Rosignano Marittimo chiese ed oratori |
Sopra
il cancello principale del cimitero una epigrafe dettata dall’Avv.Berti: |
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Annesso alla Pieve
vecchia c'era sempre stato un ristretto cimitero, che man mano venne
ingrandito a cura dei pievani prima, e poi del Comune. Nel 1804 il
Comune concesse alla Compagnia della Natività di Maria e del SS.
Sacramento l'uso del camposanto del poggio di San Rocco, che già
esisteva e siccome anche la detta Compagnia aveva già, un cimitero in
prossimità della sua chiesa a circa « 200 pertiche » di distanza, così
si deve dedurre che in quell'anno 1804 il cimitero della Compagnia fu
soppresso, forse per la troppa vicinanza all'abitato. Nel 1817 il
camposanto della Pieve vecchia fu ancora ampliato e fu istituito il
becchino compensato con L. 84 all' anno. Il primo becchino fu Sebastiano
Merlini. Nel 1847 gli successe Gaetano Bientinesi e suoi discendenti. Nel
1835 il cimitero della Pieve vecchia subì un nuovo ampliamento, con
muro di cinta, con la cappelletta attuale, e con un'area capace di 966
cadaveri nel corso di 10 anni. In quell' anno fu soppresso il cimitero
al Poggio di S. Rocco e il suolo relativo, dopo aver fatta la esumazione
delle ossa nel 1843, venne assunto a livello dalla Signora Albertina
Geri col canone di L. 8-13. Sopra
la porta della cappella del cimitero della Pieve vecchia una lapide
ricorda l'ampliamento del 1835. « A. D. O. M. e a S. Rocco - poiché il morbo
cholera - invadendo Rosignano - destò l'amara sollecitudine di
accrescere - l'estremo asilo dei trapassati - questo tempietto
dedicato-ove pace per loro-il fedele invochi-fu da fondamenta eretto
l'anno 1835». Il cimitero così ampliato fu benedetto il 18 Giugno 1837 e
la cappella il 19 Agosto 1838. Intorno al 1875 il cimitero fu ancora
ingrandito con due nuovi recinti, su progetto minimo dell'Ing. Carlo
Cartoni, che aveva studiato anche un progetto massimo, sfortunatamente
non accolto. Nel 1903
fu eretto il sepolcreto
(Cappella
n.d.r.) Vannini; nel 1907 quello Gori; nel 1909 quello
Nencini; nel 1911 quello Silvestri. La storia riscoperta dai defunti. Catalogate 7000 tombe
Ricostruire il «viatico della gente comune» dalla lettura degli epitaffi,
dal linguaggio delle lapidi, dai segni e gli elementi
ornamentali delle tombe. Era questo l’obiettivo che si sono
posti Comune e Microstoria nel lanciare il progetto, presentato
al Castello Pasquini, denominato «Il cimitero è un museo
all’aperto»; progetto che coinvolgerà le scuole, ma che ha già
interessato da vicino diversi nuclei familiari del nostro
territorio che hanno contribuito a riscrivere alcune
significative pagine della memoria dei loro cari. Già 7000 le
tombe catalogate, un progetto che coinvolge il museo
archeologico diretto da Edina Regoli, che ha interessato anche
architetti come Graziano Massetani che ha riletto la
«pianificazione cimiteriale» delle nostre aree funerarie e che
si aprirà alle scuole e su cui l’amministrazione ha puntato,
mentre va avanti un programma per favorire nei cimiteri la
rotazione delle tombe, le inumazioni e le cremazioni. "In
indicibili ansie, mentre insanguinava l’umanità per la guerra,
Santina Potenti nata Tani pianse, nell’attesa anelante, il
marito soldato, col raggio della pace si spense la luce della
speranza che dal crudel morbo colpita, allo sposo Alessio
mancava, spirata l’ora del suo ritorno". Sembra un epitaffio
scritto da Edgar Lee Master, per la sua cittadella dei defunti
celebrata nell’intramontabile antologia di Spoon River. Invece è
il testo scolpito su un’elegante lapide in bargiglio con cimasa
ed arco nel piccolo cimitero di Castelnuovo della Misericordia.
Santina Tani in Potenti era nata il 5 dicembre 1885: si spense a
34 anni, nel 19, uccisa dal “crudel morbo”. Come lei furono
decine e decine le donne e gli uomini portati via dalla
spagnola, l’epidemia mortifera che scoppiò nel 1918 e che seminò
più dolore della guerra anche nel nostro territorio, dalle
colline al mare. L’epitaffio di Santina e della cognata Carmela
Potenti è solo una delle tante scritte funebri collezionate e
catalogate in un volumetto, curato dalla Coop Microstoria e
scritto da Angela Porciani e Giangiacomo Panessa, in cui si
riscopre e si valorizza il cimitero locale come «museo
all’aperto». Un volume realizzato grazie alla collaborazione
dell’ufficio cimiteri e polizia mortuaria del Comune di
Rosignano e per l’impegno profuso dal suo dirigente, Donatella
Mariani, responsabile e coordinatrice scientifica del progetto.
