La ferrovia (Livorno - Vada)

 1910 - Il traforo sotto la collina del Romito (Da: www.giochidelloca.it) 

 Ci prendiamo la libertà di uscire di pochi metri dal seminato, ovvero dal comune di R.M., per riportare una storia che merita di essere conosciuta:
                                  La leggenda del Romito
   
La vecchia Strada Maremmana, di là da Antignano, passava anni or sono proprio sulla scogliera del lido; pestava i banchi di rena e gli ammassi d’alga lasciati in dono alla terra dal continuo andirivieni delle onde, era stretta e piena di pericoli per le Diligenze che fanno giornalmente il viaggio delle Maremme; ma una nuova strada fu tagliata nel sasso vivo dei macigni che sovrastavano alla vecchia; è larga, comoda, ben selciata, e facilita le comunicazioni con un Paese che spera dal commercio e dalla coltivazione un avvenire migliore del suo passato. La solitudine di quella parte di littorale è pittoresca; ogni svoltata offre un nuovo punto di vista, e le antiche torri custodi della costa crescono interesse alla scena. Mentre l’immensità del mare riempie di sé l’occhio e il pensiero del passeggiatore, e l’uno e l’altro spaziando sopra i suoi abissi, dimenticano la terra, rappresentata in quel sito da rupi nerastre, vestite appena qua e là da qualche ciuffo d’erba ingiallita dal sole, ecco che a una svoltata, la vista improvvisa d’una torre, richiama i due girovaghi alla memoria dei nidi umani. Quelle torri stanno lì ridotte all’unico uffizio di far rispettare le Leggi di Sanità, e d’impedire il contrabbando. Io credo, che il genio della meditazione e della mestizia, non potrebbero scegliere asilo più adattato delle tortuosità di quel lido, per godervi il libero e dolce fantasticare dei suoi pensieri. Poco al di sotto della Villa Gamba abitata molti anni sono dall’illustre poeta e storico Smollet, la scogliera s’apre formando un seno dentro cui il mare entra placidissimo, e va a lambire la ghiaja del lido come ospite riconoscente della ricevuta accoglienza. Le ore passano inosservate per chi siede sullo scoglio custode dell’entrata del piccolo seno, e leggendo, meditando, o scrivendo, volge ogni tanto l’occhio alle barche lontane dei pescatori Antignanesi, mentre i loro canti arrivano al suo orecchio portati dall’aura aleggiante sul limpido cristallo delle acque. Vada pure la schiera degli amici dei tumultuosi piaceri a godersi l’Ardenza, io invito quelli della solitudine e della gentile mestizia a preferire il lungo mare della Via Maremmana. La prima e la seconda torre escono quasi dal seno del mare; la terza detto il Romito, non è fabbricata sulla scogliera, ed ha per conseguenza la strada a destra. E’ grande e ben provveduta di mezzi di difesa adattati ai tempi, nei quali era necessario pensare a preservare il Littorale non dai contrabbandieri e dagli sbarchi clandestini soltanto. Si chiama il Romito, forse per la posizione veramente romita, forse in memoria dell’Eremita che due secoli fa abitava nelle sue vicinanze, ed era possessore di un Crocifisso riputato miracoloso; o fors’anche trae il nome da una Cronaca di data assai remota, che trasmessa da padre a figlio, e scritta nell’italiano del tempo di Carlo VIII, rimase inedita negli archivi d’una famiglia di possidenti dei Colli Pisani. Avendone ottenuto un sunto da persona, ch’ebbe la fortuna di vederla, io m’ingegnerò di farne parte ai miei cortesi lettori. La discesa di Carlo VIII in Italia e l’odio suo per i Fiorentini, stati sempre avversi a prendere il nome di suoi vassalli, avevano ridestato nei Pisani le mal sopite speranze di libertà; e quando il re venne a Pisa, e il presidio Fiorentino abbandonò la Cittadella in balìa dei Francesi, il popolo figurandosi che il non aver più padroni Fiorentini significasse essere tornato libero e grande, eruppe in tali e tanti trasporti di allegrezza, che Re Carlo ne