Nato a Rosignano
nel 1928, Squarci segue un percorso di studi umanistico, laureandosi in
Scienze Politiche. Lavora fin dall'inizio della sua carriera per “La
Nazione”, dove resta per per 25 anni, iniziando come collaboratore esterno.
Dirige poi la redazione di Montecatini e negli anni Settanta approda a
Firenze. Egisto Squarci è stato uno straordinario cronista del mondo della
medicina e della salute, riuscendo a tradurre il complesso linguaggio della
scienza in una forma chiara e accessibile a tutti, mettendo nelle sua prosa
quella leggerezza che era propria del suo carattere allegro e della sua
intelligente umanità
(è stato uno dei migliori giornalisti scientifici italiani). Sempre pronto ad aiutare gli altri e ad offrire la sua
amicizia e disponibilità, dimostrava un particolare interesse per i giovani,
con i quali amava confrontarsi e che da lui apprendevano, quasi senza
accorgersene, lezioni pratiche di giornalismo. All’ospedale di
Ponte a Niccheri a Firenze, dov’era ricoverato da alcuni giorni, è deceduto
il 13 dicembre 2006, a 78 anni. Rosignano, perde una figura storica, un
testimone della sua vita: per più di 25 anni ha raccontato l’evoluzione del
paese e della sua industria. Dall’immediato dopoguerra fino al ’68 è stato
animatore di associazioni locali, fra l’altro socio fondatore del C.G.
Solvay, al quale è sempre rimasto molto legato dopo averne raccontato la
storica promozione in serie C nel ’63. Le prime esperienze giornalistiche di Squarci risalgono al ’42. Cronista
scrupoloso, nel 1968 fu chiamato a dirigere la redazione di Montecatini dove
ha cominciato a interessarsi di medicina e salute, temi che ha approfondito
in 40 anni di attività nella sede di Firenze, prima come capo servizio delle
edizioni provinciali e poi in pensione come collaboratore d’eccezione.
Complessivamente ha redatto 5.000 pezzi su argomenti scientifici e medici e
ha poi svolto un ruolo importante come fiduciario regionale della cassa
sanitaria integrativa dei giornalisti dove recentemente era stato rieletto
con largo consenso per il terzo mandato consecutivo. Impegnato
nell’informazione sulla prevenzione delle malattie cardiache e oncologiche,
faceva parte della Commissione regionale di bioetica.
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Con Egisto se n'è andato un pezzo della mia vita
Egisto Squarci
non è più fra noi. Mi sembra ancora di vederlo mentre prende appunti sul suo
foglietto di carta da bozza ripiegato in quattro seduto accanto a me, nei
banchi riservati alla stampa durante le lunghe notturne sedute del Consiglio
Comunale di Rosignano Marittimo negli anni Cinquanta e Sessanta. Oppure, a
mattina inoltrata, mentre insieme andavamo a raccogliere notizie sui vari
incidenti stradali alla stazione dei Carabinieri o al commissariato di
Polizia o, addirittura, alla guardia medica dell’ospedale Solvay. O ancora,
e sempre insieme, nelle calde serate estive, ai margini delle piste da ballo
dei vari locali notturni della zona, per fare il “servizio” su cantanti,
divi, divette e miss di vario genere. Ci separavamo un pò quando ai trattava
di calcio o di teatro. Sì, perché lui, al contrario di me, era molto
addentro alle partite e alle vicende del pallone. lo invece preferivo
interessarmi di più al cinema e al teatro e non mancavo mai di fare una
intervista al famoso attore di turno. Io facevo la cronaca locale per “Il
Tirreno” e lui la faceva per “La Nazione”, quotidiano con il quale è stato
impegnato per tutta la vita con grande professionalità.
Certo, eravamo allora in forte concorrenza, ma eravamo legati da una tale
amicizia e da un così saldo affetto che mai avremmo potuto farci l’un
l’altro uno sgambetto. Egisto era un ottimo giornalista, aveva una vasta
cultura classico-umanistica che gli permetteva di discutere con cognizione
di causa di letteratura, di pittura, di musica, di filosofia, di storia.
Esponeva i fatti in maniera scorrevole, con grande proprietà di linguaggio e
una forma originale che lo contraddistingueva. Ma soprattutto aveva un animo
buono e gentile, sempre pronto a comprendere e a perdonare le debolezze
degli altri, sempre disponibile a dare una mano al suo prossimo.
Egisto se n’è andato e con lui se n’è andato anche un pezzetto della mia
vita. Ora mi piace immaginarlo oltre le porte del paradiso, seduto a una
bella scrivania e di fronte alla sua vecchia Olivetti “Lettera 22” che
redige notizie sulle vicende celesti di angeli e arcangeli, cherubini e
serafini. Ciao Egisto. Dino Dini
Riprendiamo dal giornalino: “La voce di Rosignano”
agosto 1947
numero unico dell’Università Popolare di Rosignano Solvay (Lire
15) un racconto della serie: "Nostalgie" di Egisto Squarci
La scuola
È strano come le cose cambiano aspetto, spesso anche per un particolare
insignificante. Quando rividi la mia scuola mi accorsi che era diversa:
qualche cosa non troppo pulito, pendeva da una delle finestre, forse un
lenzuolo, forse qualche altra cosa, non me ne preoccupai. Ormai l’edificio
aveva perso per me quella autorità e quella compostezza che si addicono ad
una scuola che si rispetti. Non era colpa sua, era colpa della guerra che
aveva fatto sparire tante case ed aveva costretto la gente a cercarsi un
tetto,
anche quello delle scuole elementari di un paese di provincia. E la gente
ci era entrata soddisfatta di tutte quelle belle stanze pulite, quei lunghi
corridoi ed aveva cominciato una lenta opera di distruzione, come spesso
avviene quando molta gente si riunisce in un luogo che dovrà abbandonare.
