Rosignano Marittimo ieri   

Il 'Mulino della Fonte'. E' il primo mulino della serie La sorgente Goracci nella serra del secondo mulino detto 'del Goraccio' Mulino del Saracino. Lo scarico della serra del vecchio mulino Ex Mulino dell'Acquabona con le macine rimaste

I mulini ad acqua sul Botro dei Goracci ed all'Acquabona

                      I MULINI A ACQUA
Sotto il dominio della signoria fiorentina (sec. XVI), il Comune di Rosignano assunse nuove forme d’inquadramento economico rivolte soprattutto allo sviluppo dell’agricoltura, che andò ad integrare le tradizionali forme di sfruttamento dei suoli quali le pasture per il bestiame, le boscaglie per il taglio della legna, la produzione di carbone (carbonaie) e la caccia. Di pari passo crebbe l’attività molitoria che vide nelle risorse idriche locali la principale fonte di energia. Nuovi mulini furono impiantati sul Fine e sui relativi affluenti; riferimenti al riguardo compaiono negli Estimi cinque e seicenteschi del Comune di Rosignano così come nelle rappresentazioni cartografiche del XVII e del XVIII secolo. Il rapido incremento demografico, verificatosi fino dai primi anni dell’Ottocento, rese ben presto insufficiente la produzione dei mulini locali e l’Amministrazione Comunitativa fu chiamata, tra il 1817 ed il 1822, a deliberare su ben cinque istanze presentate da privati cittadini in merito alla edificazione di nuovi opifici. Fra queste ricordiamo quelle avanzate nel 1817 da due benestanti del posto, i signori Antonio Pieri e Pier Francesco Blasini, che chiedevano al Comune di poter costruire sul Fine un mulino ciascuno. Al Pieri, già proprietario di tre opifici sul Botro della Fonte (v. Mulini di Botro Goracci), il permesso venne negato mentre fu accordato al Blasini (v. Mulino del Fiaschi). Alcuni anni prima (1809), durante la dominazione francese, il Consiglio Municipale, sempre in tema di mulini, aveva accolto i reclami degli abitanti verso i mugnai locali che, a loro arbitrio, trattenevano a titolo di pagamento una quota eccessiva di prodotto. In tale circostanza fu stabilita una quota fissa per tutti. Si trattava di un provvedimento equo, tendente a soddisfare le esigenze delle parti: i compensi più alti venivano pagati sia per le prestazioni effettuate in estate, quando l’acqua era scarsa e quindi più preziosa, sia quando venivano impiegate macine all’alberese che davano un macinato migliore delle macine brune.
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Il Botro dei Goracci, conosciuto anticamente come “Botro della Fonte”, è un affluente di destra del Fine. Questo corso d’acqua, di modesta ma costante portata, raccoglie le acque di alcune sorgenti che furono utilizzate in passato, sia per alimentare fonti e lavatoi per uso civico, sia per far funzionare tre opifici che, in momenti ed epoche diverse, servirono gli abitanti del Castello di Rosignano e degli insediamenti rurali circostanti. Ubicati nel breve spazio di poche centinaia di metri, i tre mulini, dei quali rimangono ancora evidenti testimonianze, sono facilmente raggiungibili dalla strada Traversa Livornese (n. 10), detta “del Saracino”, e da una via di recente costruzione che dall’abitato di Rosignano Marittimo va ad immettersi in tale strada. La presenza di un mulino su questo corso d’acqua è documentata a partire dal 1578. Nel 1641, fra i beni intestati agli eredi di Pompeo di March’Antonio Attolini, cittadino pisano, risulta:

Una casetta con solaio, et una gora murata che hanno a servire un mulino a ruota et un mulino a ritrecine con gora, et sue appartenenze, dismesso che non macina con terre lavorative et fruttate, l.d. Botro della Fonte