fu meravigliato e commosso, e promise partendo di non rimettere Pisa sotto il giogo dei suoi odiati vicini. Ernesto D’Estrangues fu eletto Comandante delle truppe Francesi rimaste a presidiare la Cittadella. Egli era giovine e d’animo bollente; Gabriella Lante era la più leggiadra delle nobili fanciulle di Pisa, e il Comandante Francese appena l’ebbe vista, si sentì preso da ardentissimo amore. Gabriella era una di quelle creature entusiastiche, nelle quali il cuore parla sempre e il criterio o mai o molto di rado; amava il suo paese, odiava a morte i Fiorentini, e tutti i mezzi le parevano buoni e leciti per fare che l’arme coi gigli rossi in campo bianco, fatta in pezzi e bruciata dai Pisani alla venuta di Carlo VIII non fosse rialzata sulla porta della Cittadella e degli uffizi governativi. Suo padre e suo fratello avevano alimentato il fanatismo patriottico della giovinetta, e ora favorivano la passione del Comandante Francese, estimandola utile alla salvezza della patria. La fede di Re Carlo non godeva di buona reputazione, e già si andava vociferando avere egli stipulata la restituzione di Pisa, e mancare appena pochi giorni all’arrivo dei Commissarii mandati dalla Repubblica Fiorentina a riprenderne possesso. D’Estrangues poteva da un momento all’altro ricevere l’ordine di sgombrare dalla Cittadella co’suoi soldati, e i poveri Pisani si figuravano che un suo rifiuto basterebbe a conservar loro la libertà. Gabriella aveva detto, che stante la sua risoluzione di non diventare mai moglie d’un uomo, che fosse capace di servire d’istrumento a rimettere Pisa nelle mani dei Fiorentini, D’Estrangues piuttosto che rinunziare alle nozze desiderate, ricuserebbe di obbedire anche ai comandi del Re; lo aveva detto al padre, al fratello, alle amiche, ai magistrati che conferivano seco lei sul conto da farsi del buon volere del Comandante Francese. Veramente D’Estrangues non era padrone di se medesimo, e quando il Tentaville escì da Livorno, ed egli avrebbe dovuto fare altrettanto da Pisa, vi rimase colle sue genti, pretestando di non aver ricevuti i contrassegni necessari alla regolarità dell’ordine, Pisa intanto enumerava le sue forze cittadine, e preparava le sue difese, ma né le une né le altre bastavano all’uopo. Gli uomini di senno ritenendo per cosa impossibile lo andare avanti, non dividevano l’allegrezza di Gabriella e della gioventù esaltata al pari di lei, che la proclamava salvatrice della patria, mentre D’Estrangues ebro d’amore non aveva tempo né voglia di riflettere alle conseguenze del suo rifiuto. Dopo pochi giorni il Re mandò i suoi contrassegni; né v’era più modo di continuare in quello stato di cose. I Fiorentini insistevano, il Re comandava; D’Estrangues era soldato, aveva accettata una consegna, si trattava di dichiararsi ribelle, di disonorarsi; giusta o ingiusta che fosse la cessione, egli non aveva diritto di revocarla. Lo spettro del disonore si alzò nel silenzio della notte dinanzi all’anima sua contrastata, e l’immagine della bellissima Lante si coprì momentaneamente di un velo!.. Il Comandante vide e misurò il pericolo della sua posizione, tremò della sovrastante infamia, e alzatosi impetuosamente dal letto, scrisse ai Fiorentini: Pisa è vostra, venite a prenderne la consegna. Un messo portatore del dispaccio partì immediatamente per Firenze; D’Estrangues diede ordine alle sue genti di prepararsi a partire, e per due giorni consecutivi non esci più dalla Cittadella. La fama dei preparativi si sparse fra i Cittadini e arrivò fino a Gabriella, che la tenne in concetto di una favola inventata dal mal volere dei nemici di Pisa. Ma ben tosto il padre, il fratello, gli amici, vennero desolati a persuaderla del contrario. Essa svenne, due strali acutissimi avevano trafitto il cuore della fanciulla: la patria rimetteva il collo sotto il giogo di Firenze, e D’Estrangues