Gabbro ieri

1950 - L'immagine della paura Si porta via da casa il necessario Sotto una tenda provvisoria Baraccopoli
Si rigoverna come si può Abitazione puntellata per lesioni Tendopoli Tendopoli
 Si svuotano le case per paura di crolli In allestimento posti notte provvisori Si dorme ovunque possibile Baraccamenti
 Baraccamenti Baraccamenti Si cerca di vivere all'aperto Anche il ripostiglio attrezzi può essere utile

       1 aprile 1950 - L'orologio segnava le 22.55. di sabato
Paura nei paesi collinari per il terremoto. Prima un botto, sordo, cupo, profondo, poi una serie di scosse, ondulatorie e sussultorie. Il Gabbro fu investito da un soffio impetuoso d'aria calda.
(Foto archivio storico Luciano Ciriello). Le scosse che nel livornese si ricordano sono quelle del 22 aprile 1984 (magnitudo 4,02). Ma il terremoto che ha creato i danni più seri è stato questo del 1950, epicentro al Gabbro, un sisma con intensità di nove-dieci gradi della scala Mercalli. Livorno è uno dei 4.160 Comuni italiani situati in zone sismiche. L’Italia, tranne la Sardegna, è zona sismica, divisa con una classificazione che va da uno a quattro: Livorno è classificata zona 3.

