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Una figura mitica per Caletta, il "Pipi", Ivano figlio di Ernesto, razza Simoncini. |
Con tanta nostalgia lo ricordiamo passare nelle giornate di bonaccia con due barche stracolme di muggini (al limite dell’affondamento), una al traino dell’altra, con il fido cagnolino, di vedetta a prua della prima imbarcazione. Erano altri tempi (anni ‘60-’70) e certe “pescate” oggi sono solo un ricordo. Purtroppo, la rarefazione e il depauperamento delle risorse ittiche locali in questi ultimi anni ha ridotto notevolmente il numero dei pescatori professionisti che, con piccole imbarcazioni, operavano in questo tratto di costa. Fatti e poche parole, il carattere di famiglia, come fa capire R.Fucini nel racconto qui sotto dove il "Pipi" in questione è probabilmente il padre. Nella foto mentre cala le reti nel 1980, sempre con il cane a bordo. |
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I DENTICI DEL PIPI di Renato Fucini
L'estate
del 1870 (fai fai, mi ricordo d'una data) la passai sul mare a
Castiglioncello, in compagnia d'una allegra brigata di amici.
Castiglioncello a quel tempo era un soggiorno di paradiso, un vero
deserto, dove, per pochi soldi, trovammo un assai comodo alloggio nella
vecchia fattoria di Diego Martelli, poi sostituita da quel borioso
castello del barone Fausto Patrone il quale, incoscientemente (diamogli
questa attenuante), incominciò con la costruzione di quel tamburlano, a
dare il cattivo esempio ai vandali che in pochi anni deturparono
irrimediabilmente quel soggiorno incantevole, a forza, secondo loro, di
abbellimenti. Si passava tutto il nostro tempo in barca o a veleggiare o
a pescare. Più che altro a pescare, prendendo tanto pesce da poterne
regalare, come si faceva, a tutti i poveri, i quali, avendo imparato
quella abbondante miniera, vi capitavano a pigolare o la morena, o il
grongo o i polpi da luoghi anche molto lontani.
Una mattina eravamo a pescare le boghe verso le secche di Vada. In tempo
che eravamo fermi a calare le nostre correntine, mi dette nell'occhio
una barca, la quale, a un paio di miglia di distanza, se ne andava
lentamente alla deriva senza che si vedesse anima viva a guidarla. La
feci osservare ai miei amici, ma da prima nessuno parve occuparsene. La
feci osservare di nuovo dopo qualche tempo. La barca s'era parecchio
allontanata, e nessuno era comparso ai remi o al timone. Tutti furono
allora presi da un vago timore e, senza esitare, salpammo le correntine,
si dette mano ai remi e via a tutta forza per andare a vedere di che si
trattasse. Arrivati alla barca, vedemmo nel fondo di quella un bel
giovinetto, affatto nudo, disteso sopra uno strato di grossi dentici, il
quale non dava segni di vita.
Saltammo pronti nella barca e, con gocce di cognac stillate sulle
labbra, buffate di fumo di pipa nel naso, e un po' di massaggio
preadamitico, dopo molto spavento e molta fatica, lo facemmo rinvenire.
Quando potè pronunziare a stento qualche parola, chiese acqua. Ne
succhiò un mezzo fiasco, finì con quella di riaversi e ci raccontò.
Era un certo Pipi (il nome e il cognome non l'ho mai saputo), abitava
alla Caletta poco distante da Castiglioncello, ed era pescatore
stipendiato dal conte Mastiani di Pisa. Ed ecco che cos'era accaduto. La
sera innanzi Pipi aveva ricevuto dal suo padrone un espresso nel quale
gli ordinava di mandargli più presto che fosse possibile uno o più
dentici che gli riuscisse prendere, volendo imbandire un bel pesce in un
pranzo di parata che aveva stabilito di dare due giorni dopo.
Pipi non intese a sordo. Prese dieci filaccioni e andò la sera stessa a
tenderli sulle secche di Vada, dove gli accadde poco meno che di
lasciarci la pelle. La mattina di poi, tornato sul posto, scorse,
attraverso l'acqua limpidissima, otto dentici, uno più bello
dell'altro, che sdraiati sul fondo l'aspettavano per esser portati al
pranzo del Mastiani. Sette furono facilmente tirati in barca. L'ottavo,
il più grosso di tutti, richiese un lavoro lungo, faticoso, e
pericolosissimo.
Nel dibattersi prima di morire, s'era avvoltolato lo spago del
filaccione intorno al corpo, e così aveva tirato sott'acqua, per la
profondità di qualche metro, il sughero al quale era attaccato il
filaccione. L'affare si presentava difficoltoso, ma Pipi, il quale aveva
allora venticinque anni, non si perse di coraggio. Si spogliò da capo a
piedi e incominciò a tuffarsi per veder d'agguantare il sughero. Dopo
una mezz'ora di quella fatica, in uno sforzo disperato, agguantò
finalmente il sughero, tirò il dentice in barca, ritornò a stento in
barca anche lui, ma cadde spossato su quel magnifico letto di dentici,
dove rimase svenuto per qualche tempo e dove forse sarebbe morto se non
fossimo arrivati in tempo a salvarlo.
Ritornato a Castiglioncello dopo una quarantina d'anni, incontrai Pipi,
bello bianco, grinzoso e arrembato, e gli ricordai il fatto. Egli mi
riconobbe, parve ricordarsi di tutto e mi disse sorridendo : — Eh !
— Eppure — gli dissi io allora — eppure, Pipi, se non moristi in
quell'occasione, forse lo devi a me. — Lui, tocco da un profondo senso
di riconoscenza, mi ripetè l'espressione — Eh ! — E se n'andò.
Bisogna però conceder molto alla sua rozzezza e riconoscere che, senza
saperla esprimere con parole, in fondo all'animo della riconoscenza ce
ne doveva avere, e non poca, perché anche ora, quando mi vende il
pesce, me lo fa pagare sempre qualche soldo di più che agli altri, e se
ci ha qualche animale un po' stracco o preso con la dinamite, cerca di
appiccicarmelo. Bisogna anche notare che non dimentica mai, povero Pipi,
d'ingannarmi sul peso.
10 maggio 1955 - Ausonio Donati
pescatore di Castiglioncello, scrive a La Nazione. |
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