si era liberato da quello impostogli da’ vezzi suoi! Quando le tornò l’uso dei sensi, i parenti e gli amici l’avevano lasciata alle cure delle sue donne, andando a discutere in una adunanza di Cittadini, le risoluzioni da prendersi in quel frangente supremo. Gabriella si alzò, si ravvolse in un ampio velo, prese con se la più fida delle sue ancelle, e a passi precipitosi si diresse verso la Cittadella. Molti per via la incontrarono e la conobbero, ma nessuno la fermò, nessuno le fece onore. I Pisani avevano già perduta la fiducia nella potenza dei suoi begli occhi! Arrivata alla porta della fortezza, Gabriella con voce ferma e risoluta, chiese di parlare al Comandante; le guardie riconosciutala, sorridendo le additarono cortesemente il luogo di sua dimora, e verso quel loco la fanciulla speditamente s’incamminò... Un servo precedendola, l’annunziò a D’Estrangues, e si ritrasse tosto che essa fu nella stanza. Il Comandante Francese sedeva scrivendo; al nome di Gabriella un fuoco gli corse per ogni vena, un fuoco che ardeva tacito negli intimi recessi del cuore, e in quel momento tornò a divamparsi in incendio. Gabriella gli si accostò, piegò un ginocchio a terra, e alzando gli occhi divini pregni di lacrime al viso dell’amante: - Pietà di Pisa, disse, con un tuono di voce pieno di tutto quel gentile incanto di cui può vestirsi la preghiera sulle labbra d’una donna diletta. - Pietà de’ suoi Cittadini, della mia famiglia, di me!! D’Estrangues immobile, la stava contemplando; la penna gli era caduta di mano, e aveva per forza d’attrazione chinato il viso verso quello della supplicante. Non pensava a muoversi, a rialzarla, ma i suoi sguardi esprimevano, che il lasciarla in una posizione umiliante, non era prova d’orgoglio o di poco amore, ed essa anzi leggeva in quelli sguardi, e in quell’oblio delle convenienze sociali, la prova del riacquistato imperio, la sicurezza del trionfo. La porta si aprì all’improvviso, un Ufficiale del presidio si affacciò nella stanza, e: - Comandante, gridò, i Fiorentini sono sotto le mura! - I Fiorentini! esclamarono al tempo medesimo D’Estrangues e la fanciulla; l’uno con l’accento del dolore, l’altra con quello della disperazione. - I vostri ordini, Comandante, soggiunse l’Ufficiale. - “Dateli”, gridò Gabriella alzandosi in atto di dignitosa fierezza, “dite che spalanchino le porte ai nostri carnefici, accoglieteli, festeggiateli; io, mio padre, mio fratello, e quanti sono in Pisa capaci di anteporre la morte alla servitù morremo prima di cadere nelle loro mani”. Ciò detto si mosse per escire. D’Estrangues la trattenne, e con voce tremante osò ricordare essere egli suddito e soldato, e perciò costretto alla consegna della Città e della fortezza. “Obbedite, replicò Gabriella, la maledizione di Dio sta già sul capo di Carlo, compite la misura dei suoi misfatti, sacrificate un popolo che fida in voi, ajutate i Fiorentini a rialzare i patiboli”. In quel momento s’intesero molte grida dalla parte della Città; era il popolo che chiedeva di escire in armi contro i Fiorentini; il furore e la disperazione gli avevano restituito momentaneamente l’antica energia; i vecchi medesimi s’erano rivestiti dell’armatura dimenticata già da tanti anni. D’Estrangues, accostandosi a Gabriella: “Senti, (le disse) i Fiorentini sono venuti chiamati da me, ed io gli ho chiamati perchè il farlo era mio dovere; se permetto che sieno assaliti dai tuoi concittadini, mi fo reo d’un tradimento codardo, e di un atto di ribellione... vuoi tu che ti sacrifichi l’onor mio? dimmi Gabriella, lo vuoi?” Gabriella non aveva mai calcolato la differenza che passava fra i doveri di una cittadina di Pisa, e quelli del Comandante di un presidio forestiero. A parer suo, l’onore tanto per lei, quanto per D’Estrangues, e per tutti gli uomini della terra, consisteva nel liberar Pisa dai