Le grotte di Pel di
Lupo scavate per nascondersi ai nazisti
Giuseppe Gambini, 92 anni.
“Anch'io ho scavato quelle grotte”. Ricorda ancora e racconta
lucidamente, quando sopra la sua testa passava la guerra aerea dei
tedeschi con gli americani ed a pochi chilometri il fronte che
avanzava, l'urgenza di proteggere la moglie e i due figli piccoli. Sessantatre anni dopo, le grotte abbandonate in località Pel di Lupo
parlano ancora di loro e della guerra. Sono lunghe, profonde, un
labirinto a cui si accede attraverso una serie di aperture rozze,
incorniciate dalla pietra e dalla vegetazione, a diversi livelli di
altezza rispetto al terreno. Grotte artificiali, nascondigli
collegati che nel 1943 ospitarono circa 20 persone e che oggi si
affacciano deserte sull'arido botro Crocetta. “Avevo 29 anni e abitavo a Caletta, mentre l’esercito americano
continuava a avanzare, decisi di costruire un rifugio in attesa che
la guerra passasse”. A 2 chilometri da Caletta c’era una collina di
circa 50 metri, isolata e costituita da pietra friabile, facile
da scavare col piccone. Il posto giusto per nascondersi, il luogo
ideale per aspettare. “Il mio rifugio era lungo alcuni metri. Su un
lato avevo lasciato una striscia di terra alta un metro, per
dormirci sopra la notte”. A fine giugno del 1943, quando il fronte
era vicino a Rosignano, il nascondiglio era pronto. La casa di
Caletta fu abbandonata e la famiglia Gambini, insieme ai due
suoceri, si rifugiò nella grotta. “Cucinavamo nel fosso, accendevamo
il fuoco e mangiavamo quello che c’era” ricorda. Per fortuna era
estate, non faceva freddo e i bambini erano troppo piccoli per avere
paura. “Consideravamo la guerra come una disgrazia caduta dal cielo.
Non potevamo farci niente, dovevamo solo aspettare gli americani”.
Poi un giorno arrivò un tedesco. Era in cima alla collinetta che si
affacciava sui rifugi e vide Giuseppe che era uscito dalla grotta.
Lo prese e lo portò con sé da un ufficiale che si mise a urlare in
tedesco. Gli aerei da ricognizione americani volavano sopra di loro
e non era il momento di prendere prigionieri. “Lascialo andare
subito” ordinò e il Gambini, libero e spaventato, corse nel rifugio
più velocemente che potè con la paura che cambiassero idea. Il
giorno dopo prese la moglie e i figli e si incamminò verso
Rosignano, lasciando la grotta di Pel di Lupo. “Non mi sentivo più
al sicuro e volevo andare via”. Poi l’arrivo degli americani e la
conclusione della guerra. Era finito il tempo dei rifugi.
(Di Roberta Giaconi da "Il
Tirreno" del 12/11/2006)
Giuseppe Gambini è
deceduto nel 2011 a 97 anni.
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Ricorda oggi
Umberto Roberti che i rifugi di Pel di Lupo erano stati costruiti a
regola d'arte da persone esperte, fra le quali suo padre che era un
cavatore.
La tecnica
costruttiva rispettava i requisiti di protezione antischegge
sfruttando la sinuosità dello scavo con continue deviazioni a destra
ed a sinistra, collegamenti fra le gallerie ed una via di uscita di
sicurezza che saliva inclinata verso il livello dei campi
retrostanti. Lo
scopo primario più che sfuggire alla Todt che rastrellava mano
d'opera valida, era proteggersi dai bombardamenti alleati che su
Caletta furono assai pesanti e colpirono anche vicino ai rifugi,
infatti la colonia estiva degli ebrei, ricostruita assai più piccola
nel dopoguerra lungo via di Serragrande al Casalino, andò
completamente distrutta. Le truppe tedesche presenti in zona
esigevano il rispetto del coprifuoco serale che costringeva a non
uscire e spengere ogni fuoco pena l'arresto, quindi nelle grotte si
viveva al buio dopo il tramonto. Erano forze di copertura formate da
giovani soldati delle SS di nazionalità polacca, comandate da un
ufficiale della Wehrmacht. Sapevano che vivevamo nelle grotte per
paura dei bombardamenti e non crearono problemi per molti mesi, ma
avvicinandosi il passaggio del fronte con gli alleati che si
avvicinavano, la situazione si fece più difficile, anche perché
sorgeva di frequente la necessità di nascondere persone in pericolo,
anche ebrei e spesso è stata utile la via di fuga citata.
(Aprile 2012)
I rifugi di Castiglioncello
In previsione del passaggio del fronte fu la
popolazione stessa ad attivarsi per la costruzione di rifugi. A
Castiglioncello, ne vennero ricavati tre nella parete rocciosa del
golfo del Quercetano (in realtà erano quattro, ma uno era il
riadattamento di una grotta naturale utilizzata come magazzino dagli
allora proprietari dei Bagni Italia). Un altro fu scavato nella
parete rocciosa che corre nel tratto della via Aurelia, tra via
Tripoli (ora via Zug) e Piazza della Vittoria. Sempre a
Castiglioncello ne furono scavati uno lungo il lato a monte della
Via Aurelia all’inizio del ponte sul botro del Quercetano, un altro
in via Mogadiscio, uno in via Bengasi, uno lungo il botro tuttora
adiacente il lato sud della pineta Marradi. Altri due furono scavati
in località “Fondino” e nella campagna tra Castiglioncello e
Rosignano, in località “Pel di lupo” e lungo il Botro Crocetta.
(Da
"Guerra a Castiglioncello" di Gabriele Milani) |