La
villa si trova al n°13 di via Monti (ex via della Torre) lato est oltre il posteggio dell'Hotel villa Parisi, ed è irriconoscibile perchè
trasformata in pochi appartamenti ed interamente circondata da
piante alte. Solo la targa verde del nome al cancello la
identifica.
Nel 1905 risulta la vendita
di una villa "Il Ginepro" in via della Torre da Giorgio Rabitti a
Lara Comparetti Milani.
Gli eredi Milani vivono ancora nella villa "Il bel verde". Da
generazioni, i Milani, producevano cattedratici fatti in casa e si
dedicavano a raffinati interessi culturali vivendo tranquillamente
di rendita. La tenuta di Gigliola a Montespertoli, composta da 25
poderi, aveva mantenuto intere generazioni di signori e letterati
della famiglia.
D'estate, la famiglia Milani, trascorreva le vacanze nella villa
“Il Ginepro” sul mare di Castiglioncello. Essendo una tribù
numerosissima, si trascinavano dietro una fila di automobili e di
aiutanti: cuoco, cameriera, servitore, autista, balia e
istitutrice. Alla famiglia Milani apparteneva Luigi Milani
sovrintendente alle ricerche archeologiche, che aveva seguito gli
scavi durante la costruzione della ferrovia e quelli nel parco del
castello. Aveva, nei primi anni del '900 costruito il piccolo
Museo Nazionale di Castiglioncello e acquistato la villa in via Monti nella
quale la famiglia passava l'estate, compreso il nipote Lorenzo che
poi raggiunti i 20 anni da "signorino", rinuncerà ad
ogni ricchezza e sarà per la Chiesa, lo
scomodo "prete di Barbiana" impegnato nella scuola di
base per insegnare l'uso corretto della parola ai giovani
analfabeti della campagna, come strumento essenziale per il
riscatto dai
secolari soprusi perpetrati a loro danno e nemmeno percepiti a causa della ignoranza totale.
Luigi
Filippo d’Amico su quella stagione a Castiglioncello
“Sono di un anno più giovane rispetto a Lorenzo Milani, sono
nato nel 1924. Lui non stava molto con me e con un gruppetto di
romani che venivamo solo in villeggiatura. Era più
castiglioncellese di noi perché aveva la casa di proprietà
quando pochi ce l’avevano e per questo ci passava lunghi
periodi. Anche i Pavolini, che sono stati fra i pionieri di
Castiglioncello con il nonno di Luca, il papà di Marcella Hannau,
affittavano un villino di proprietà dei Gualandi di Bologna.
Solo l’avvocato Di Rienzo aveva una casa propria e i Trapani
perché il nonno Ciuti aveva una bella villetta che poi divise
fra le due figlie.
Il gruppetto di cui facevo parte era composto da Luca Pavolini,
Carlo Ungaro, Giorgio Menicatti, Renato Di Rienzo, Vincenzo de
Persiis Vona, Franco Fontana e Gianfranco Dadolino Gilardini,
tutti ragazzini dagli Otto ai quindici-sedici anni. Lorenzo non
stava molto con noi perché eravamo irrequieti, rubavamo le
pesche, facevamo scherzi, insomma combinavamo dei guai.
Fin da allora era più serio, non giocava a carte e stava molto
con i cugini nei giardini delle loro ville oppure andava sul suo
barchino. Oltre a noi c’erano i nostri coetanei Spadolini, i
Fanciulli, gli eredi Fucini, i Valori, i Castelnuovo Tedesco. Al
Quercetano si andava poco, stavamo quasi esclusivamente
all’interno del promontorio che inizialmente era tutto del
barone Patrone. Fu lui che cominciò a regalare dei lotti di
terreno a condizione che vi fossero costruite delle ville. Anche
per quanto riguarda i Milani credo che sia andata così benché io
sia arrivato solo nel 1932 quando il barone aveva già venduto ai
Birindelli che poi cedettero ai Pasquini.
Prima la mia famiglia andava al Forte dei Marmi che allora era
molto più caro di Castiglioncello che pure stava già diventando
una località alla moda. C’erano i Budini Gattai, i Sanseverino,
i Bossi Pucci, i Ginori e anche grossi imprenditori come Romiti
che aveva l’appalto per imponenti lavori pubblici a Spalato.
