui andava difesa l’infanzia. I manifesti informavano sulle 
				norme di profilassi: «La tubercolosi è molto contagiosa e per i 
				neonati e per i bambini, ma scarsamente contagiosa per adulti, a 
				meno che il contagio non sia grave e continuato». Combattere 
				energicamente gli sputi e la polvere era un mezzo di difesa 
				assai importante. Non si tossisca senza portare il fazzoletto 
				alla bocca e non si sputi mai a terra. Buona norma per il 
				tubercolotico espettorare nelle sputacchiere che il Dispensano 
				antitubercolare forniva anche in forma tascabile ed erano 
				presenti in tutte le sale di attesa accanto al porta ombrelli.
				Nel 1929 venne introdotta 
				l’assicurazione obbligatoria contro la tubercolosi, poi estesa 
				nel 1938 ai maestri elementari e ai direttori didattici.
 Non si era estinta la 
				piaga dell’abbandono dell’infanzia. Nel 1923, con uno dei 
				primissimi atti del regime, il sistema della ruota 
				(Vedi 
    
    			
          		La 'ruota' della comunità di 
          Rosignano (1829 - 1866)
          di Deborah Giusti 
				scaricabile dal sito) 
				che imperversava da secoli e permetteva alle mamme di 
				sbarazzarsi dei figli affidandoli alla pietà delle chiese, dei 
				conventi e degli ospedali, era stato abolito ed era stato 
				sostituito con quello della consegna diretta dell’infante 
				all’istituto di assistenza o all’ufficio appositamente 
				incaricato. Erano in aumento i tumori maligni e qui la regione 
				più colpita era proprio la Toscana, quella meno colpita la 
				Sardegna.
 L’alcolismo era una piaga 
				sociale e il fenomeno era in aumento. Si andava dai 664 morti 
				nel 1922 ai 1315 nel 1925. Le osterie in Italia erano 187.000. 
				Se ne dedusse che erano troppe, così se ne chiusero 25.000 senza 
				concludere granché. Anche la mortalità legata a disturbi mentali 
				era in aumento, così come il numero dei suicidi, benché dalle 
				cronache dei giornali non risultasse.
 Ma si moriva anche per 
				malattie più comuni e frequenti dell’apparato respiratorio: 
				bronchiti e polmoniti. Malattie da raffreddamento e 
				specificamente legate al lavoro faticoso e disagiato 
				dell’operaio e del contadino. Contro i mali di stagione, 
				raffreddori, influenze, emicranie, nevralgie non c’erano rimedi 
				efficaci, a parte la Rodina consigliata dalla pubblicità. Il 
				raffreddore si curava al modo antico aspirando i fumi di qualche 
				infuso d’erbe. Se trascurato, un semplice raffreddore poteva 
				degenerare in bronchite e in broncopolmonite e, specie nelle 
				campagne, il medico condotto poteva arrivare troppo tardi. Se il 
				paziente non moriva, e molto spesso moriva, poteva intervenire 
				la pleurite o la tubercolosi, malattia contagiosa, per cui era 
				necessario il ricovero in sanatorio. Da quest’ultimo 
				difficilmente si usciva vivi. Cavare il sangue «cattivo», come 
				si faceva secoli prima con i salassi o le orribili mignatte, era 
				ancora una pratica corrente e consigliata, mentre riduceva il 
				paziente a una larva affrettandone la dipartita 
				(vedi
              Vada/campagna). 
				L’appendicite, che non era la semplice operazione d’oggi, 
				degenerava spesso in peritonite e il paziente moriva tra atroci 
				dolori. Per il mal di pancia, mal di testa, inappetenza c’era un 
				unico rimedio: l’olio di ricino. Lo si somministrava anche alle 
				partorienti. Era semplicemente vomitevole, un incubo per intere 
				generazioni di ragazzi. Ma si credeva facesse bene proprio 
				perché era cattivo. Era l’idea della medicina amara dei tempi di 
				Pinocchio. Questa almeno era la convinzione. La pubblicità 
				vantava le doti dell’Euchessina che rispetto all’olio di ricino 
				aveva il vantaggio di essere pratica, economica, perfino 
				gradevole e ben tollerata anche dal più delicato intestino. 
				L’olio di ricino non era tollerato da tutti e proprio per questo 
				lo si somministrava agli oppositori e ai «sovversivi».