Fiorentini, nell’assisterla a esterminarli: perciò senza scrupolo e senza rimorso, impiegò tutta la potenza delle sue attrattive per indurre lo sfortunato Comandante a non impedire al popolo in armi l’escita dalla città. - Fu un permesso strappato alle sue labbra ebbre del veleno succhiato su quelle di Gabriella, nel primo bacio d’amore... bacio ahime! pagato poi a troppo caro prezzo! I Fiorentini non ressero all’assalto inaspettato, e fuggirono disordinatamente verso Firenze; i Pisani ritornarono in città lieti e superbi della facile vittoria. Gabriella dall’alto del balcone del palazzo paterno, vide i reduci incamminarsi verso la Cattedrale per deporvi le armi e le bandiere dei fuggitivi; ... fu salutata salvatrice della patria, e si abbandonò ai trasporti d’una gioja inconsiderata. D’Estrangues frattanto leggeva un foglio del Tentaville (il Capitano Francese che aveva consegnato Livorno ai Fiorentini): “Fuggi subito, (gli scriveva) o morrai della morte dei traditori”. Già, appena Gabriella fu lontana dagli occhi suoi, accorgendosi d’essere precipitato in un baratro senza fondo, egli aveva portata la mano sulla sua spada per darsi la morte, ma, oimè! come abbandonare un mondo in cui Gabriella rimarrebbe senza di lui, e potrebbe fare un altro amante beato dell’amor suo! Questa idea gli fermò la mano. Ebbe poi per un momento quella di trascinarla seco sotterra, ma l’istinto generoso dell’ animo la respinse lontano da sè: “Essa non si è disonorata, esclamò, essa può vivere!” Progettò in seguito di fuggire con lei in qualche paese lontano, e godervi nella solitudine le caste gioje d’un amore corrisposto. L’immagine della prole a cui lascerebbe per unico retaggio, la miseria e l’obbrobbio, lo distolse dall’eseguirlo… e finalmente ricorse ad un mezzo termine, solito appiglio di chi costretto a risolversi ripugna dai partiti definitivi. Escì dalla Cittadella di notte, solo, senza avere riveduto Gabriella, senza averle dato avviso del dove anderebbe, e probabilmente ignorandolo egli medesimo. Pochi mesi dopo si sparse voce che un Eremita si fosse stabilito in riva al mare, lungo la costa della via Maremmana in cima a quell’erta su cui molti anni dopo fu fabbricata la torre del Romito. La gente dei contorni era persuasa che quel galantuomo vivesse in quell’arida solitudine, immerso nella meditazione, e nella preghiera, col corpo sulla terra e coll’anima già distaccata dai pensieri terreni! Pisa intanto era ricaduta sotto la tirannide della sua nemica; i Francesi si erano allontanati dal suo territorio, e contro D’Estrangues, reo contumace, era escita sentenza di morte e d’infamia. La bella Lante ritirata in un Castello poco lontano da Monte Massi, piangeva la schiavitù della patria, e le sciagure dell’amante, di cui ignorava il destino. Il padre e il fratello dividevano seco la mesta solitudine di quell’antico feudo della loro famiglia. Circa due anni dopo la scomparsa del Comandante Francese, in una gelida notte di Gennajo, fu bussato forte forte al Castello dei Lante. I servi dopo essersi assicurati che la persona bussante era sola, le apersero, e si videro davanti un monaco Agostiniano, di quelli dell’Eremo di S. Jacopo d’Acquaviva. Domandò del padrone di casa, e il padre di Gabriella si alzò subito dal letto, scese in una sala terrena dove il Monaco l’aspettava, e inchinandosi riverente, lo interrogò sul motivo che lo aveva condotto a casa Lante in mezzo al gelo di quell’ora notturna. Il monaco gli narrò che un eremita, abitatore delle rupi della via Maremmana, lo aveva fatto chiamare a sé, che egli era subito accorso presso di lui, e aveva trovato un moribondo sfigurato dalle lunghe austerità e dal male; aggiunse che gli era riuscito impossibile lo indurlo a riconciliarsi con Dio, perchè il suo spirito vagava lunge dal sentiero della salute; che finalmente il moribondo si era lasciato