Nel 1934 o ‘35 comprarono una villa gli Ungaro mentre i nobili
Coletti dal 1933 al ‘36 ristrutturarono villa “Godilonda” che
nel dopoguerra diventerà di proprietà dei Bulgari, la nota
famiglia di gioiellieri. I fratelli Luigi e Eugenio Trapani
ebbero degli appalti a Sabaudia e grazie a quelli l’ingegner
Luigi, padre del futuro regista televisivo Enzo, riuscì a
comprarsi una villetta mentre il fratello Eugenio ebbe dal
suocero Ciuti metà di quella di sua proprietà. Uno dei figli di
Eugenio, Mimmo, in seguito sposerà Lia Bulgari.
Corrado Pavolini acquistò un terreno al Quercetano e si fece una
casa. Io ero amico dei suoi figli Chicco-Francesco e Luca che
per me è stato come un fratello e che il destino, negli anni
successivi, ha fatto incontrare nuovamente con Lorenzo Milani in
occasione del famoso processo. Corrado Pavolini era di
grandissimo talento ma molto pigro. Facilitato dall’importanza
del fratello Alessandro, chiamato Buzzino in famiglia, che era
ministro della Cultura, passò da una situazione economica molto,
molto modesta a una florida che gli consentì di farsi la casa al
Quercetano e comprarsi l’automobile.
Pirandello affittava il villino “Conti” insieme al figlio
Stefano, alla nuora Olinda e ai tre nipoti. Meno fisso veniva
anche l’altro figlio Fausto con la moglie e i due figli. Nel
1934 vinse il Nobel e a Castiglioncello, dove si trovava con
Marta Abba, lo raggiunse De Chirico che doveva fare le scene e i
costumi per La figlia di Jorio con Pirandello regista e Marta
nel ruolo di Mila di Codro.
Mio zio Silvio d’Amico era stato portato a Castiglioncello dal
suocero e lui, a sua volta, ci portò molti personaggi del mondo
del teatro.
C’era Alida Valli, cioè Kitty Altemburger, ospite di Giuliana
Gianni nel 1935-36 quando insieme frequentavano i corsi di
recitazione del Centro Sperimentale di Cinematografia. E Doris
Duranti, la donna pantera come noi la chiamavamo, sempre vestita
in modo poco borghese. Al Miramare c’era la figlia di
Pirandello, Lietta, con le due figlie Lilietta, che oggi è mia
moglie, e Maria che ha sposato mia cugino Sandro, il figlio più
piccolo di Silvio d’Amico”.
Sia fra gli adulti che fra i ragazzi c’era una frequentazione
quotidiana ai Bagnetti, in pineta, al circolo del tennis,
all’Arena Littorio, al tiro del piccione, alle feste nei
giardini delle ville, al Castello Pasquini o a “Villa
Celestina”. Sbocciavano i primi flirt, alcuni dei quali
destinati a trasformarsi, negli anni seguenti, in matrimoni e,
soprattutto, si parlava di musica, di teatro, di cinema, di
letteratura. Poco di politica, lasciata in mano ai fascisti
troppo rozzi e volgari per essere frequentati. Con la sola
eccezione di Teruzzi alle cui feste, a “Villa Celestina”,
partecipavano tutti pur ostentando, come nel caso di Pirandello,
“un’opposizione snobistica e di maniera” al regime.
