Avvisi n° 1 e 2 del 7 agosto 1944
Consegnate le armi, le munizioni e gli apparecchi radio
trasmittenti
Tutte le armi da fuoco, munizioni, esplosivi, o materiali
bellici similari debbono essere immediatamente consegnati agli
Uffici della R. Questura e ai RR.CC. Chiunque sia trovato in
possesso di qualsiasi dei suddetti articoli potrà essere punito
con la pena di morte o la reclusione.
Dichiarate tutti i materiali nemici
Il possesso di qualsiasi materiale, equipaggio o proprietà
militare, abbandonati dal nemico o di proprietà nemica, deve
essere denunciato agli Uffici della R. Questura o ai CC.RR.
Chiunque omette di denunciare tale possesso entro un mese
dall’affissione del proclama N°1 potrà essere punito con la
reclusione.
Il coprifuoco incomincia al tramonto
Fino a nuovo ordine nessuno potrà circolare per le strade o
comunque restare fuori dalla propria abitazione dal tramonto
all’alba senza permesso del Governo Militare Alleato. Chiunque
sarà trovato nelle strade durante il periodo sopraindicato sarà
severamente punito.
Inoltre, ognuno è ammonito che le sentinelle hanno ordine di far
fuoco su chiunque venga trovato nelle strade che cerchi di
nascondersi e di fuggire.
Non lasciare la terraferma
Chiunque senza permesso tenti di prendere il largo su
imbarcazioni o altrimenti sarà severamente punito. Le sentinelle
e le navi guardacoste hanno ordine di far fuoco su qualsiasi
imbarcazione da pesca, a remi o di qualunque altro tipo che,
senza permesso, si trovi in acqua in qualsiasi momento.
Firma: Noel Mason Mac Farlane-Tenente Generale-Commissario
Capo-Commissione Alleata Controllo.
(Sintesi da: "Dalle AMlire all'Euro"
di Mancini-Gattini).
Quando le elementari diventarono panificio
Una delle prime attività avviate dagli americani nel luglio
1944. A
volte le scuole, oltre ad istruire, possono servire anche a
qualcos’altro. A fare il pane, per esempio. L’11 luglio del 1944, Leo Gattini uscì dal rifugio dopo molte notti passate ad
ascoltare il rumore dell’artiglieria, e si avviò verso
Rosignano, all’alba. La guerra per Solvay era finita il 3
luglio, i tedeschi erano i fuga, gli americani erano arrivati. E
non erano arrivati soli. La fine della guerra si accompagna
infatti, nella memoria di Leo Gattini, a una strana visione.
“Non mi dimenticherò mai cosa ho trovato davanti alle scuole
elementari” ricorda più di sessanta anni dopo. Pane, tanto pane.
Gli alleati, con un’ottima organizzazione, appena costruiti gli
accampamenti, si erano messi al lavoro con efficienza,
trasformando la scuola in una fabbrica di pane per l’esercito.
Per i rosignanesi, magri per la fame degli anni di guerra, era
un sogno. Sembrava un’allucinazione.
“Immaginate come ci sentivamo. Durante la guerra c’era poco da
mangiare per tutti e ci arrangiavamo al meglio. Mentre lo
spettacolo che si presentava davanti ai nostro occhi presso le
Ernesto Solvay sembrava un inno all’abbondanza! La farina in
enormi quantità usciva infatti ininterrottamente dagli automezzi
parcheggiati davanti alla scuola e entrava nelle aule
scolastiche attraverso le finestre. Da lì, dopo essere passata
attraverso le macchine impastatrici, veniva portata in altre
aule per lievitare in appositi contenitori. A lievitazione
ultimata il composto, allineato sui nastri scorrevoli, arrivava
nei forni allestiti nei corridoi della scuola. Dopo circa 20
minuti altre aule accoglievano i contenitori caldi, per farli
raffreddare. E il risultato? Un pane bianco, bianchissimo, come
in Italia non si era mai visto prima.