Nell’Estimo del 1795 fra le proprietà di Pieri Antonio di Lorenzo, nobile pisano, compaiono per la prima volta tre opifici alla P.ta VIII, appezz. 9, “... un mulino fornito di sue madie et macinante, in luogo detto il Goraccio”, mentre alla P.ta X, app.ti 20 e 24, erano censiti, rispettivamente: “Un mulino ad un palmento con terra acquistato da Giò Geri con gora” ed “. ..un mulino ad una macina in luogo detto la Fonte”. Nel catasto del 1823 i tre impianti appartenevano ancora alla famiglia Pieri; il primo, quello più a monte, era abbandonato (nel 1821 fu colpito da un fulmine che cadendo nella tromba lo aveva reso inservibile) ed esonerato dalle tasse; mentre, gli altri due, più a valle, erano funzionanti, La “Nota della Tassa dei Molini” della Comunità di Rosignano per l’anno 1850 ci mostra ancora due soli impianti attivi sul Rio della Fonte, di cui risultavano proprietari i fratelli Pietro (mugnaio) e Antonio Lotti. Nel Catasto Fabbricati del 1876 i due opifici superstiti - ciascuno ad un palmento e con una consistenza di piani 1 e vani 1 - erano intestati a Carpini Pietro fu Antonio, ma alla Revisione Generale del 1890 quello di mezzo (particella 90) risultava adibito a magazzino. Il primo dicembre del 1900 la Commissione Mandamentale di Rosignano approvava il “cambiamento di destinazione” dei due edifici che, ormai improduttivi, passavano al catasto rustico. Nella mappa di impianto del N.C.T. (1939) i mulini sono rappresentati alle particelle 30 e 81 del Fg. 78 di Rosignano M.mo°.

Procedendo da monte verso valle i tre mulini si succedono nel seguente ordine:

                                            Mulino “della Fonte” (foto1)
I ruderi di questo opificio sono ubicati sulla sinistra della nuova strada che dal paese scende verso il Saracino, nei pressi della “Fontana del Latte”. Del mulino, che era il primo della serie, rimangono il carcerario, le mura della gora (costruiti in bozze di Calcare di Rosignano) e i due monolitici dell’incile (in pietra serena), dal quale si diparte un breve tratto dell’aldio ancora utilizzato come condotto per l’irrigazione degli orti vicini. Le caratteristiche principali di questo impianto sono rappresentate dalla particolare forma (a triangolo) del bottaccio (adibito ad orto) e dall’inconsueta lunghezza della tromba.

                                Mulino “del Goraccio” (foto 2)

Il mulino era posto a circa 100 m dal precedente ed i ruderi si rinvengono sulla destra (per chi scende) della nuova strada di circonvallazione. Vi si accede scendendo una breve rampa di scale che conduce alla fontina detta “dei Goracci”, ricavata direttamente nel possente muro della gora (alto circa sei metri), sul quale era addossato il piccolo opificio come dimostra l’impronta rimasta sul medesimo. Alla destra del muro il Botro dei Goracci forma un salto di cascata che, probabilmente, nell’antichità fu sfruttato per muovere una ruota idraulica. Questa ipotesi troverebbe conferma anche dal toponimo “Molini”, riportato nella mappa catastale del 1823. Oggi si rinvengono i resti riconducibili ad un solo opificio a ritrecine, di cui si conserva il carcerario e l’impronta dei muri perimetrali dell’elevato. Il grande bottaccio, ricolmo di terra, è attualmente adibito ad orto ed è, sul margine destro, attraversato per tutta la sua lunghezza dal Botro dei Goracci. L'acqua è dichiarata potabile dal 2007 e le analisi compiute dalla U.S.L. locale hanno rivelato reali proprietà terapeutiche (lassative).

                                 Mulino “del Saracino” (foto 3)

L’opificio era distante circa 200 m dal precedente; la località si raggiunge attraverso la strada del Saracino, dopo aver superato il ponte sul Botro Goracci. I ruderi sono ubicati lungo la sponda destra del botro, nel punto in cui maggiore risulta il salto d’acqua, e vi si arriva transitando per un viottolo, che corrisponde ad un breve tratto dell’antica strada del Saracino. Fra i tre mulini è certamente quello che presenta uno stato di conservazione migliore: l’edificio, in parte trasformato, è inserito in un’area parzialmente utilizzata a fini agricoli (pollai, orti); la gora, in muratura, risulta interrata ed il muro di sostegno è parzialmente crollato su di un lato; la camera della ritrecine, ben conservata, è, in parte, ricavata nella roccia (gabbro). Queste importanti testimonianze molitorie, concentrate insieme alle fonti, ai lavatoi ed ai macelli pubblici in un ristretto spazio vicino al Castello, costituiscono un interessante esempio di sviluppo edilizio e manifatturiero volto allo sfruttamento delle risorse idriche locali.
                               I mulini dell’Acquabona (foto 4) 

Le rappresentazioni cartografiche della zona, relative al 1795 ed al 1823, riportano nei pressi dell’antica “Osteria dell’Acqua Buona” (oggi noto ristorante) due mulini, uno di seguito all’altro, che “macinavano a raccolta”. Questi opifici prendevano l’acqua da una serra costruita sul Botro dell’Acquabona (affluente di destra del Fine) proprio di fronte alla citata osteria. Nel 1578 in questa località esisteva un solo mulino ed era registrato fra i beni di Marco di Pippo (Filippo) di Bernardino di Baldo, mentre dal 1630 in poi, i mulini erano due e compariva anche l’osteria; tutti i beni erano segnati agli eredi di Marco di Pippo Vernaccini, cittadini pisani.

