Le ferrovie durante il fascismo
Il 12 novembre 1938 viene inaugurata l'intera elettrificazione
della linea ferroviaria Livorno-Roma. Tutto il percorso in 3 ore
e mezzo contro le 19 precedenti.
Dal 1
gennaio 1939 anche i capistazione locali adottano l'uso della
paletta rossa e verde per comandare la partenza dei treni,
sostituendo la vecchia e gloriosa trombetta di ottone.
Orologio alla mano (l'orologio da taschino assegnato dalle
ferrovie al capostazione era veramente un pezzo d'arte per
l'epoca) alzava la paletta all’orario preciso al secondo e
l’arrivo era altrettanto preciso.
I treni si componevano di carrozze di prima, seconda e terza
classe, e nelle stazioni c’erano i ristoratori per ognuna delle
tre classi. I treni arrivavano in orario, secondo una precisa
direttiva del ministro delle Comunicazioni Costanzo Ciano e
questo, al di là delle differenze di classe, era un privilegio
di cui godevano indifferentemente tutti i viaggiatori, ricchi e
poveri.
Alla fine del 1937 gli scompartimenti dei treni vennero
completamente rinnovati. La terza classe divenne più
confortevole. Le vecchie panche di legno furono sostituite da
morbidi sedili con cuscini e braccioli di gommapiuma ricoperti
di velluto color marrone. Più eleganti e decorate le carrozze
chiamate con orgoglio «carrozze dell’autarchia». In prima classe
prendevano posto i gerarchi, gli onorevoli, gli alti ufficiali,
i capitani d’industria, gli uomini d’affari e i finanzieri che
utilizzavano il treno su percorsi dai 100 ai 400 chilometri. Gli
statali di livello medio, la borghesia agiata, i piccoli
imprenditori viaggiavano in seconda classe per spostarsi dalle
città di provincia ai capoluogo su percorsi di 100 chilometri al
massimo. Era gente che non possedeva l’automobile. La terza
classe era affollata di pendolari, operai, contadini, piccoli
negozianti, studenti che dalla provincia si recavano nella
grande città senza superare i 20-30 chilometri.
Nella primavera del 1942 la prima classe venne abolita sui treni
delle Ferrovie dello Stato, tranne che sui treni internazionali.
Il provvedimento s’era reso necessario per il malvezzo dei
passeggeri di terza classe di occupare le carrozze di prima
anche se nella terza classe c’era disponibilità di posti.
Sebbene il treno fosse l’unico mezzo di trasporto di massa, non
era molto economico. Anzi, rispetto alle tariffe d’oggi, era
carissimo; però il servizio era infinitamente migliore. Inoltre
si poteva usufruire di sconti dai 30 ai 50 per cento in
occasione di fiere, mostre, viaggi di nozze. Fino al 1925 le
tariffe veniva no calcolate in base al valore della lira di
prima della guerra, mentre i salari venivano pagati in lire
svalutate. Ciononostante il regime, che non temeva le critiche e
l’impopolarità, impose anche una maggiorazione dei 225 per cento
e un tariffario a base costante entro un raggio di 400
chilometri: vuol dire che un viaggio di 300 chilometri costava
esattamente il doppio di uno di 150 e il triplo di uno di 100;
il prezzo al chilometro non diminuiva, come sarebbe stato più
logico, in proporzione alla lunghezza progressiva del tragitto.
La seconda classe costava una volta e mezzo di più della terza e
la prima il doppio della seconda. Per fare un confronto, i
biglietti ferroviari d’allora costavano tre-quattro volte di più
di quelli d’oggi. Viaggiare era caro, ma il servizio era
ineccepibile, il personale efficiente e gentile. Non era una
leggenda la puntualità «svizzera» dei treni italiani. Bisognava
rispettare la tabella di marcia pena gravi sanzioni
disciplinari. I viaggiatori dovevano tenere un comportamento
civile e decoroso, era assolutamente vietato parlare ad alta
voce disturbando i vicini, giocare a carte, stendere le gambe
con le scarpe sulle poltrone. Sui treni non era vietato fumare,
come non lo era quasi da nessuna parte, compresi i cimiteri e i
luoghi sacri; ma era vietato lasciar cadere la cenere del sigaro
o della sigaretta per terra, o gettare i mozziconi nello
scompartimento o nel corridoio; la ritirata doveva essere
lasciata pulita e in ordine. Era vietato sputare, come lo era
dovunque, nei negozi o sui tram, giacché sputare era un vizio
disgustoso molto diffuso. Norme civili di comportamento che il
capotreno aveva l’obbligo di far rispettare ed erano rispettate.