(Testimonianza di Luigi Filippo d’Amico per "Lorenzo Milani e
gli anni del privilegio" di Fabrizio Borghini)
Lo squilibrato della Chiesa amato dal Papa-Da esiliato della Curia a
modello-Barbiana oggi è il centro del mondo
All'incirca un anno prima di morire, il 26 giugno 1967, don
Lorenzo Milani ricevette a Barbiana la visita del cardinale di
Firenze Ermenegildo Florit. Era il 22 marzo 1966 e il priore era
molto malato. L'incontro fu tempestoso, teso, come racconta il
cardinale nel suo diario: «È stata una conversazione concitata
di oltre un'ora. Momenti angosciosi. È un dialettico affetto da
mania di persecuzione. Egocentrismo pazzo; tipo orgoglioso e
squilibrato», è il ritratto impietoso di Florit. Tra il
cardinale e il priore di Barbiana fu rottura. Definitiva. «Sa
quale è la differenza, eminenza, tra me e lei? Io sono avanti di
cinquant'anni...», sbottò don Milani. Cinquant'anni dopo Papa
Francesco pareggia i conti. E nel suo gesto sorprendente di
visitare il luogo dell'eresia milaniana riconosce le buone
ragioni del priore e gli errori e i ritardi della Chiesa. C'è
semmai da chiedersi fino a che punto dietro l'azzardo profetico
di Bergoglio ci sia, se non tutta, almeno parte consistente
della Chiesa. È legittimo dubitarlo. D'altra parte è stato il
cardinale Carlo Maria Martini, leader dei cattolici
progressisti, a sostenere, poco prima di morire, che la Chiesa è
in ritardo con la storia e il vangelo almeno di due secoli. Ma
questo, come dire? È il cuore dei ragionamenti del dopo visita.
Oggi l'attenzione di credenti e laici è rivolta alla preghiera
di papa Francesco sulla tomba di don Primo Mazzolari e don
Milani. Prima Bozzolo, in provincia di Mantova, ma diocesi di
Cremona e poi Barbiana, sperduta nel Mugello, comune di Vicchio,
patria natale di due geni della pittura, Giotto e il Beato
Angelico. Due località simbolo del cattolicesimo popolare e
antifascista. Lì i due preti non in linea con la Chiesa di papa
Pacelli e la Dc centrista di De Gasperi anticiparono il vento
del concilio Vaticano II. Per cui un primo significato della
visita di papa Francesco sta sì nella riabilitazione solenne di
due preti in odore di eresia, ma anche nella riproposizione
delle radici del Concilio. Ma c'è dell'altro e di più nella
visita di Bergoglio che ha a che vedere specificatamente con
Barbiana: come era nel 1954 quando la Curia fiorentina vi esiliò
il giovane don Milani e che cosa è diventata grazie a lui e ai
suoi giovani montanari. Va sottolineato che il 1954 fu un anno
cruciale per il cattolicesimo italiano. I vertici dell'Azione
cattolica furono "rottamati" da Luigi Gedda, che perorava una
svolta a destra della Chiesa e della Dc. Un dirigente dei
giovani di Azione cattolica, il lucchese Arturo Paoli, fu
costretto ad emigrare in sud America. Anche l'esilio di don
Milani a Barbiana si inquadra in questa normalizzazione vaticana
e democristiana dei cattolici inquieti. Nel mirino del
cosiddetto partito romano c'era in realtà l'allora sindaco di
Firenze Giorgio La Pira che, con Giuseppe Dossetti, sosteneva
posizioni di neutralità tra Usa e Urss, di apertura a sinistra e
di netta ostilità del liberismo. Intorno a La Pira si formò a
Firenze un cenacolo di religiosi e intellettuali di valore
nazionale invisi alla Chiesa e alla Dc: Ernesto Balducci, David
Turoldo, Mario Gozzini, don Milani e molti altri. Quasi tutti
furono trasferiti e emarginati. Nel 1954 Barbiana era una
piccola chiesetta, qualche podere, poche anime. Ignorato dalle
cartine geografiche. Persino la Curia decise di chiudere la
chiesa, salvo poi ripensarci per mandarci don Milani. Una sorta
di Siberia ecclesiastica. Appena arrivò lassù da Calenzano, il 7
dicembre 1954, don Lorenzo andò subito in chiesa e si mise a
pregare e piangere. Poi l'indomani scese a Vicchio per comprare
la tomba. A Barbiana era stato esiliato, a Barbiana decise di
morire. E alla mamma, preoccupata per la destinazione, scrisse
che «la grandezza di una vita non si misura dalla grandezza del
luogo in cui si è svolta ma da tutt'altre cose». Dal 1954 alla
morte, don Milani ha trasformato Barbiana da Non Luogo a luogo
di una rivoluzione religiosa e civile unica nell'Italia del
dopoguerra. Basti passare in rassegna le sue tre opere
principali, le quali nell'arco breve di vent'anni, tanto è
durato il suo sacerdozio, fanno di don Milani un prete "avanti
di cinquant'anni" ma anche un intellettuale di prima grandezza
(non a caso c'è chi lo accosta a Pier Paolo Pasolini). Con
Esperienze pastorali, uscite nel 1958 e subito messe all'indice,
don Milani anticipò infatti la riforma religiosa realizzata poi
dal Concilio Vaticano II. Con" L'obbedienza non è più una virtù"
(1965) affrontò invece con i suoi ragazzi i temi della pace, del
no alla guerra, della disobbedienza civile e del primato della
coscienza. Infine con "Lettera ad una professoressa" (1967)
colse il clima che sfociò nel'68 denunciando il carattere
classista della scuola e la funzione centrale della cultura e
della formazione per la costruzione di una società più giusta.