 Le affezioni bronchiali 
				si curavano con un impasto di farina di lino avvolto nella garza 
				e applicato quasi bollente sul torace. Scioglieva il catarro e 
				guariva i focolai d’infezione. Se sulla palpebra compariva il 
				rossore di un orzaiolo si avvicinava l’occhio al collo di una 
				bottiglia e se ne guardava il fondo: l’orzaiolo scompariva. In 
				un seminario medico in Svizzera avevano sperimentato le prime 
				lenti a contatto; ma il professore Pister, direttore della 
				scuola superiore di ottica di Jena, «non profetizzava 
				all’invenzione un luminoso avvenire...».
 Col freddo comparivano i 
				geloni, piaghe dolorosissime che arrossavano le mani e davano un 
				forte prurito; una conseguenza della carenza di vitamine. Non 
				c’erano rimedi, O meglio un rimedio c’era: l’olio di fegato di 
				merluzzo, un altro calvario. Gli inverni erano più rigidi. 
				Sarebbe stata necessaria una dieta più ricca di calorie. 
				L’inizio d’anno 1940 fu tra i più rigidi a memoria d’uomo: -21 
				gradi nelle zone adriatiche, -14 a Brescia, -11 a Milano, Napoli 
				era sotto la neve. Una statistica del 1938 sulla mortalità 
				infantile quantificava in 40.000 all’anno il numero dei morti 
				nei primi anni di vita e tra le cause principali c’era 
				l’insufficiente protezione dell’abbigliamento contro il freddo.
 I giornali erano pieni di 
				pubblicità di insetticidi e di rimedi contro la cattiva 
				digestione e la stitichezza. A giudicare dalla loro insistenza 
				gli ambienti non dovevano essere troppo salubri, infestati 
				com’erano dalle mosche e dalle zanzare, dai pidocchi e dalle 
				cimici; e gli alimenti parevano di non facile digestione. Si 
				proponevano polveri contro varici, ulcere, acne, eczemi. «Il 
				sangue viziato rode la pelle.» Consigli sull’uso del sapone e 
				del dentifricio. Digerire bene, depurare il sangue, curare la 
				dieta dei bambini.
 La pubblicità dell’Ischirogeno 
				promette all’anziano, al vecchio, sorpreso dai malanni, di 
				combattere gli acciacchi dell’età e di star bene. «L’Ischirogeno 
				è una bevanda a base di fosforo, ferro, calcio, chinino, 
				stricnina che rigenera le forze e l’organismo, debella ogni 
				malanno e prolunga la gioia della vita. Basta ricordare soltanto 
				i nomi di due illustri Medici: Albini e Cardarelli, che sono 
				vissuti oltre i novant’anni usando l’Ischirogeno.»
 Prodotto dalla Guidotti e 
				C. di Pisa, l’insetticida liquido Attila, profumato, promette di 
				distruggere mosche, zanzare e tutti gli insetti nocivi in 
				quattro minuti. «Il Flit uccide più presto» gli fa eco la 
				Manetti & Roberts produttrice del concorrente insetticida a 
				spruzzo. «Le zanzare rubano il vostro vigore, tormentano i 
				vostri nervi e guastano il vostro lavoro e i vostri 
				divertimenti. Vaporizzate il Flit micidiale per mosche, zanzare, 
				pulci, tignole, formiche, cimici e per le loro uova. Innocuo per 
				le persone. Non macchia. Non confondete il Flit con altri 
				insetticidi».
 
				La mostruosa prolificità 
				delle mosche viene descritta dai giornali per dare maggiore 
				impulso alla campagna d’igiene pubblica in cui è impegnato il 
				regime nel 1938. «Dalla metà di aprile alla fine di settembre da 
				una sola mosca potrebbero nascere più di 128 milioni di miliardi 
				di altre mosche.» I giornali riferiscono dei buoni risultati 
				raggiunti dalla direzione della Sanità nella lotta alle mosche. 
				La lotta va però proseguita, intensificata, perfezionata. Ma 
				l’impressione è che si vada incontro a un altro fallimento. Se 
				ne parla sempre meno. Finché l’argomento scomparirà dai 
				giornali.La direzione generale 
				della Sanità aveva pubblicato un fascicoletto dal titolo: 
				Istruzioni per impedire la moltiplicazione e la disseminazione 
				delle mosche e relative disposizioni legislative e 
				regolamentari. Si raccomandava più igiene in cucina, il 
				frequente smaltimento di rifiuti, e l’uso dei «pigliamosche», 
				ovvero la comune carta moschicida.