La pulizia delle carrozze era particolarmente raccomandata sui
convogli diretti oltre confine. Era vietato suonare la chitarra
o il mandolino o cantare canzonette. Si pretendeva che
all’estero si smettesse di chiamare gli italiani «macaroni» o
mandolinisti e di raffigurarli con i riccioloni e i baffi neri
secondo uno stereotipo infamante che «non corrispondeva più
all’italiano nuovo». Organetti, suonatori ambulanti,
posteggiatori scomparvero da un giorno all’altro, insieme a
tutto ciò che ricordava l’Italietta misera e pittoresca del
«dolce far niente», che incantava il visitatore straniero. Venne
abolito l’uso della mancia, retaggio servile; ma si continuava a
elargirla in barba alle disposizioni. Nel 1923 fu istituito il
corpo speciale della milizia ferroviaria con lo scopo di
vigilare su furti, manomissioni, inefficienze, abusi e ogni
genere d’oltraggio al viaggiatore. Una specie di milizia
gastronomica vigilava sui treni e nelle stazioni affinché i
cestini da viaggio e i pranzi volanti, solitamente abbondanti e
indigesti, fossero confezionati nel rispetto della qualità e del
giusto prezzo, secondo i canoni del buon mangiare italiano.
«Il viaggiatore, specie straniero» spiegava il Duce «deve vedere
nel milite che, silenzioso e pronto, percorre i corridoi del
treno e vigila nelle stazioni l’emblema dell’Italia nuova e tale
impressione deve essere migliore.» L’Italia aveva purtroppo una
cattiva reputazione. Ma sui treni furti, danneggiamenti, abusi e
incuria diminuirono drasticamente. Da un massimo di 63 milioni
(d’allora) pagati per gli indennizzi dalle Ferrovie nel 1922 si
scese a poche migliaia di lire negli anni successivi.
Le piccole clientele, i favoritismi nell’amministrazione
ferroviaria, specie al Sud, vennero scovati e perseguiti. Un ex
ferroviere venne cacciato dal sindacato fascista di Melfi perché
faceva viaggiare gratis i compaesani da Foggia a Melfi. Si
scoprì che nel Meridione era prassi corrente per chiunque
indossasse una divisa fare simili favori a parenti e compari.
Nella lotta tra «La Nazione» di Firenze e «Il Telegrafo» di
Livorno il ministro Costanzo Ciano, proprietario del quotidiano
livornese, trovò il modo di liberarsi della concorrenza del
giornale fiorentino ordinando che il primo treno utile da
Firenze per Livorno per la distribuzione delle copie appena
stampate della «Nazione» anticipasse la partenza da Santa Maria
Novella a mezzogiorno in punto. Troppo presto perché «La
Nazione» potesse prenderlo in tempo. Bisognava aspettare il
treno delle sedici, quando i lettori livornesi avevano già
comprato «Il Telegrafo». I tempi di percorrenza non erano molto
superiori a quelli d’oggi, talvolta erano uguali e in alcuni
casi addirittura inferiori. Nel 1931 i rapidi a vapore
Milano-Venezia, con sosta a Verona, impiegavano meno di 3 ore;
un Intercity odierno impiega 3 ore e 4 minuti.
L’autotreno elettrico aerodinamico denominato Freccia rossa
andava da Milano a Venezia in 2 ore e 20 minuti, alla media di
170 chilometri all’ora raggiungendo in alcuni tratti i 178
chilometri all’ora. Un treno rapido impiegava 1 ora e mezzo da
Milano a Torino, lo stesso tempo di un Intercity di oggi:
«La velocità è alla base di ogni perfezionamento» era il motto
delle Ferrovie dello Stato fasciste. Francamente oggi farebbe
ridere. Nel 1939, su 22.800 chilometri di ferrovie (contro i
15.983 attuali), ne erano stati elettrificati 5500, con
l’obiettivo di raggiungere i 9000 chilometri del programma.