“Noi eravamo abituati a mangiare il pane scuro che durante la
guerra era diventato ancora più nero. Soltanto con l’arrivo
degli americani abbiamo conosciuto il pane bianco, il cosiddetto
pane a cassetta”. E a volte quando passa davanti alle elementari
Solvay, Gattini pensa ancora a quegli automezzi che scaricavano
la farina e ripartivano carichi di pane, portando via con sé il
ricordo delle magre razioni e della fame continua. La guerra era
davvero finita. (Di Roberta Giaconi
da "Il Tirreno" del 20-8-2006)
Refezione scolastica - Pezzatura del pane da somministrare.
Baratto e mercato nero per mangiare
La pratica del baratto divenne ben presto
un’altra maniera per procurarsi beni essenziali. Chi poteva
offrire servizi o eseguire dei lavori riceveva spesso in cambio,
come forma di pagamento, beni primari come latte, olio,
zucchero, stoffe ecc. Essendo i generi alimentari di difficile
reperibilità, per molti era diventato un obbligo
approvvigionarsi rivolgendosi alla rete del mercato nero. Ciò
significava pagare le merci a prezzi molto più elevati, anche
decuplicati, rispetto a quelli disciplinati dalle autorità.
Tutto questo a fronte di uno stipendio medio giornaliero, per la
popolazione di ceto medio/basso, di Lire 30/35. La situazione
generale dell’economia, unita all’aumento del ricorso al mercato
nero, portò evidentemente ad una crescita abnorme
dell’inflazione, con conseguenze facili da intuire.
(Da "Guerra a
Castiglioncello" di Gabriele Milani)
Le iniziative Solvay in campo alimentare
Nel marzo 1945 fu costituito per i dipendenti il “CO.DI.”,
(Commissione Dipendenti) che fino al 1950 provvederà a gestire
aiuti alimentari. La Società aveva deciso, sin dal 1941,
l’installazione delle mense nei suoi cantieri. A Ponteginori fu
impiantata una coniglicoltura per la produzione di carne e di
pellame (Vedi
Ponteginori foto 24).
Negli stabilimenti Solvay, Aniene e Sacom, a Rosignano, e nei
cantieri di Ponteginori e San Carlo, circa 4.000 dipendenti ogni
giorno, ricevevano una minestra calda, che trovavano servita sui
tavoli delle mense, dentro alle “gamelle” d’alluminio. Di regola
un minestrone di verdura con 15 grammi di riso o di pasta e 5
grammi d’olio. Due volte alla settimana, sul coperchio
rovesciato della gamella, venivano messi cento grammi di patate
condite con sale e prezzemolo. L’organizzazione e la gestione
delle mense, oltre agli spacci aziendali (due a Solvay, uno al
Villaggio Aniene, a Rosignano Marittimo, all’Acquabona,
a Vada,
a Ponteginori, a San Carlo ed a San Vincenzo) occupavano oltre
trecento persone. Analogamente a quanto si faceva in alta
Italia, venivano intraprese trattative per l’acquisto, extra
contingentamento, di gomme per auto e per biciclette per gli
addetti agli impianti di fabbricazione. Per sostenere queste
spese, la Società aveva messo a disposizione una percentuale di
prodotti sodici fabbricati: in tal modo, oltre i generi a
tessera, era possibile acquistare, presso gli spacci Solvay,
tutta una serie di alimenti (vino, olio, pasta, formaggio,
marmellate, patate, sapone, mele, cipolle, riso, frutta, ecc.).
Il periodo critico per il passaggio della guerra era iniziato il
15 giugno 1944, dopo il bombardamento di una grossa formazione
alleata del tratto Rosignano Solvay-Castiglioncello. Da allora,
tutte le persone rimaste a Rosignano Solvay cominciarono ad
organizzare la loro vita nei grandi rifugi situati nell’interno
dello Stabilimento. Con avviso al personale del 29 aprile 1944,
la Società Solvay rendeva noto che, durante gli allarmi fuori
dell’orario di lavoro, la popolazione civile del paese poteva
usufruire dei rifugi costruiti all’interno dello Stabilimento
(R3, R4, R5, situati sotto gli uffici della Direzione). In caso
d’insufficiente capienza, i rifugiati saranno spostati verso i
ricoveri interni dello Stabilimento (R2, sotto il magazzino
generale, e R1, sotto il deposito calcare). Si raccomandava, a
chi avrebbe goduto dell’ospitalità, gran disciplina ed esemplare
contegno. La Società Solvay utilizzò i generi destinati alle
mense ed agli spacci aziendali per confezionare il pasto per i
rifugiati. A tutti, sia a mezzogiorno sia la sera, veniva
distribuita una minestra calda: il loro numero andò sempre
aumentando fino a raggiungere le duemila unità. I profughi
arrivavano da tutte le zone e venivano assistiti sia dalla
Solvay direttamente, sia dal CLN con i mezzi forniti dalla
stessa società.(Vedi l'esclusivo documento Solvay sulla presenza degli sfollati
in fabbrica: "A
Rosignano passa la guerra" di L. Tosolini,
scaricabile dal sito).