cadere alle sue ginocchia e abbracciandole: Padre, gli avea detto con voce soffocata dal rantolo dell’agonia, se non riveggo Gabriella, io spirerò maledicendo la morte, e sento che si avvicina; padre, salvate l’anima mia! Correte a Casa Lante vicino a Monte Massi, dite a suo padre di condurmela;... Il desiderio immenso e la speranza mi alimenteranno la vita fino al vostro ritorno, andate e dite che vi manda Ernesto D’Estrangues. A questo nome, il vecchio Lante trasalì; conteneva un cumulo di memorie funeste, e il padre di Gabriella aveva sperato di non udirlo pronunziare mai più; ma la coscienza gli comandava di obbedire all’ultima volontà di un moribondo... Lasciò il frate nella sala, e andò egli medesimo a destare Gabriella, e a farla avvertita della necessità di alzarsi e prepararsi a montare a cavallo col fratello e con lui. La fanciulla, quando la voce del padre venne a riscuoterla dal sonno, sognava l’amante perduto; le pareva che la chiamasse da un luogo inaccessibile, ed ella affannandosi per salire fino a lui, sdrucciolando cadeva, e i sassi e le spine le laceravano i piedi e le mani, mentre egli continuava a supplicarla perchè salisse. Provò meraviglia all’annunzio della partenza: “Dove anderemo noi?” domandò – “Dove ci chiama un’opera di misericordia” rispose il padre. Un quarto d’ora dopo, la piccola comitiva era a cavallo, il monaco cavalcava innanzi agli altri per servire di guida. Gabriella gli si accostò e – “Mi pare che ci conduciate verso il mare, gli disse, veggo brillare innanzi a noi il faro del porto” – “Andiamo infatti verso il mare, rispose il monaco, e Dio voglia che arriviamo in tempo”. Il viaggio riesciva faticoso per la neve, per i burroni profondi; finalmente raggiunsero il mare, e s’inoltrarono lungo il lido. Un vento gelido percuoteva la faccia dei viaggiatori; le onde mandavano un cupo muggito, e un fioco raggio di luna trapelava ogni tanto nella nera cortina di nuvole, squarciata quà e là dalla tramontana. Il monaco si fermò e scese da cavallo; i suoi compagni fecero altrettanto, e legati i cavalli al tronco d’un pino, salirono dietro di lui un sentiero irto e anche scosceso. Gabriella saliva, muta e tremante. La solennità delle poche parole pronunciate da suo padre e dal frate, l’averla fatta escire di casa in mezzo alle tenebre e al gelo di quella notte, erano circostanze che preparavano l’animo della fanciulla a qualche cosa di straordinario, di tremendo; e siccome l’immagine D’Estrangues si mescolava a tutti i suoi pensieri, così s’intrometteva anche a quelli relativi ai casi di quella notte. Finito ch’ebbero di salire, il monaco si fermò, e: “Vive ancora, (disse volgendosi al vecchio Lante), recitano le preghiere degli agonizzanti”. In quel momento un eco di voci flebile e lamentoso arrivò all’orecchiò di Gabriella unito al sibilo acuto del vento. - “Chi è che vive ancora? oh ditelo, ditelo!” esclamò. – “Un infelice, rispose il monaco, - entrate - e aperto l’uscio della capanna, v’introdusse i suoi tre compagni”. Gabriella vide due frati, che pregavano a voce bassa accanto a un giaciglio nel fondo della capanna. Il fioco lume d’una lampada ondeggiava mosso dal vento, ora lasciando gli oggetti in una profonda oscurità, ed ora accrescendone le proporzioni, col gettarvi sopra uno splendore improvviso. Il conduttore dei Lante si accostò al giaciglio, si chinò sulla Creatura chi ci stava lottando colla morte, e: “Fratello, le disse, il Signore vi ha esaudito, io non sono tornato solo”. La voce del monaco, produsse sul moribondo un effetto meraviglioso. Egli si alzò a sedere, si guardò d’intorno con occhio ardente di vita, di speranza, di desiderio. – “Gabriella!” disse con voce alta e chiara. – “Son qui” - intese rispondersi da quella voce, che da due anni non risuonava più al suo orecchio, senza avere mai cessato di risuonargli nel cuore. – “Ernesto, son quì!” Il morente si alzò in piedi, e i tre Lante, al lume tremulo della lampada si videro in faccia lo scheletro del già Comandante Francese. -“Grazie, padre mio!” disse stendendo la mano scarna al monaco; - “Signori, (soggiunse poi, volgendosi ai due cavalieri Pisani) voi mi ritrovate alquanto diverso da quello che io mi fossi due anni fa! e tu, Gabriella...