Eccoci così giunti al senso profondo della visita di papa
Francesco. Che con il suo omaggio alla tomba di don Milani
trasforma Barbiana da chiesa destinata alla chiusura in uno dei
centri simbolo della spiritualità del papa che ama le periferie.
In definitiva, per usare un linguaggio evangelico, da pietra
scartata dai costruttori, Francesco trasforma Barbiana e il suo
priore in una "testata d'angolo" della Chiesa del futuro.
Di MARIO LANCISI
scrittore e a lungo giornalista del Tirreno, autore di numerosi
libri su don Lorenzo Milani, fra cui "Processo all'obbedienza.
La vera storia di don Milani" (Laterza, 2016).
«Verrò in Toscana per don
Milani»
Il
Papa il 20 giugno 2017 a Barbiana per pregare sulla
tomba del prete. Poi andrà a Mantova per rendere omaggio
a don Mazzolari.
Un Papa in
preghiera sulle tombe di due preti "scomodi",
"cattocomunisti", non amati da parte delle gerarchie
cattoliche dei loro tempi, messi persino all'indice per
poi essere riabilitati solo dopo la morte. Si tratta del
fiorentino don Lorenzo Milani (1923-1967) e del
cremonese don Primo Mazzolari (1890-1959), due sacerdoti
che, per le loro scelte pastorali, andarono incontro
anche a dolorose forme di emarginazione ecclesiale, che
entrambi, però, accettarono senza battere ciglio, in
totale obbedienza alle direttive ecclesiastiche, per il
grande amore che ebbero per la Chiesa cattolica. Due
sacerdoti che, dopo decenni di oblio da parte delle alte
sfere vaticane saranno omaggiati il 20 giugno prossimo
non da un pontefice italiano e, tantomeno europeo, ma da
un vescovo di Roma proveniente dal lontano Sudamerica,
l'argentino Jorge Mario Bergoglio, asceso al soglio di
Pietro nel 2013 col nome di papa Francesco. Quasi a
voler significare che è stato necessario attendere
l'avvento di un pontefice figlio di una terra lontana
dai bizantinismi italiani ed europei per sanare due
ingiustizie consumate all'interno della Chiesa ai danni
di due sacerdoti che ebbero il solo "torto" di essersi
schierati concretamente per i poveri e contro ogni forma
di potere politico totalitario. Scelte che portarono due
sacerdoti a farsi carico delle fasce sociali più povere
ed emarginate: da una parte don Milani con la formazione
scolastica dei figli dei contadini di Calenzano e di
Barbiana, dove istituì la storica scuola popolare, detta
appunto Scuola di Barbiana; e dall'altra don Mazzolari
con la sua vocazione partigiana e i suoi interventi
"politici" di chiara impostazione antifascista accanto
ai movimenti operai, che gli crearono non pochi problemi
presso i suoi superiori. Martedì 20 giugno - 6 giorni
prima il cinquantesimo anniversario della morte di don
Milani - papa Francesco, con una scelta senza
precedenti, sanerà simbolicamente le ferite che ancora
non sono state cicatrizzate sulla memoria dei due
sacerdoti, recandosi in pellegrinaggio a Bozzolo
(Mantova) sulla tomba di don Primo e a Barbiana
(Firenze), su quella di don Lorenzo. La visita,
comunque, - puntualizza la Sala stampa della Santa Sede,
«si svolgerà in forma privata e non ufficiale». Tutto
avverrà nella mattinata del 20 giugno partendo in
elicottero dal Vaticano. Prima sosta nella parrocchia di
S. Pietro di Bozzolo dove riposa don Mazzolari, e dopo a
Barbiana, alla presenza del cardinale di Firenze
Giuseppe Betori. Il Papa sosterà in preghiera sulla
tomba di don Milani, collocata in un prato adiacente
alla chiesetta e alla Scuola di Barbiana, rimasta ancora
intatta dai tempi in cui vi studiavano i piccoli alunni
provenienti dalle famiglie dei contadini della zona.