L’Italia aveva cominciato a elettrificare le ferrovie fin dal
1930, ma dal 1935, dopo le sanzioni della Società delle Nazioni,
fu costretta a intensificarne il programma per far fronte
all’embargo sul carbone e sui combustibili liquidi. Facendo di
necessità virtù, l’Italia alla vigilia della seconda guerra
mondiale aveva una rete ferroviaria tra le più moderne e
sviluppate d’Europa. Nel 1930 erano stati elettrificati 2650
chilometri di ferrovia contro i 2404 della Svizzera, i 1550
della Germania, i 1197 della Francia, i 1168 della Svezia, i 743
dell’Inghilterra.
Con l’avvento della trazione elettrica, dei veloci elettrotreni
ETR 200 e delle famose «littorine» (nel 1936 ne erano in
servizio 180 anche sulle grandi linee non elettrificate e altre
200 erano in costruzione), i tempi di percorrenza di alcune
tratte vennero, come si vedrà, dimezzati.
Così il «Corriere della Sera» del 23 maggio 1937 commenta
l’inaugurazione della linea Napoli-Bologna-Milano: «Con
l’inaugurazione della linea regolare Napoli-Bologna-Milano,
servita da treni aerodinamici a trazione elettrica, l’insinuante
vaporiera che esaltò tante ispirazioni liriche entra nell’ultima
fase della sua decadenza e comincia l’epoca dell’elettrotreno.
Non più lunghe code di vagoni infilati uno dietro l’altro come
elementi d’una enorme collana metallica: ora una serpe d’acciaio
col muso di testuggine s’avventa sul binario luccicante
snodandosi sulle articolazioni pressoché invisibili della sua
struttura. Frantumato ogni primato precedente di velocità e
comodità. Si va da Napoli a Bologna in 6 ore e 20 minuti. Le
carrozze sono climatizzate a temperatura costante. Si parte da
Napoli a venti gradi e si arriva a Bologna a venti gradi:
abbasso i raffreddori. Alle 10 partenza da Napoli. Roma ore
11.40, a Firenze alle 15.15. Fino a Bologna non c’è nemmeno il
tempo di un pisolino: appena 55 minuti. Alle 16.20 un facchino
trasborda le valigie sul rapido in coincidenza, che arriverà a
Milano alle 19.20».
All'inaugurazione della linea elettrificata Roma-Livorno nel '38
il sottosegretario Zenone Benini, intimo dei Ciano, a
bordo del treno nel viaggio inaugurale, aveva ricordato che
quando le ferrovie italiane non erano ancora state
nazionalizzate ci volevano 18 ore per andare da Roma a Livorno
anziché 3 e mezzo.
Nel 1939 la velocità media delle grandi percorrenze ferroviarie
era di 120 chilometri all’ora mentre oggi è di 90.
Con i nuovi elettrotreni veloci, capaci di viaggiare a 145
chilometri all’ora, si andava da Milano ad Ancona, 423
chilometri, in 4 ore e 40 minuti; da Milano a Bologna in 1 ora e
50 minuti; da Milano a Roma in 5 ore e mezzo, anziché 12; da
Milano a Napoli in 7, dieci anni prima ce ne volevano 17; da
Napoli a Foggia in 3 ore e 30, anziché in 5. (Più o meno i tempi
d’oggi). Per poter raggiungere più agevolmente la grande
Esposizione Universale, quando fosse terminata l’opera, venne
costruita la ferrovia Roma-Lido per l’EUR, capace di trasportare
23.000 viaggiatori all’ora nell’uno e nell’altro senso. Sulla
Napoli - Reggio Calabria nel 1920 col «direttissimo» si
impiegavano 13 ore e 40 minuti; nel 1939, grazie
all’elettrificazione, si copriva lo stesso percorso in 6 ore e
10 minuti.
Da Bologna a Firenze, con la nuova direttissima, si impiegava
poco meno di un’ora, come oggi. «La direttissima è quindi
un’opera squisitamente e interamente fascista» scriveva Arturo Tofanelli, appassionato cultore delle opere del regime. E per
una volta aveva ragione.
La popolarità raggiunta dalle Ferrovie, che dal 1927 al 1930
trasportarono una media annua di 230.000 viaggiatori in prima
classe, 1 milione in seconda e 8 milioni e mezzo in terza,
consentì all’azienda di trasformare il deficit ereditato dai
governi prefascisti in un discreto utile. Ma già si profilava
all’orizzonte un temibile concorrente, destinato a più duraturi
successi negli anni avvenire, e tuttavia a restare per molti
anni ancora un sogno irrealizzato per i più: l’automobile.
(Sintesi da: "Otto milioni di biciclette" di Romano Bracalini) |