 Il fumo non era 
				considerato un rischio per la salute. Anzi dava tono, sicurezza, 
				era parte del fascino maschile. La moda rappresenta l’uomo 
				elegante in doppiopetto e borsalino con la sigaretta, da quando 
				è stata abolita la pipa inglese. La pubblicità decanta le 
				sigarette di Zara (manifattura tabacchi orientali - Zara): «Sono 
				migliori di quelle estere, costano meno e sono italiane». Forte, 
				aromatica, gusto americano, dolce, di fine gusto orientale. La 
				pubblicità illustra la storia del tabacco attraverso i secoli. 
				«I tempi moderni segnano il trionfo della sigaretta e del suo 
				speciale fine tipo di tabacco. Ovunque impera il piacere 
				squisito di una classica Macedonia extra. Sempre di più si 
				diffonde il piacere del fumo...» Le Popolari erano le sigarette 
				più diffuse con le AOI. C’erano le sigarette Savoia e le OND 
				(Opera nazionale dopolavoro). L’esercito passava le sigarette 
				Milit, che era diventato l’acrostico di «merda italiana lavorata 
				in tubetti».
 I più raffinati fumano le 
				Tre Stelle, le Macedonia, le Turmac e le Giuba, dal fiume 
				somalo. Gli anziani fumavano il 
				toscano che appesta l’aria. I vecchi contadini continuavano a 
				fumare la pipa di radica o di terra cotta usando il trinciato 
				forte.
 
				Generalmente si fuma 
				molto nei paesi più poveri e arretrati. Si fuma tanto nei paesi 
				balcanici, in Russia, in Medio Oriente, in Cina, in Turchia. 
				Infatti si dice: «Fumare come un turco». La Germania nazista 
				invece combatte il fumo con una martellante campagna di 
				dissuasione. Lo slogan più convincente pare va questo: «I 
				soldati li vogliamo sani». Si fuma molto anche in Italia e 
				dappertutto, con poche limitazioni; si fuma in ufficio, sui 
				tram, sui treni, davanti al superiore, nelle case l’ospite non 
				si fa scrupolo di accendersi la sigaretta, talvolta senza 
				nemmeno chiedere il permesso; nei caffè avvolti in una cappa di 
				fumo acre e stagnante si fa fatica a respirare. Il fumo si 
				mescola all’odore del caffè e al vapore acqueo della macchina 
				espresso, enorme, d’acciaio inossidabile e ottone, lucida come 
				una locomotiva. Una sola eccezione. Accanto a Mussolini nessuno 
				doveva essere colto nell’atto di fumare. Il regime, che si vanta 
				di tutelare la salute pubblica, non pare consapevole dei danni 
				provocati dal tabacco. Non c’è alcuna prevenzione o pregiudizio; 
				del tabacco si apprezzano il gusto e le qualità rilassanti; e il 
				numero dei fumatori è in costante aumento, anche a causa di una 
				insinuante pubblicità sui giornali. Dato interessante se si 
				considera che a fumare sono soprattutto gli uomini. «Le donne 
				possono fumare? Una simile domanda fatta quindici o vent’anni or 
				sono» scriveva in una nota di costume sul «Mattino» Matilde 
				Serao «avrebbe scandalizzato le persone di idee più liberali. 
				Oggi pare una domanda un poco oziosa. La verità è che la 
				sigaretta può essere fumata da una signora, ma sempre in via 
				eccezionale. Bisogna accettare una sigaretta, ma non fumarne 
				dieci al giorno. Il fumo, anche della sigaretta, fa male alla 
				bocca, e soprattutto ai denti delle donne, e lo sa Iddio se una 
				donna ha sempre bisogno di una bocca bella e sana, per 
				sorridere, per parlare, per baciare!» 
				Fumare per la morale 
				corrente è permesso solo alle donne ricche e alle puttane. Le 
				donne del popolo non fumano; non fumano i preti e i ragazzi 
				sorpresi a farlo ricevono energiche punizioni. Non si fuma nei 
				musei e nei teatri, sarebbe vietato anche al cinema, ma fumano 
				tutti e nessuno dice nulla. 
				
							(Sintesi da: "Otto milioni di biciclette" di Romano Bracalini) |