Nella chiesa ci sarà un incontro con i discepoli di don
Milani ancora viventi, che poi lo accompagneranno a
visitare la canonica. Nel giardino adiacente, Francesco
terrà un discorso commemorativo, che non è azzardato
immaginare evocherà il messaggio che lo stesso papa
Francesco ha inviato domenica scorsa alla Fondazione don
Lorenzo Milani, in occasione della pubblicazione
dell'opera omnia del prete di Barbiana. Un messaggio che
nei toni e nei contenuti («Educatore appassionato,
innamorato della Chiesa», lo definisce Bergoglio)
suonano come una totale riabilitazione del prete
fiorentino che, non va dimenticato, fu costretto a
subire l'affronto da parte delle autorità vaticane del
ritiro della vendita dalle librerie cattoliche del
famoso libro "Esperienze pastorali", nel quale
tracciava, con la collaborazione dei suoi allievi, un
severo profilo critico su come veniva insegnato il
catechismo nella Chiesa. Un libro, quindi, critico e
scomodo, in perfetta sintonia con un altro volume,
scritto anch'esso con l'apporto degli studenti di
Barbiana, "Lettera ad una professoressa", che mise in
fila una lunga serie di appunti al sistema educativo
della scuola statale. Scritti che non gli risparmiarono
critiche e violente censure "politiche" (non da meno il
testo "L'obbedienza non è più una virtù", indirizzato al
silenzio dei cappellani militari nei confronti della
guerra e dell'obiezione di coscienza al servizio
militare) per i quali il suo superiore del tempo, il
cardinale Ermenegildo Florit, arcivescovo di Firenze, lo
esiliò prima a Calenzano e poi a Barbiana. Don Milani
obbedì, ma ebbe la sapienza di far tesoro di quella
esperienza tra le montagne toscane condividendo i
bisogni e i disagi degli abitanti del posto. La sua
scuola, ovviamente del tutto gratuita, diventò un punto
di riferimento per decine e decine di ragazzi che guidò
fino al conseguimento della maturità e, per molti, fino
all'università, al grido del motto "I care!", "mi
interessa, mi faccio carico", in opposizione - era
solito spiegare - al motto fascista "Me ne frego!".
Distinguo politico di non poco conto che non piacque
molto ai partiti di destra ed ai conservatori dentro e
fuori la Chiesa. Ma non a papa Francesco che proprio
quell'"I care" rilancerà nella visita del 20 giugno alla
scuola di Barbiana, ridando a don Lorenzo Milani l'onore
che gli fu maldestramente tolto dalle gerarchie
ecclesiali del suo tempo.
(Di Orazio La Rocca
per Il Tirreno del 24/4/2017)
Francesco e Lorenzo stamani si parlano da soli. Il raccoglimento
SULLA TOMBA DEL PRIORE
Stamani papa Francesco pregherà sulla tomba di don Lorenzo
Milani da solo. Un incontro a tu per tu nel piccolo cimitero di
Barbiana. Un dialogo breve, come tra vecchi amici che non hanno
bisogno di tante parole per andare dritti al cuore. Sopra la
terra il cardinale gesuita a mani giunte, che arrivato "dalla
fine del mondo" al soglio pontificio, ha lasciato tutti di
stucco scegliendo di chiamarsi come il poverello di Assisi. A
difesa degli ultimi. Sotto la terra il prete insofferente
all'autorità costituita, vestito nella cassa da morto coi
paramenti sacri e gli scarponi, che ha fatto del "prendersi
cura" (I Care) e della fede gli strumenti di riscatto dei
poveri.