I Vernaccini nel 1723 vendevano i mulini a Camilla Pagnini, ma non l’osteria, che rimaneva di loro proprietà. Alla fine del Settecento i “due mulini ad una macina”, di cui uno “con casa per il mugnaio”, risultavano ancora intestati ad Anna Pagnini, mentre nel 1823 avevano un nuovo proprietario: Salvetti Giovanni. Nella rilevazione catastale del 1876 i due opifici, con una consistenza complessiva di piani 2 e vani 2, appartenevano ancora alla famiglia Salvetti che li avrebbe venduti sei anni più tardi alla Contessa Berta Duchesne de Denant. Nei registri fiscali del 1884 si rileva, forse a seguito di un ammodernamento degli impianti, la divisione della rendita imponibile dei mulini, fino a quel momento unica. Nel 1897, gli eredi della Contessa dovettero, loro malgrado, venderli al pubblico incanto; se li aggiudicò Grandi Enrico, il quale li tenne fino al 1904 per poi venderli a Mastiani Brunacci Teodoro, già proprietario del Mulino del Fine.

Uno degli ultimi mugnai che lavorò in questi opifici fu Fiaschi Agostino e dalle notizie tramandate ai discendenti (mugnai), oggi sappiamo che, verso la fine dell’Ottocento, il mulino principale era mosso da una ruota verticale e azionava due macine (evidentemente vi era stato un rimodernamento), mentre la ripresa era ancora a ritrecine e muoveva una sola macina. L’acqua di rifiuto dell’opificio a ruota era condotta attraverso un margone interrato alla ripresa. La vita produttiva di questi antichi mulini ebbe fine nel 1910, quando ne fu decretata la “ruralità”. Trent’anni più tardi, nella mappa d’impianto del N.C.T., era rappresentato solo l’edificio del mulino principale, oggi trasformato in abitazione. Le uniche testimonianze rimaste sono costituite da due macine adagiate sul prato antistante all’edificio dove un tempo si trovava la gora e da un breve tratto del muro del bottaccio, realizzato in conci di pietra locale (calcare di Rosignano), visibile sulla parete di fondo di un magazzino. Della ripresa non resta alcuna traccia. (Da: "Antichi mulini del territorio livornese" di R. Branchetti e M. Taddei scaricabile dal sito)
                                 
Goracci - Un mulino sopra l'altro
 I mulini dei Goracci erano distanziati di alcune decine di metri ed indipendenti. Molto spesso quando l'acqua dei botri era poca, e si poteva sfruttare un discreto dislivello si rimediava costruendo due o tre mulini in "cascata" cioè uno sotto l'altro scaglionati lungo il fianco di una collina, giù giù fino alla valle del fiumiciattolo. L'acqua della piccola sorgente riempiva piano piano la "gora di cima" (un piccolo bacino), pochi metri più in basso c'era il primo mulino (il mulino di cima): una ventina di metri più giù la gora con sotto il mulino di "mezzo", e dopo se possibile, anche la "gora e il mulino di fondo". L'acqua utilizzata dal mulino di cima andava a riempire la gora di mezzo per essere utilizzata dal secondo mulino e da qui finiva nella "gora di fondo" per il terzo. Così la preziosa acqua veniva usata più volte ed ogni giorno il mugnaio poteva macinare nel mulino che aveva la gora piena preferendo il più basso dove l'acqua era già stata sfruttata. I mulini erano più o meno tutti uguali: robusti fabbricati in pietra di una sola stanza. Qualche volta era presente anche l'abitazione del mugnaio ricavata sopra uno dei fabbricati. Infilata in mezzo alla pesante macina di pietra, c'era la tramoggia, grosso imbuto di legno, largo in alto, stretto in basso. Ad una parete c'era il "buratto", uno staccio cilindrico, azionato a mano. Sotto al pavimento, quando il mugnaio tirava su una leva, cadeva con forza l'acqua della gora, che faceva girare la ruota orizzontale a cassette detta "ritrecine" e questa, a sua volta, faceva ruotare la ruota di pietra superiore (soprana) della macina alla quale era collegata, mentre la ruota macinante inferiore (sottana) era fissa. La grossa macina girava lentamente alla stessa velocità della ruota a pale. Una volta iniziata la rotazione, il mugnaio riduceva l'acqua necessaria al minimo per mantenere la velocità giusta senza sprecare acqua. Nella tramoggia venivano rovesciati i sacchi del grano portati col barroccio o col mulo. In mezzo a questa si formava come un piccolo vortice e il grano veniva lentamente succhiato giù e schiacciato sotto le mole per uscire come farina da una bocchetta. Poi la farina veniva messa nel buratto. Impugnata una manovella si girava, girava, finché in un bianco spolverio, tutta la farina veniva separata dalla crusca e dal semolino. Per un mesetto era assicurato  il "mangiare" per i "cristiani" e il "mangime" per le bestie, poi si ricaricava il mulo e si tornava al mulino con altri sacchi non essendo prudente macinare troppo grano assieme in quanto la farina era più attaccabile e deteriorabile ad opera degli insetti, che non il chicco di grano. Per questo motivo le gore del mulino non erano mai eccessivamente grandi, dovendo lavorare piccoli quantitativi di grano per volta.

