Rosignano Solvay ieri

Solvay la "città-campione" (1913-1970)

Quando Ernesto Solvay approvò l'apertura dello stabilimento a Rosignano, in Italia, stabilì e volle che, insieme allo stabilimento, venisse pianificato il borgo con tanto di strade e di abitazioni, secondo lo stile belga a cui egli era abituato, con una architettura che non era certo mediterranea o latina, e con quegli stessi criteri con cui doveva essere ordinato il funzionamento dell'azienda chimica. Malgrado al ricco industriale fossero già riconosciuti ufficialmente meriti di sociologo, nessuno ha mai qualificato quei meriti come "democratici" e "socialisti". Certo è che, nel terreno prescelto per l'edificazione del nuovo stabilimento, nel 1913, una landa pressoché deserta, il grande industriale scorse l'opportunità di dar vita ad un complesso che - secondo i suoi convincimenti, peraltro già noti - realizzasse in sé una esemplare armonia fra produzione industriale e organizzazione sociale. Tuttavia saremmo in errore ove si ritenesse di attribuire la decisione ad un paternalismo già allora anacronistico, o ad una generosa o capricciosa esibizione filantropica. E' ben più probabile, invece, che dal 1915, quando erano ancora in costruzione gli edifici dello stabilimento, tutte le realizzazioni a carattere sociale attuate in Rosignano, abbiano obbedito a ben più specifiche ed elementari leggi economiche, basate su quella, fondamentale ed onnipresente, del profitto. Lo si può pensare; senza escludere, tuttavia, che, nel famoso e ricco fondatore, il progetto venisse sollecitato dal celebre "Manifesto del partito comunista" di Marx ed Engels (1848), che - se anche non attuato alla lettera e successivamente travisato e mitizzato dai partiti comunisti - nella sostanza, era pur sempre un esplicito trattato politico-economico (uno statuto, scritto su commissione dell'"Associazione internazionale dei lavoratori") di due economisti (Marx ed Engels), che intesero avallare il diritto degli operai nell'esigere maggiore considerazione in proporzione al contributo da loro profuso nel "processo economico", dall'altro esortare i capitalisti e gli industriali per un maggior rendimento delle loro aziende e, quindi, per aumentare la loro ricchezza. Tutto sommato, infatti, il "manifesto" altro non fu che una rivendicazione sindacale, di una specifica categoria - quella degli operai, dei poveri, i proletari dell'epoca - per i quali Ernesto Solvay fino dal 1877 mostrò una qualche comprensione, dal momento che, nei suoi stabilimenti, era giunto a riconoscere ai dipendenti le otto ore, le vacanze pagate e premi aggiuntivi, ciò che gli Stati liberali e progressisti (come Inghilterra, Francia, Belgio, U.S.A.) giungeranno a concedere, in concreto, cinquanta-settant'anni più tardi, solo verso la metà del secolo XX.

Tuttavia fu per queste considerazioni di fondo che, nel territorio compreso tra Castiglioncello e Vada, a ponente di Rosignano Marittimo, la Società Solvay, ha potuto imporsi alla attenzione e alla considerazione sia per il razionale sviluppo urbanistico ed architettonico realizzato nell'agglomerato urbano, sia per l'ampiezza e per la moltitudine dei suoi servizi (dall'ospedale alla chiesa, dagli spacci alle mense, dal teatro allo stadio, dai circoli culturali a quelli sportivi), cioè particolari caratteristiche sociali e politiche, per un ordinamento rigorosamente fondato sul lavoro e sulla meritocrazia, per il benessere che, in proporzione, distribuiva a tutti, dall'operaio al direttore, con privilegi e riconoscimenti scrupolosamente proporzionati all'impegno e alle responsabilità che ognuno aveva nell'azienda. (Vedi progetto Jules Brunfaut). E' comprensibile, quindi, che di Rosignano Solvay si formulasse un giudizio positivo: per una realtà che, in concreto, era organizzata secondo criteri che si avvicinavano a quelli di un socialismo democratico, solo diversificandosi perché invece che ad una dirigenza collettiva tutto faceva capo a un imprenditore privato. Una città campione, comunque, che difficilmente passava inosservata. Perché dopo l'ammirazione iniziale, per cui nel 1914, quando tutto era ancora in fase progettuale, l'amministrazione locale si sentì in dovere di offrire la cittadinanza onoraria a Ernesto Solvay; col tempo, proprio in conseguenza dei grandi benefici e del benessere che venivano generosamente profusi dalla proprietà ai suoi dipendenti, due sono stati i giudizi che, vennero formulati. Uno, quello della "destra liberale", che vedeva nella generosità padronale, un "paternalismo" sia pure illuminato, ma che - forse - poteva fare anche di più e che, comunque, aveva determinato nella collettività sociale una differenziazione troppo marcata, per cui, nella "città Solvay" non era possibile evitare di distinguere gli abitanti di serie A (i dipendenti dell'azienda che in ogni servizio e iniziativa godevano  di trattamenti privilegiati); a cui si contrapponevano i cittadini di serie B, i "non dipendenti Solvay", che, pur ammessi, eccezionalmente, ai servizi dei "dipendenti", erano soggetti a oneri e balzelli, consueti e normali in ogni altra parte d'Italia. Totalmente diverso il giudizio della sinistra "comunista" del tempo, denunciando nei privilegi ai dipendenti un esempio morboso e "antagonista" della tipica diplomazia capitalista dell'azienda cosmopolita che, forte dei suoi guadagni monopolistici, forte dei suoi legami con gli USA, l'Inghilterra, la Francia, nonché con gli ambienti governativi italiani, già durante il periodo fascista "aveva temperato il suo carattere monopolistico" "con alcune iniziative pseudo-sociali" rese possibili dai margini di profitto molto superiori a quelli di altre aziende italiane, tutto, con il costante e unico scopo di "indebolire l'unità e la combattività dei lavoratori". Un giudizio, quello della "sinistra", che nell'esempio Solvay non è mai giunto a riconoscere la possibilità di un ordinamento democratico capace di produrre un benessere ancora maggiore rispetto ad ogni iniziativa "padronale"; ne ha mai riconosciuto, nell'iniziativa padronale, i presupposti storici e i caratteri distintivi di una società basata su una più valida distribuzione di beni e di benessere direttamente proporzionate alle capacità e al lavoro. Certo! Purché, nel governo e nella distribuzione del lavoro, si sia capaci di realizzate competenze e responsabilità uguali o superiori a quelle della gestione padronale: altrimenti, ogni rivoluzione non ha senso storico!...(Sul tema sociale leggi l'intervista a E.Solvay del 1892).