IL PROGRAMMA - La visita di papa Francesco sulla collinetta di
Barbiana durerà un'ora o poco più. Niente proclami, zero
incontri solenni. Il programma è quello di una visita privata,
quasi di famiglia. Dopo essere stato di buon mattino nei luoghi
di don Primo Mazzolari a Bozzolo, in provincia di Mantova,
l'arrivo a Barbiana. L'elicottero del pontefice atterra nello
spiazzo sottostante la chiesa di cui è stato parroco don Lorenzo
Milani alle 11,15. Lo salutano il cardinale e arcivescovo di
Firenze, Giuseppe Betori, e il sindaco di Vicchio, Roberto Izzo.
Il Papa raggiunge il cimitero di Barbiana in automobile assieme
al cardinal Betori. Qui il momento clou. La preghiera in
solitudine davanti alla tomba di don Milani. Poi sarà il momento
degli incontri. Fuori e dentro la chiesa con gli 80 ex allievi
del priore di Barbiana. Il papa visiterà brevemente il
laboratorio, l'aula dove don Milani insegnava ai ragazzi.
Successivamente uscito dalla casa, dopo il saluto di Betori, il
Santo Padre tiene un discorso all'aperto, nel giardino della
piscina, alla presenza degli ex allievi, di un gruppo di
sacerdoti della diocesi e di alcuni ragazzi seguiti da realtà
educative della diocesi. L'elicottero del papa è pronto a
ripartire a mezzogiorno a mezzo. Il ritorno in Vaticano è
previsto per l'una e un quarto.
CHI INCONTRA PAPA FRANCESCO - Viaggiano tutti sui settant'anni,
alcuni con la salute malferma, gli ex allievi del priore di
Barbiana. Ma non mancheranno all'appuntamento: Michele Gesualdi,
presidente della Fondazione don Lorenzo Milani, già presidente
della Provincia di Firenze dal 1995 al 2004 per il Partito
popolare italiano; Agostino Burberi (Gosto), della Fondazione
don Lorenzo Milani; Maresco Ballini, del gruppo di Calenzano;
Nevio Santini, del gruppo di Vicchio. Papa Francesco parlerà
anche con i familiari di don Lorenzo. Con Andrea, Flavia e
Valeria Milani, figli di Adriano Milani (fratello maggiore di
don Lorenzo). Ci sarà modo di condividere le esperienze anche
dei vecchi nove sacerdoti che hanno fatto il seminario con don
Milani. Tra questi: don Antonino Spanò della parrocchia di Badia
a Ripoli, don Silvano Nistri e don Mino Tagliaferri. Altri 17
parroci saranno presenti all'incontro con papa Francesco. Ne
citiamo alcuni. Monsignor Andrea Bellandi, vicario generale
della diocesi di Firenze; don Alfredo Amerighi, attuale parroco
di San Donato a Calenzano (prima parrocchia di don Milani); don
Remo Collini, era parroco nel Mugello ai tempi di don Milani;
don Giuliano Landini, attuale parroco di Vicchio; don Roberto
Bartolini, parroco di Montespertoli. Infine 30 ragazzi: 5
dell'Opera Madonnina del Grappa, 5 seguiti dalla Caritas
diocesana, altri 5 di Villa Lorenzi, altrettanti
dell'Associazione Cinque Pani e Due Pesci. Infine 5 dell'Opera
per la Gioventù Giorgio La Pira. Ogni gruppo con un
accompagnatore.Di
Samuele Bartolini 20/6/17
Il reo don Milani
Il 28 ottobre del 1967 –
cinquant’anni fa – don Milani fu condannato in appello per la
sua lettera ai cappellani militari a favore dell’obiezione di
coscienza. Il priore era già morto da 4 mesi. Ma il giudice lo
condannò. Fu definito “il reo don Milani”. Nell’anno dei facili
santini, mi piace proporre la vera storia di don Milani. Il Reo.
Il Grande Disobbediente. Alla famiglia ricca e borghese. Alla
Chiesa preconciliare. Allo Stato che metteva in carcere gli
obiettori di coscienza. Vi propongo il finale del mio libro
"Processo all’obbedienza. La vera storia di don Milani". Laterza.