             Il funzionamento del mulino a ruota motrice orizzontale (ritrecine)

L’acqua del botro veniva deviata, più a monte, da una serra murata che la incanalava e la conduceva, tramite un gorello, al "bottaccio" (o gora) del mulino. Un dispositivo azionato dal mugnaio, permetteva all’acqua di scendere in caduta lungo un canale a parete inclinata (tromba) e di colpire con forza le pale della ritrecine, determinandone il movimento. La ritrecine, collocata nel carcerario, era solidale alla "soprana" - macina monolitica superiore in pietra molto dura - così che ad un giro della ruota spinta dall'acqua corrispondeva un giro della macina. Iniziava così l’operazione di frantumazione dei semi: questi, cadendo dalla tramoggia, finivano nel foro centrale della "soprana", mobile, da dove venivano trascinati, grazie alla forza centrifuga sviluppata dalla rotazione, verso l'esterno e schiacciati contro la macina inferiore ("sottana"), fissa. Macinando il grano, il mugnaio era in grado di ricavare, dopo opportuna stacciatura, farina per pane (circa 70%), semolino per minestre (10%) e crusca per il bestiame (20%). Il meccanismo di funzionamento, molto semplice ed antico, era un esempio di come la tecnologia preindustriale fosse in grado di trasformare l’energia idraulica del torrente in energia meccanica per la macina. Nelle nostre zone il mulino ad acqua aveva tuttavia un funzionamento discontinuo, risentendo, specie nei mesi estivi, del regime di magra dei corsi d’acqua. Per ovviare per quanto possibile alla scarsità di acqua si ricorreva ai mulini in "cascata" descritti nella didascalia della foto che segue. (Da: "Aspetti storici e ambientali in ambito rurale" per gentile concessione di Roberto Branchetti)
                                      RICORDO

Ill.mo Sindaco. Negli anni Venti mi recavo al tradizionale Fontino dei Goracci, (foto2) per far trovare a mio padre un fiasco d’acqua fresca a coronare le 12 ore di lavoro dipendente; mi avventuravo sul sentiero scosceso, sdrucciolevole, che conduceva alla piccola, cara sorgente, incantato dalle immagini del passato che adesso rivedo con fantasia: la gora della riserva d’acqua, a valle il molino a “ritrecine” (cioè a pale di legno ruotanti), il somarello con il carico a basto, lo scorrere delle acque che nella loro corsa andavano ad alimentare la gora successiva. Queste sono tradizioni del Lontano Evo, era ed è storia del nostro Rosignano Marittimo: quando il nostro paese era considerato un grande collegio, vi venivano reparti di truppe a completare le loro esercitazioni e il nostro fontino riempiva le loro borracce di acqua fresca, limpida, buona. Alcuni giorni fa sono andato a rifornirmi di acqua ed ho trovato un miracolo che mi ha commosso per il piacere nell’osservare il nuovo sentiero che conduce alla nostra piccolissima, ma amata sorgente. Un lavoro eseguito con cura, ad alto livello artigianale, osservando l’estetica, insieme alla praticità e alla sicurezza. Esprimo la mia gratitudine, all'Amministrazione per aver saputo ridare ai cittadini ciò che il tempo cancellerebbe, riportandoli ai valori storici e morali. Un grazie, Ivo Benvenuti. 
(Ricordi.da "Rosignano oggi" agosto 1966)

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