Una cucina venne anche impiantata a Vada, fornendola degli
alimenti necessari.
Tale situazione si mantenne sino all’agosto del 1944: oltre ai
dipendenti poté usufruire della mensa, dunque, in questo
periodo, tutto il gran numero di rifugiati e sinistrati giunti
in zona.
Le scorte erano pressoché esaurite, le scorte individuali
ridotte a zero, i generi di razionamento erano scarsi. Presi
contatti con le province vicine più ricche di alimentari,
risultava che l’unico mezzo per ottenere qualcosa era poter
effettuare uno scambio di merci: i dipendenti ed il CNL hanno
chiesto alla Società di poter attuare questo scambio. Così la
Solvay ha cercato di ottenere ed ha ottenuto lo sblocco di un
certo quantitativo di suoi prodotti a favore dei propri
dipendenti.
Nel marzo 1945, costituendosi il CO.DI. (Comitato
Distribuzione), il CLN cessa l’attività
degli spacci e delibera la costituzione di una cooperativa “che,
apportando un beneficio a tutta la popolazione, ne apporterà
uno supplementare ai lavoratori della Solvay”, che già
beneficiano delle provvidenze del CODI.
Tutte le distribuzioni sono state fatte a prezzi molto inferiori
a quelli di listino.
Il CO.DI. venne soppresso il 1° novembre 1950 con l’entrata in
vigore della scala mobile. (Sintesi da: "Dalle AMlire all'Euro"
di Mancini-Gattini).
PIATTI CALDI, LUCI E FELICITA’ NELLA FABBRICA DELLA SODA.
Notte di Natale 1944. Una
mamma con due figlie da sfollata a Rosignano Solvay.
Un abete
illuminato, le luci colorate, dei doni. Un babbo natale
sorridente, del buon cibo da mangiare. Persino dei piatti e dei
bicchieri "intatti". Tutto ciò che dovrebbe essere normale
appare incredibile agli occhi di Maria Dispenza, nella notte del
Natale 1944 trascorsa a Rosignano Solvay. Non potrebbe essere
altrimenti, per una donna che nel bel mezzo della Seconda guerra
mondiale ha appena perso il marito partigiano, Nello, ucciso in
un agguato dai nazisti a Careggine, in Garfagnana. Una donna
rimasta sola e con due figlie piccole, Giovanna e Luciana, che
decide di correre il rischio estremo di attraversare il fronte
della Linea Gotica, pur di fuggire dal pericolo delle
rappresaglie e cercare di raggiungere ciò che resta della
famiglia d'origine, a L'Aquila in Abruzzo. "Salvarci tutt'e tre
o tutt'e tre 'finire'" scrive in un passaggio drammatico della
memoria che ha depositato nel 1989 all'Archivio diaristico
nazionale di Pieve Santo Stefano. L'impresa le riesce a metà
dicembre, quando trascinandosi dietro le due bambine valica
l'Altissimo, monte delle Alpi Apuane, con il solo conforto di
sporadiche indicazioni offerte dalle guide partigiane che si
nascondono tra i boschi. Dopo una tappa a Viareggio, città
affamata e affollata di fuggiaschi, ottiene un passaggio da un
automezzo inglese fino a Rosignano Solvay, il nucleo urbano
sorto a partire dall'inizio del Novecento vicino a Rosignano
Marittimo, a pochi chilometri da Livorno, intorno al polo
industriale fondato dall'imprenditore belga Ernest Solvay,
titolare di uno stabilimento per la fabbricazione della soda. È
un'area che ha conosciuto a fondo gli orrori del conflitto a
partire il 15 giugno 1944, con il bombardamento eseguito dalle
formazioni alleate che avanzano incalzando i tedeschi verso il
nord Italia. Dopo quel passaggio la comunità locale, incentivata
dai vertici dell'azienda, inizia a organizzarsi per vivere nei
grandi rifugi situati nell'interno dello stabilimento, più
sicuri delle abitazioni in caso di nuovi allarmi. In breve il
numero dei civili che cerca riparo tra i fabbricati
aumenta
esponenzialmente, fino a contare alcune migliaia di persone,
anche perché la direzione dell'industria ha dato disposizione di
destinare i generi alimentari delle mense anche ai rifugiati.