...Ora tutto ciò che si poteva rilevare - di positivo e di negativo - nella "città Solvay" non esiste più come realtà politica e storica. Dal 1970, mentre l'Azienda è notevolmente accresciuta nelle sue potenzialità tecniche e produttive, fino a consolidare ulteriormente, per certi suoi prodotti, un monopolio nazionale continentale e mondiale, la città è stata "liquidata", venduta.

Un fatto di storia locale che, quanto meno, evidenzia due fenomeni politici concomitanti di rilevante importanza:

1°- una nuova strategia nella Società Solvay, che rientra in un più esclusivo ed elementare criterio di profitto e di capitalizzazione;

2°- la sostanziale assenza e il tacito consenso della realtà politica locale.

Ora, se può riuscire comprensibile che l'Azienda sia giunta alla drastica determinazione o per le difficoltà burocratiche che venivano opposte ad ogni sua iniziativa, oppure per il sempre più alto costo delle spese che doveva sostenere per mantenere invariati i servizi collettivi dell'azienda; non meno significativo riesce il secondo aspetto del fenomeno - quello offerto dalle "sinistre" - pur tenendo conto della prova di saggia  consapevolezza della loro funzione politica espresso nella contesa per la produzione del PVC. Tenendo conto che mentre quello di diventare proprietari di un appartamento o di una abitazione, per molti, può aver costituito il raggiungimento di un obbiettivo desiderato da molto tempo (e che l'azienda, del resto, aveva anche agevolato), la liquidazione di una organizzazione sociale come quella creata dalla Solvay, ha significato la scomparsa di una realtà che avrebbe potuto continuare a svolgere egregiamente una pratica ed educativa funzione sociale.

Una cosa è certa: l'episodio storico è stato e rimane significativo, sia sotto l'aspetto politico sia sotto quello culturale, perché la "città Solvay" rimane testimonianza di una realizzazione oggi auspicata da tutti i partiti - di sinistra e di destra - dal momento che tutti proclamano la "democrazia" come il loro obbiettivo primario! Obbiettivo destinato a ben più ampi sviluppi: non soltanto come soluzione storica alla situazione di crisi che stiamo vivendo, ma soprattutto perché quel regime è chiaramente auspicato dalla nostra Costituzione che già nell'art. 1° proclama: "l'Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro". La "città Solvay" torna ad essere emblematica, anche per le più ampie sorti politiche dell'Italia di oggi.

I nostri governi, nei cinquant'anni della "prima Repubblica", sono stati incapaci di attuare la Costituzione che, all'art. 4 prevedere il "diritto al lavoro per tutti i cittadini... " Al punto da qualificarsi "seconda Repubblica" quella di oggi che, per "sanare il bilancio" ed allinearsi ai Paesi liberali d'Europa, ricorre alla svendita di enti ed apparati consentiti e voluti nello "stato sociale" (ENEL, IRI, PPTT., banche ecc.), mentre altri enti e apparati sono in predicato per questa fine (scuola, ferrovie, trasporti, ecc.). ...Evidentemente perché, col beneplacito dei governi liberali, lo "stato sociale" è stato gestito in maniera irrazionale o fallimentare.

Nel confronto, però, c'è una differenza: la "città Solvay" è stata liquidata per una scelta - legittima - dell'Azienda privata, in attivo; lo Stato italiano, invece, non potendosi sottrarre alla crisi generale (mondiale) delle gestioni liberali, rivelandosi incapace delle indispensabili riforme, con il conseguente generale sfascio di tutti i princìpi sociali basilari (basta pensare a certe mostruose sperequazioni e sperperi e corruzioni e inefficienze), induce illustri "politologi" a proclamare - come se fosse possibile o come se fosse un merito - la fine delle ideologie, la fine della filosofia, la fine della morale e dell'etica, addirittura, la fine della storia e, quindi, della politica!..(Da: "Rosignano e il suo territorio" del prof. Giuseppe Caciagli 1999)

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