“Mentre Lettera a una
professoressa era in stampa, don Milani comprese di aver i
giorni, le settimane contate. Come se dovesse partire per un
lungo viaggio decise di sistemare un po’ di cose che gli stavano
particolarmente a cuore. Come Eda Pelagatti, che aveva accudito
lui e i ragazzi come una mamma. Don Lorenzo le destinò i diritti
di autore.
Convinto poi, come disse
più volte ai suoi ragazzi che il segreto pedagogico non fosse
esportabile, il priore si mise a bruciare nella stufa molti
documenti della scuola e la chiuse e il 25 aprile 1967, fece le
valige per andare ad abitare dalla mamma, in via Masaccio numero
218 a Firenze. Prima di salutare i ragazzi si mise a guardare
una a una le stanze della canonica e della scuola. Infine disse
loro: “Ragazzi, chissà se ci ritornerò”.
Il morbo di Hodgkin che
lo colpì a morte fece sentire i suoi aculei nel 1960, ma per tre
anni si brancolò nel buio nella sua esatta diagnosi. Che arrivò
il 7 febbraio del 1964 quando mamma Alice informò la figlia
Elena che Lorenzo veniva curato per “un linfogranuloma
dichiarato”. Dalla metà del 1964 agli inizi del 1967 la vita del
priore fu sottoposta a ricoveri ospedalieri e continue, dolorose
cure, ma il priore continuò a tenere le sue lezioni a letto o
seduto in uno sdraio. Nonostante la malattia e i lancinanti
dolori, in quello squarcio di anni, don Milani sfornò due opere
come "L’obbedienza non è più una virtù" e "Lettera a una
professoressa".
Anche nel periodo
dell’agonia, a casa dalla mamma, da fine aprile alla morte, il
priore non si tolse la veste di maestro. Continuò ad insegnare
ai suoi ragazzi: “Ci diceva, sul letto di morte, che bisognava
per tempo imparare a morire. Chi non si abbandona alla morte
vuol dire che prima non si è abbandonato alla vita, alle
passioni e all’amore”, ricorda Edoardo Martinelli, un ex allievo
del priore, autore di "Progetto Lorenzo Milani", pubblicato nel
1998 dal Centro documentazione che porta il nome del priore di
Barbiana.
L’ultima lezione don
Milani la tenne il 24 giugno, un sabato. Avvertendo che il suo
Getsemani stava per concludersi, chiese ai suoi ragazzi di
venire a salutarlo per il suo congedo dalla vita. “Ragazzi, un
grande miracolo sta avvenendo in questa stanza: un cammello
passa per la cruna di un ago”.
Due giorni dopo, il 26
giugno, un lunedì, il priore spirò con il corpo proteso in
avanti e sostenuto da Michele Gesualdi. “Un piccolo rigolo di
sangue e due occhi sgranati in avanti indifferenti al gioco
della vita”, ricorda Martinelli.
“Caro Michele, caro
Francuccio, cari ragazzi, non è vero che non ho debiti verso di
voi. L’ho scritto per dar forza al discorso! Ho voluto più bene
a voi che a Dio, ma ho speranza che lui non stia attento a
queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo posto”, scrisse
nel testamento.
Quattro mesi dopo, il 28
ottobre 1967, si tenne il processo d’appello. Don Milani fu
costretto, prima di morire, il 1 dicembre 1966, a scrivere di
nuovo ai giudici per giustificare la sua assenza. Poche righe,
ironiche. Da congedo finale: “Caro presidente, io ho la bua.
Tanta tanta bua. Che sei bischero a farmi venire a Roma? Se mi
vuoi vedere vieni te. Un bacio anche a tua moglie”.
Don Milani questa volta
fu condannato. La condanna non poté però essere applicata. “Il
reato è estinto per la morte del reo”, scrissero i giudici.
La legge sull’obiezione
di coscienza verrà approvata soltanto nel 1972.
Tantissimi giovani che, a partire da quella data, ne hanno
usufruito. Gli studenti, i professori, i preti, i cristiani in
cerca di Dio, soprattutto i poveri. E le donne e gli uomini che
nella loro vita si pongono il problema dell’obbedienza e della
coscienza, del bene e del male, non possono non provare
gratitudine per il coraggio e la passione del “reo “ Lorenzo
Milani. Di Mario
Lancisi · 28 ottobre 2017. |