Una minestra e un piatto caldo per tutti, sia per i dipendenti
che continuano a mandare avanti ciò che resta della produzione,
sia per gli sfollati in fuga dalle zone limitrofe. Proprio come
Maria e le piccole Giovanna e Luciana, che vi approdano nelle
ore gelide di una notte sempre speciale come quella della
vigilia di Natale. Il trattamento che ricevono grazie anche
all'efficienza del comando alleato che nel frattempo ha messo le
tende tra gli edifici e la boscaglia che li circonda, consente
loro di vivere una serata impensabile per quei tempi. «C'era una
strana aria di festa», scrive Maria nelle sue memorie, ancora
incredula dopo molti anni per quella parentesi di felicità
vissuta con le figlie. Breve parentesi, perché già il 28
dicembre sono in viaggio alla volta di Roma, dove transitano per
un altro centro di accoglienza sfollati nel quale, però,
ricevono un trattamento tutt'altro che umanitario. A Cinecittà i
fuggiaschi vengono stipati negli stessi capannoni in cui ha
preso vita il cinema italiano, e trovano ad accoglierle una
"crocerossina inacidita stranamente ostile e aggressiva nei
riguardi dei profughi.La 'sorella' - racconta Maria - lesinava
ogni cosa, rintuzzava e rinfacciava, con volgari insinuazioni la
'diserzione' degli uomini dalle 'formazioni repubblichine',
assimilandoli alla calata dei barbari in cerca di prede". Per
Maria, da poco rimasta vedova di un partigiano caduto per la
resistenza, è davvero troppo. Si rimette subito in marcia decisa
a raggiungere l'Abruzzo, una nuova impresa in cui riesce con
sforzi enormi e mezzi di fortuna. Il 31 dicembre si trova
finalmente al cospetto del cancello della casa paterna. Stringe
le mani delle figlie, ciondolanti al suo fianco. «Lì attaccate
al cancello, a pochi passi da mio padre, dal nonno, ancora
ignaro della nostra tragedia, mi sentivo e ci vedevo tre miseri
fagotti di cenci. A due passi da quella porta, mi sentivo
sprofondare in un abisso di sconforto. 'Papà, sono qui, misera
tra i miseri, ti sono vicina e non ho il coraggio di chiamarti,
di mostrarti il mio squallore, dirti il lutto e la rovina che ho
dentro'. Il mio cuore gridava, ma la mia voce restava muta. Una
porticina, a destra della villa, si era aperta...».
Arrivò la mezzanotte e sognai il mondo in pace
Maria Dispenza Rosignano Solvay, Natale 1944. Ecco alcuni dei
brani scelti dal diario e la testimonianza della giovane madre.
18 dicembre. I profughi a Viareggio erano "alloggiati"
alla meno peggio, in locali diroccati, vuoti, privi di finestre,
porte, servizi igienici. La stanchezza, il freddo, gli spaventi,
avevano segnato la resistenza delle mie bambine, perciò decisi
di alloggiare qualche notte in albergo. Urgeva farle riposare al
caldo e nutrirle con qualche pasto sano, leggero. Sedute a un
tavolino, nella saletta dell'albergo, le bambine ingoiarono a
stento qualche cucchiaio di minestrina in brodo e pochi
fagiolini all'olio. I nostri cappottini sdruciti, le scarpe
informi e il bagaglio rappresentato da una di quelle borse della
spesa, fatte di mille pezzettini di triangoli e quadratini di
pelle, cuciti assieme, i nostri visi tirati, le mani gonfie,
graffiate. Stavamo curve sui piatti per non vedere gli occhi dei
pochi avventori, che ci fissavano increduli, forse anche
benevoli. Non avevamo che un desiderio, alzarci e rifugiarci in
camera, che, almeno per quella notte, ci avrebbe ospitate e
permesso di riposare al caldo e nel pulito! Luciana scottava! La
magra cena era rimasta quasi intatta nei piatti!