A noi che eravamo passati per quei corridoi in silenzio e con compostezza,
la scuola sembrò profanata, a quella gente, che aveva perso la casa, la
scuola sembrò adatta esclusivamente ad essere abitata.
Una volta non si poteva fare chiasso per i corridoi, ed allora invece altro
che chiasso!... Erano belle le nostre scuole, una volta, quando erano
allietate da tanti ragazzi, dalla voce degli insegnanti, dallo squillare
della campana nell’atrio, vicino all’ingresso, quella campana che ci
chiamava dentro e ci mandava fuori dopo quattro ore laboriose. Ora è triste,
invece, la nostra scuola. La gente che l’occupa se n’è andata, l’hanno
mandata via; non pendono più dalle finestre quelli stracci che la rendevano
tanto brutta, ma ha perso ora anche l’aspetto di casa. Ci sono rimasti
soltanto i muri, come uno scheletro, niente di vivo le hanno lasciato; i
bimbi di ora, quelli che hanno le loro aule disseminate un po’ in tutto il
paese, non possono credere che quell’edificio nudo sia stato una volta una
scuola; scuola vuol dire ordine, e lì certo l’ordine non c’è, scuola vuol
dire cattedra, banchi, ragazzi, e tutto questo manca. Ci sono soltanto
quattro muri scalcinati, che ci guardano con le occhiaie vuote delle loro
finestre, quattro muri e da una parte è stato scritto «Viva» da qualcuno,
estraneo, che certamente non sapeva che una volta era "severamente
proibito" imbrattare i muri. Dicono che ricostruiranno la scuola più bella e
più grande, è per questo che l’hanno ridotta in questo stato. L’hanno
distrutta, quasi, la nostra scuola elementare, ma forse è meglio così.
Possiamo ricostruirla da noi, passandoci vicino, possiamo ricostruirla, come
prima, con il materiale che ci offre la memoria. Ed i corridoi ritornano ad
essere puliti e pieni i sole, quello strano sole filtrato attraverso i vetri
opachi, e ci camminano ordinati i ragazzi, i bimbi a sinistra, le bimbe a
destra. E sembrava a noi bimbi di esplorare qualche cosa di pericoloso
quando nostro maestro ci mandava, con qualche incarico, in fondo al
corridoio di destra, con quelle bimbette vestite di bianco e col fiocco
azzurro che ci giravano intorno. I corridoi sono pieni di fiori, quei fiori
che ognuno di noi doveva portare per rendere più bella la mostra fioreale
della nostra classe, che non ha mai vinto il primo premio.
Vincevano sempre le classi dei più piccini, chi sa perché. E il Direttore,
ora ha i capelli bianchi, che ci veniva ad interrogare, e ci intimoriva con
delle domande strane, sembrava qualche cosa di molto rispettabile nella
stanza della direzione, con tutti quei fogli e il microfono e la macchina da
scrivere. E la «Sala didattica», con tutti quei sassi e minerali, e quegli,
aggeggi, che rendevano interessanti quelle poche nozioni di scienze e di
fisica che il maestro,
il «signor maestro», ci insegnava. Possiamo rimettere al loro posto, dietro
la cattedra, tutti gli insegnanti che abbiamo avuto: e la maestra di prima e
di seconda, con le aste e i gessetti colorati, e il maestro di terza e di
quarta, con l’esagono regolare e il triangolo isoscele, e il maestro di
quinta con il «Nuovissimo Melzi», il volume della sfera e la capitale
dell’Olanda. Incontriamo ogni tanto qualcuno dei nostri insegnanti, e lo
salutiamo con lo stesso rispetto di prima. Uno di questi giorni voglio
domandare al mio maestro di quinta,«VB» se vede, tra quelle quattro mura
scalcinate, la lunga fila di cappotti e logori e nuovi; se vede ancora
quelle carte geografiche dell’Europa, disperazione di tanti ragazzi e quei
banchi celesti, chi sa perché celesti, disposti in tre file. Voglio
domandargli se ricorda ancora il calore che emanavano quei lunghi strani
termosifoni, ora tutti rovinati, e quella macchia scura, sopra il
Crocifisso, che a volte sembrava un gatto e a volte una motocicletta, se
ricorda dello strano suono che aveva la campanella nelle giornate di
pioggia, quando ci chiamava cinque minuti prima, perché fuori c’erano le
mamme che ci aspettavano, con la mantellina e gli
ombrelli. Gli ombrelli che sotto l’acqua rumoreggiavano e davano uno strano
aspetto al piazzale, pieno di fango, quel fango in cui ci piaceva camminare
per sentirsi le scarpe pese, contenti per aver terminato quattro ore di
scuola, contenti di essere sotto l'ombrello, ben protetti, accanto alla
mamma, a cui tutte le volte ripetevamo, indicando una finestra verde con i
vetri opachi: «vedi, mamma, quella è la mia classe». EGISTO SQUARCI |