Archivisti e ricercatori hanno catalogato e fotografato circa
7000 tombe disseminate nei 6 cimiteri comunali: hanno
individuato quelle sepolture, tra circa 12mila morti (tra tombe
e inumazioni), che si caratterizzano per le peculiarità dei
personaggi deceduti. Gente che non ha fatto la Storia per gesta
memorabili, degne d’essere narrate. Ma gente comune, che, nel
proprio piccolo microcosmo, ha scritto comunque pagine ricche di
significati nella storia della vita di tutti i giorni. Nelle
carte conservate nell’archivio storico comunale, consultate da
Porciani e Panessa, si scopre che la prima traccia scritta di un
cimitero a Rosignano risale al 1675, in prossimità dell’antica
pieve che fu poi distrutta nella seconda metà del ’700 e con i
materiali della quale fu poi costruita la stanza mortuaria che
ancora oggi conserva alcune pietre antiche. Ma l’origine del
cimitero risale probabilmente a un centinaio d’anni prima quando
s’incontrano tracce di un «luogo per la sepoltura» a Poggio San
Rocco. Il filo comune che accorpa le lapidi nel periodo del
primo Dopoguerra è un filo rosso come il sangue; rosso per le
tracce lasciate dall’epidemia di spagnola che si portò via,
ufficialmente, quattro persone a Rosignano, cinque a Castelnuovo
e una a Vada; ma tanti altri - in realtà - furono le vittime
uccise da questa terribile pestilenza, come testimonia
l’apertura di un lazzaretto nel paese di Gabbro. «Ottima
figliola, Ernesta Baldasseroni/ non ancora ventenne/ colpita da
violento morbo epidemico», recita una lapide datata 1 aprile
1934, scolpita nel cimitero di Marittimo. La defunta è
rappresentata al centro di una fotografia ovale mentre,
composta, tiene in braccio un libro di Storia Patria. Come lei
la spagnola si portò via Vincenza Masoni , appena 18enne,
Sestilia Simoncini in Gavazzi, uccisa a 34 anni, Quintilia
Sandri in Chiellini la cui morte fu seguita, a distanza di pochi
mesi, da quella del giovane marito Corrado Chiellini (30 giugno
1919). La prima tomba che balza agli occhi nel cimitero di
Castelnuovo è quella di un ragazzino, Filiberto Pizzi, che fu
tra gli operai della Società Anonima Magnesite di
Castiglioncello, e morì per la spagnola a soli 15 anni.
Colpisce, per intensità, quanto scolpito sul marmo.
«Quindicenne/ sorridevagli la vita/ il suo bacio dolce/ ed il
suo sorriso/ nutrivano/ nel cuor de’ suoi/ speranza e amore/
allorché/ morbo repentino e spietato/ il 25 ottobre 1918/
rapivalo....». E’ rileggendo questo, come altri epitaffi- questa
piccola pagina di una Spoon River di casa nostra - che si
scoprono veri e propri spezzoni di storia e di vita che furono:
figure di soldati, di ferrovieri, muratori, di madri
appassionate, di operai vittime di infortuni sul lavoro, ed
anche di poeti. E così se il busto di Oliviero Malanima, soldato
della 226 Compagnia di Fanteria, campeggia come un guardiano
della pace eterna nel cimitero del Gabbro, nel piccolo cimitero
di Nibbaia si scopre che riposano le spoglie di molti operai
che, all’inizio del secolo, lavoravano per la società
Lavelli-Milano che estraeva magnesite a Campolecciano. Vittima
del lavoro fu Secondo Citi, caduto nel ’38, così come Priamo
Stiavetti, morto a 35 anni. Soldato fu invece Antonio Faccenda
di Francesco, sulla cui lapide conservata a Castiglioncello, è
scritto: «Dal cimitero di Narresyna/ dove mani straniere
composero il frale/ qui il 23 settembre 1923 con grande e
commosso concorso di popolo/ fu trasportato a richiesta della
famiglia/ Antonio Francesco Faccenda/ castiglioncellese che
sull’Hermada il 5 settembre 1917/ diede vigore ai suoi vent’anni
combattendo da prode/....». E a Vada che si conclude questo
itinerario della memoria. Qui s’incontra la tomba di Colombo
Conforti che fu primo cittadino di Solvay e, agli inizi del
novecento, intuendo il progressivo sviluppo industriale del
paese nuovo, aprì la prima osteria e locanda in via del
Litorale. Fu, insomma, il primo vero ristoratore del territorio.
Fu insignito dell’onoreficenza di cavaliere di Vittorio Veneto.
Altre sono le storie raccontate dai marmi delle lapidi dei
nostri cimiteri. Altre ancora saranno raccolte da questi giovani
ed appassionati «archivisti della memoria» nel loro piccolo, ma
significativo progetto che vuol custodire, senza disperdere,
semplici ma significative tracce di microstoria cittadina.
(Di Andrea Rocchi
per Il Tirreno) |
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