(e fissò gli sguardi sopra di lei) tu devi mal riconoscermi... tu sei bella, divinamente bella, come nei giorni del nostro amore! mentre io sono lo spettro di Ernesto!... tu puoi vivere e godere, io ho sofferto e muojo! Ti feci il sacrifizio dell’onor mio, resta a sapersi se tu chiedendolo eseguisti o tradisti i dettami del tuo; se hai di che lodarti o piangere per il tuo operato - Eri cittadina di Pisa, è vero - ma eri anche l’amante di D’Estrangues - Io non posso farmi tuo giudice, lascio il giudizio alla tua coscienza, ai posteri, a Dio! - Privo del mio onore, privo di te, io non posso vivere; tu che presiedesti al mio destino, tu che di lieto lo hai cangiato in funesto, vieni ora a presiedere al mio momento supremo. I miei conti coll’Eternità sono fatti, mi rimane a farli con te, co’ tuoi parenti... Tu, giovine inesperta non sapevi in che consistesse l’onore di un soldato, essi dovevano saperlo, e non persuaderti di far bene calpestandolo; perchè, o signori, (e così dicendo si rivolgeva al padre e al fratello della fanciulla) se i fatti disonesti disonorano chi li commette, neanche danno gloria a chi se ne fa istigatore. Pisa è tornata alla sue catene, e voi le deste appena pochi giorni di libertà, a costo dell’onor mio; dividete ora l’obbrobrio del suo servaggio; la morte viene a liberare la vostra vittima dall’infamia!” -Queste ultime parole escirono a stento dalle fauci dello sfortunato Comandante... barcollò e cadde sul letto... Gabriella e i suoi parenti erano rimasti come colpiti dal fulmine; i tre monaci s’inginocchiarono, e ripresero a recitare sotto voce le preci degli agonizzanti. Egli muore! gridò Gabriella, che l’eco di quelle preci aveva riscossa dallo sbalordimento - egli muore! e non mi ha perdonata! La sua voce arrivò al cuore D’Estrangues anche in mezzo agli spasimi dell’agonia: “Si, sì, disse, io... ti... ho perdonata, io... ti..” non altro soggiunse; le sue labbra si chiusero, lasciando a mezzo la manifestazione del suo pensiero. Forse nel giorno del gran giudizio, si riapriranno per compirla; fino a quel giorno la voce di D’Estrangues non aggiungerà sillaba a quell’io ti... pronunziato mentre il cuore batteva l’ultimo tocco. - Ahi! la morte! orrore! disperazione! a chi la vide invadere le sembianze d’una creatura diletta; a chi pose la mano sul petto stato fino a quel momento suo sostegno, suo asilo, e lo sentì muto, freddo! Gabriella non tramortì; i dolori mediocri tolgono l’uso dei sensi, il dolore che ferisce di ferita mortale, centuplica le forze vitali per centuplicare lo strazio. Il padre e il fratello condussero via la sfortunata fanciulla, che impresso un bacio sulla fronte del morto, li seguitò docile rassegnata. Otto giorni dopo, entrò in un convento, e nel giorno anniversario della morte di D’Estrangues, rese anch’essa l’anima a Dio. Lo aveva amato da prima, colla leggerezza del sesso e dell’età, poi colla compiacenza della vanità soddisfatta. - Quando egli scomparve da Pisa, il suo amore diventò un sentimento pieno di mestizia e di rimorsi, scevri di pentimento, perchè essa non poteva pentirsi d’aver tentato di salvare la patria dal giogo dei Fiorentini. - Dopo che D’Estrangues fu morto, senza potersi persuadere d’aver mal fatto, desiderava soffrire in espiazione dei dolori sofferti dal suo amante, e morire per riunirsi a lui nel grembo della Eternità!
(Da: "Cenni sopra Livorno e i suoi contorni” di Angelica Palli 1856)
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