19 dicembre. Avevamo sognato o veramente quella notte
avevamo dormito in un vero letto, con lenzuola, coperte, in una
camera pulita, con acqua corrente? La stanchezza pesava ancora
sulle gambe. Ma quanto sarebbe costata un'altra notte in
albergo? Al riparo dai pericoli ora mi si affacciavano le
preoccupazioni pecuniarie. I pochi denari che avevo, dovevano
bastarci per tutto il viaggio. Dio solo sapeva quanto sarebbe
durato e quali incognite dovevamo ancora affrontare. Tormentata
da forti dolori alle gambe mi trascinavo da un ufficio
all'altro, cercando anche di farmi ricevere dal governatore
inglese, che dicevano gentile e ben disposto. Ma come arrivare
al governatore? Disperata, accasciata sul marciapiede, accanto
alle figlie, non sapevo più cosa fare e a chi rivolgermi per
riuscire a ripartire. Luciana e Giovanna rifiutavano il cibo. La
minestra che distribuivano una volta al giorno era una brodaglia
d'acqua di mare, in cui nuotavano piccoli pezzettini di carota e
di sedano. La gavetta in cui veniva distribuita era un
secchiello, ricavato da scatole di latta, con manico di filo di
ferro rugginoso, fissato ai lati, in due buchi punzonati
appositamente. I denari si assottigliavano per comperare, al
mercato nero, qualche biscotto e latte. Al tramonto, al segnale
del "coprifuoco", a gruppi, ci avviavamo nei palazzotti mezzo
diroccati, ai quali c'avevano assegnati. In quei locali senza
ripari, uomini, donne, bambini, stavamo tutti vicini, accostati,
per non congelare.
23 dicembre. Il 23 sera, con a fianco le figlie, mi stavo
avviando tristemente verso il nostro rifugio notturno, quando mi
accorsi che qualcuno fiancheggiandomi voleva dirmi qualcosa.
Sottovoce mi fece capire che dovevo ascoltare, continuando a
camminare, senza guardarlo e senza rispondere. Il mattino dopo,
alle quattro, dovevo trovarmi, con le figlie, nel luogo della
"chiamata". Ci aveva messe in lista per farci partire: ci
avrebbe chiamate lui stesso e, anche se non ci avesse chiamate
di seguito, dovevo rassicurare le bambine, che saremmo
egualmente partite assieme, sullo stesso mezzo. "Andrà tutto
bene! Altre occasioni non ci saranno! Siate puntuali!". Che sia
benedetto! Sempre e ovunque si trovi! Non si erano ancora
diradate le ombre della notte, quando salite su un automezzo
militare inglese, partivamo, tutt'e tre, per Rosignano. Era il
24, la vigilia di Natale!
24 dicembre. A Rosignano giunte nella tarda mattinata,
fummo accolte in una grande villa, circondata da un immenso
parco, contornato da bellissimi grandi alberi. Disseminate tra
gli alberi, c'erano tante tende militari, grandi e piccole. Si
diceva che, tra la villa e nelle tende, vi fossero ospitati un
migliaio di profughi. Nelle tende, alloggiavano famiglie intere
o uomini soli. Le donne e i bambini isolati, erano sistemati
nelle stanze della villa. I locali, grandi, luminosi, erano
confortevoli. Bagni, docce e servizi igienici, a disposizione di
tutti, erano perfettamente funzionanti e pulitissimi. Io, con le
figlie, eravamo sistemate in un angolo luminoso presso un
finestrone che dava sul parco. Ci erano state fornite, con un
largo materasso, lenzuola, coperte, asciugamani. La buona
accoglienza mi aveva completamente rianimata. Stanchezza?