E alla fine la paura mise a braccetto Togliatti e la Madonna di Montenero

1 Aprile 1950, un sabato. Chi c’era, non lo ha certo dimenticato. A Livorno, e sulle colline retrostanti, al Gabbro e a Castelnuovo della Misericordia, a Nibbiaia, cominciò a tremare la terra. Prima un botto, sordo, cupo, profondo, poi una serie di scosse, ondulatorie e sussultorie. Il Gabbro fu investito da un soffio impetuoso d’aria calda. L’orologio segnava le 22.55.
A Livorno, nel cinema Moderno di via Grande, proiettavano “Gli ultimi giorni di Pompei”.
Per un momento gli spettatori credettero di essere suggestionati dalle scene del film.
Un momento solo. E fu subito una corsa affannosa alle uscite. La popolazione stava già riversandosi nelle strade con il cuore in gola. Le scosse. Le scosse, a intervalli più o meno brevi, si rinnovarono per una settimana e più, implacabili e ossessive, con un ritmo che alla lunga divenne persecutorio. Molti i danni. Centinaia di case rimasero lesionate o semidistrutte, comunque inabitabili, specialmente al Gabbro. Ma non dovemmo registrare alcuna vittima, per fortuna. L’epicentro venne localizzato proprio tra il Gabbro, Castelnuovo della Misericordia e Nibbiaia, nel cosidetto «triangolo del terrore». Lo ammetto: è mia la responsabilità della troppo lugubre definizione. Ero un cronista alle prime armi. “Il Tirreno”, diretto da Athos Gastone Banti, lanciava nella mischia le reclute di belle speranze. Da Pisa, dove da qualche giorno stavo seguendo l’occupazione studentesca della Sapienza assediata in forze dalla Celere, venni dirottato urgentemente a Castelnuovo Misericordia.
Io e i miei colleghi, da allora, dettammo i resoconti a braccia. Non avevamo esperienza professionale e cademmo spesso nei trabocchetti dell’enfasi e dei superlativi, delle similitudini drogate. L’unico che fece davvero bene il suo lavoro fu Luciano Ciriello, il fotoreporter legato ancora allo studio Ciampi di via Ricasoli.
La guerra era appena alle nostre spalle: i disagi provocati dal terremoto non ci traumatizzarono esageratamente. Ritrovammo presto l’abitudine a dormire fuori casa, a cercare scampo con ogni mezzo, rifugiandoci addirittura nelle cabine di tela dei bagni Pancaldi e Acquaviva. Le ferite dei bombardamenti, delle retate naziste, della “zona nera” minata ed evacuata, non si erano ancora cicatrizzate nella memoria.
Ma la paura dell’aprile 1950, accesa dal terremoto era del tutto diversa da quella sofferta durante la guerra, nelle città e nei paesi, tra gli sfollati. Un nemico invisibile e incontrollabile, imprevedibile, ci stava minacciando. Parlare di terrore, un terrore primordiale, fu dunque almeno in parte legittimo. Nella notte tra giovedi 6 e venerdi 7 aprile, quando il sisma raggiunse la massima violenza, e in poche ore contammo diciassette scosse, e l’undicesima, alle 5.17, fu accompagnata da un sibilo minaccioso e da una cavernosa esplosione sotterranea, e le tre scosse successive incalzarono a pochi secondi l’una dall’altra, ebbene, quella mattina tememmo, tutti quanti, di trovarci alle soglie della catastrofe. Persino il castello di Sonnino, sul Romito, riportò gravi danni. E a Quercianella videro una saetta innalzarsi dal mare, accecante. In seguito i disastri del Belice, e poi del Friuli e dell’Irpinia, ci hanno dimostrato che nel 1950, dal Gabbro a Livorno, non accadde nulla di tragico. E oggi è possibile inquadrare la settimana del terrore anche con un avvenimento politico che, sovrapponendosi al sisma, colpì la fantasia popolare.
Il giovedì 30 marzo si era aperto a Livorno il Congresso Nazionale della Gioventù Comunista. E il venerdì 31 marzo Togliatti, dal palco del teatro Goldoni, tenne un discorso molto atteso, in Italia, a cui “Il Tirreno” dedicò il titolo d’apertura del giornale, a quattro colonne: «Togliatti anticipa a Livorno il suo attacco alle misure governative». Nel sommario si leggeva: «Il governo» questa è la tesi del leader del PCI «si è messo fuori legge, perciò i cittadini hanno il diritto di resistergli. Esortazione a occupare le terre».
Ad ascoltare Togliatti c’era tutto lo stato maggiore del partito, da Longo a Secchia, Pajetta, Roveda, Negarville, Roasio, Barontini, Laura Diaz, la medaglia d’oro Boldrini. Al governo, per la sesta volta, c’era De Gasperi. Sindaco di Livorno era Furio Diaz.
Togliatti ricordò il 1921: «...il popolo italiano si trovò di fronte a una situazione simile e allora ci fu una corrente del movimento operaio, la corrente dei riformisti, Turati, Modigliani e altri, i quali dettero al popolo, e prima di tutti agli organizzati nei sindacati e nel partito, la parola d’ordine di capitolare». L’imprenditore laniero Paolo Zalum, un grosso personaggio (non solo per la sua corporatura) livornese, scrisse al suo amico Giovanni Ansaldo, fresco direttore del “Mattino” di Napoli, che a Livorno aveva diretto dal ’37 al ’43 “Il Telegrafo” del ministro degli Esteri Galeazzo Ciano, e a Livorno era rimasto molto affezionato, che Togliatti, durante il discorso del 30 marzo aveva gridato ai compagni «Presto la terra tremerà» alludendo alla rivoluzione che da russa sarebbe divenuta mondiale. Un’occasione ghiotta, per gli avversari dei comunisti, di poter dire che era stato Togliatti a provocare il sisma.
Per la domenica 2 aprile era in programma una spettacolare sfilata nelle vie della città dei giovani comunisti affluiti da mezza Italia. E la sfilata ci fu nel pomeriggio, malgrado il terremoto.
Il corteo preceduto da duecento tra motociclette e scooter, da danzatori, suonatori di fisarmonica, bandiere e striscioni, e da grandi ritratti di Eugenio Curiel, Gramsci, Togliatti, Stalin e Mao, passò tra due ali di folla spaventata. In casa non era rimasto nessuno. Le scosse, sia pure non violente, si ripetevano a mitraglia, ininterrottamente.
Raggiunto lo stadio, dove si era conclusa la partita di serie B tra Livorno e Empoli, vinta dagli amaranto di Bimbi, Ghezzani e Bertocchi per 3 a 0 (in serie B c’era anche il Napoli che superò il Legnano per 1 a 0), i giovani in camicia rossa ascoltarono un discorso di Longo. Nella mattinata, al Goldoni, aveva parlato il segretario della federazione giovanile nominato pochi mesi prima, Enrico Berlinguer.
Di tutt’altro genere, e con ben altra partecipazione e commozione fu la cerimonia che il Sabato Santo, a terremoto placato, ebbe per protagonista la Madonna di Montenero. La sua immagine venne portata in processione fuori del santuario, esposta davanti al mare e sollevata tre volte a benedire la città e le colline.
Il vescovo Piccioni esclamò: «Ascolta, Misericordiosa, le nostre preghiere, e come già il 27 gennaio 1642 salvasti Livorno dall’estrema rovina, liberaci per sempre dal flagello del terremoto». Sul piazzale c’erano anche i pellegrini giunti dal Gabbro, da Nibbiaia, da Castelnuovo.
Le campane di Livorno e dei paesi del «triangolo» suonarono tutte insieme. E dal popolo accorso a Montenero si levò un grido: «Evviva Maria». Poi una canzone liberatoria (lettera di Paolo Zalum e Giovanni Ansaldo) sulle note di “Bandiera rossa”, tutta livornese: «Avanti popolo alla riscossa / dopo Togliatti viene la scossa / ma qui a Livorno ’un ti dar pensiero / c’è la Madonna di Montenero».
Per ricostruire le case distrutte o lesionate furono messi a disposizione 40 milioni (una copia del giornale costava 15 lire). Una sottoscrizione aperta dal “Tirreno” per i danneggiati dal terremoto raggiunse lire 338.362. I redattori del giornale offrirono 12mila lire, la direzione 30mila.
Intervistammo il geologo livornese Alberto Malatesta che viveva a Firenze ed era venuto a Livorno per tranquillizzare la famiglia e controllare i danni nella casa paterna. C’era stata una notevole differenza di intensità nelle scosse tra Livorno e le colline: «infatti Colognole, il Gabbro e gli altri paesi più colpiti sono costruiti su rocce dure e compatte, come quella che porta lo stesso nome di “gabbro”. Mentre Livorno, Guasticce, Orciano, Santa Luce ecc. riposano sopra una coltre di sedimenti abbastanza molli da costituire una specie di ammortizzatore per ogni urto».
Un tempo al posto dei monti livornesi c’era il mare, poi il fondo di questo mare si è sollevato ed è emerso. Così i monti livornesi apparvero la prima volta all’orizzonte come isole. Gli strati di roccia contorti, piegati, stipati con diversa densità, in profondità si andavano aggiustando alle condizioni di pressioni create dal nuovo assetto. Strati spessi centinaia di metri, pressioni di centinaia di atmosfere, attriti formidabili, temperature elevate producono oscillazioni continue intorno a un equilibrio che in pratica non è mai raggiunto. Nel caso di Livorno diverse centinaia di metri di argille e sabbie garantiscono la tranquillità della nostra città anche di fronte a manifestazioni assai più imponenti di quelle testé sperimentate».
  Aldo Santini   Da: "Il Tirreno" del 1 aprile 2008

Gabbro ieri

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