Dolori? Spariti! Dimenticati! Tornavo a rinnovare, speranze e
progetti. Anche se arrivati in ritardo per il pranzo, tutti
fummo rifocillati con buoni cibi. La cena c'era stata servita a
tavola, con piatti, bicchieri, posate, intatti, normali. Dopo
cena c'era una strana aria di festa. Camerieri e militari
circolavano indaffarati, sorridenti. Più tardi, bambini e
genitori, fummo invitati a riunirci in una grande sala
illuminata. Un abete, alto sino al soffitto, troneggiava, su un
palco, in un angolo della sala. Dai rami, carichi di luci,
penzolavano tanti doni. In quel vasto splendido salone, dal
soffitto altissimo, affrescato, l'abete sembrava librarsi verso
il cielo, tanto lo vedevamo alto, guardandolo dal basso.
Pacchettini, sciarpine, calzettoni, maglioncini, bambole,
trombette, libri, dolci e tante altre cose, erano appesi tra i
fitti rami dell'abete. Lampadine multicolori e fili argentati,
gettavano lampi di luce sui visetti, appuntati verso l'alto dei
bambini, incantati da quella inaspettata apparizione! Mamme e
papà, ammassati dietro ai propri bambini, guardavano,
lacrimavano e ridevano, emozionati, sorpresi, increduli! Anche
le mie figliuole, benché arrivate solo nella tarda mattinata,
avevano ricevuto il loro dono, come tutti gli altri bambini, da
un barbuto, bonario, tutto rosso, "Babbo Natale". In una
confusione di parole, voci, nomi, gridolini e trilli di gioia, i
bambini, con i loro doni, correvano felici tra le braccia delle
mamme e dei papà. A mezzanotte un Cappellano militare aveva
officiato la S. Messa, benedicendo e confortando tutti. Quella
notte, io e le figlie, avevamo chiuso gli occhi con la visione
di un mondo sereno, fraterno, rappacificato.
25 dicembre. All'indomani, 25 dicembre, giorno di Natale,
ancora sorprese! In grandi sale, erano state allestite tavole a
forma di ferro di cavallo, ricoperte da candide tovaglie;
bicchieri, posate e piatti tersi e tutti uguali e, su ogni
tavolo, fiori e frutta, aggiungevano colore al tono festoso
delle belle tavole apparecchiate. Ammutoliti dall'emozione,
prendevamo via via i posti che ci erano stati assegnati, con
bigliettini bene evidenziati, sentendoci sempre meno profughi e
sempre più a nostro agio, in quell'atmosfera accogliente,
familiare. Pastasciutta, carne e contorni vari, ci venivano
serviti con cambio di piatti, da camerieri in guanti bianchi!
Dirigeva il Centro profughi di Rosignano, un Maggiore americano;
un bell'uomo, dallo sguardo dolce e triste, affabile, gentile;
assisteva i profughi e cercava di andare incontro ai loro
"desideri" e di aiutare quelli che volevano raggiungere parenti
o amici in altre località dell'Italia libera. Anch'io gli avevo
chiesto di aiutarmi a raggiungere mio padre a L'Aquila.
Purtroppo il maggiore non disponeva di mezzi di trasporto per
L'Aquila. Con molta cortesia e delicatezza, mi aveva proposto di
restare al Centro, mi avrebbe fatto avere un posto di lavoro, a
me adeguato, stipendiato e alloggio e vitto per me e le figlie.
La situazione delle comunicazioni era ancora assai caotica,
perciò mi sconsigliava di proseguire il viaggio che, data la
distanza da L'Aquila, per il momento, poteva essere molto
disagevole. Pure riconoscendo giusto e molto generoso, quanto mi
veniva offerto e consigliato, ringraziandolo avevo insistito
nell'esprimere il mio desiderio di raggiungere mio padre per
ridare alle figlie, al più presto una casa e una vita normale.
27 dicembre. Il 27 sera lasciavamo l'ospitale Rosignano,
per "imbarcarci" su un treno merci, che partiva per Roma. Con
qualche centinaio di profughi, stipati su carri-merci,
traballanti, sconnessi, partivamo, a notte alta, dalla stazione
di Rosignano.
Di NICOLA MARANESI Da “I diari del Tirreno” 24/12/2017. |