Vada la leggenda di Valdivetro

Pubblichiamo il seguente testo del prof. Dino Agostini per gentile concessione del Museo di Storia Naturale di Rosignano Solvay.

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VADA FRA STORIA E LEGGENDA di Dino Agostini

Vada, conosciuta fin dai tempi antichi come importante centro commerciale e marittimo soprattutto di Volterra, prima etrusca poi romana, ma divenuta con il trascorrere del tempo come il "Carneade manzoniano".ttenuata già dal V secolo la sua rinomanza come porto, indebolita ancora la sua posizione durante il periodo longobardo, scomparsa e dimenticata durante i secoli bui del Medioevo.

Acquitrini, paludi salmastre, zone malsane, resero quella terra inospitale e il posto, malarico e insicuro. L' Alberti, visitando il luogo verso la metà del XVI sec., vi trova pochi abitanti, poveri e febbricitanti, forse i probabili discendenti di quegli etruschi che per primi abitarono la zona, ed ora costretti, loro malgrado, ad adattarsi quali inconsapevoli conservatori delle vestigia di quella che fu sicuramente una grande città. Anche il Targioni ­Tozzetti, circa due secoli più tardi, testimonia attraverso i suoi appunti le povere condizioni della zona e la vita grama dei suoi abitanti.

L' Abate Pifferi, che vi transita nel 1831, non registra un gran mutamento e così, nella "lettera prima", descrive il suo passaggio da Vada: "Da Rossignano discendendo di nuovo alla pianura, ci portammo alla Torre di Vada. Dicevasi quel luogo appunto Vada Volaterrana, perché tutto quel piano era d' ogni intorno paludoso e difficile ad attraversarsi. Ora però è asciuttissimo e sicuro, quantunque il terreno conservi sempre la sua antica apparenza, essendo allo stesso livello del mare "abbondanti masse di alga umida e disseccata rendono difficile l' accesso al mare. Avvi un bastione fatto di quest' erba marina, su cui sono collocati due cannoni, ed a cinquanta passi indietro vedesi la moderna Torre di Vada. Ragionando con alcuni marinai genovesi, che avevano preso pratica del porto a cagione della calma, questi ci dissero che alcuni banchi di sabbia, o secche, che sporgono per lungo tratto di mare, distaccandosi dalla punta orientale del cratere, rendono ivi le navi sicure dalla tempesta, formando quasi un comodo e spazioso porto. La situazione di Vada è ancor paludosa come nei passati tempi, l' aria nell' estate è molto malsana. Quei pochi soldati, che vi trovammo, erano tutti febbricitanti. Immaginatevi, mio caro amico, una pianura di circa 20 miglia di lunghezza e di altrettanta larghezza, piena di vigorosa vegetazione e sparsa solo di qualche capanna, dove abitano i custodi del bestiame, che pascola nella medesima e vi formarete un' idea di questa valle che comincia poco prima di Vada e va fino alla Torre di San Vincenzo".

Qui termina la "lettera prima" dell' Abate Pifferi, una cronaca piuttosto fedele, anche se ci sorprende un poco che "il luogo asciuttissimo" all' inizio della lettera, diventi "paludoso" quasi in fondo, ma che tuttavia, che ci fa conoscere le tristi condizioni della zona in quel penoso frangente. Vada, riscoperta, se così si può dire, con le bonifiche e gli appresellamenti iniziati verso la fine del XVIII secolo, ha ripreso un nuovo vigore nei primi anni di questo secolo e, come l' Araba Fenice, è risorta dalle sue ceneri. E sono molti, specialmente in questi ultimi anni, che hanno riscoperto la "Vada Volaterrana" o, come ci testimonia la "Tabula Peutingeriana", "Vadis Volateris". Tutto questo interesse si è risvegliato da quando, nel 1958, furono eseguiti i primi saggi archeologici nella zona ad Ovest di Vada, nel podere denominato "San Gaetano", in quella "terra soda e salinosa" posta a monte dello "stagnolo di Ponente", come si evidenzia in una mappa del '700. Indagare sul passato è sempre stato affascinante, quando poi, in questo passato affondano le nostre radici, allora il fascino diventa una vera seduzione che lusinga e strega, e non si può fare a meno di esserne coinvolti. L' interesse nella gente è andato via via crescendo, particolarmente dal 1975 in poi, da quando cioè ebbe inizio quella campagna di scavo che dura tuttora, e che tanto ha contribuito alla divulgazione della storia di Vada tra le popolazioni della zona. Come si giunse però ad effettuare i primi sondaggi, e perché proprio a Vada? Fu una decisione che, visti i risultati, potrebbe apparire semplice, ma che tuttavia si rivelò più complessa del previsto e che impegnò per alcuni anni nello studio e nella ricerca bibliografica un gruppo di appassionati, quelli che per primi gettarono le basi del nascituro Museo Civico di Rosignano Marittimo.
                              
 ARCHEOLOGIA LOCALE E NASCITA DEL MUSEO ARCHEOLOGICO

Nel 1954, l' Amministrazione comunale fece eseguire da una ditta dei lavori per la sistemazione dell' acquedotto in via Tripoli e via Asmara in Castiglioncello. I lavori di sterro erano seguiti giornalmente e con il massimo scrupolo, dall' allora vigile sanitario Edilio Massa e da Edolo Corsini, un impiegato dell' Ufficio Tecnico che si interessava specificamente del settore viario del Comune. Tutti e due, ma particolarmente il Massa, erano appassionati dilettanti di archeologia, o meglio, erano affascinati dalle cose del passato. Il Massa si preoccupava del recupero di tangibili testimonianze di civiltà passate, seguendo, nella sua veste di vigile sanitario, ogni lavoro di scavo che l' Amm/ne Comunale o i privati intraprendevano sul territorio. Il Corsini si dedicava, studiando le vecchie "mappe catastali" e indagando sui toponimi, alla ricerca di vecchie strade. Durante il compimento dei lavori, vennero alla luce una quindicina di tombe a pozzetto di epoca etrusca, databili intorno al III-II sec. a. C. Il corredo funebre non era molto ricco e consisteva in alcuni "vasi in impasto", usati per contenere le ceneri del defunto, le cosiddette "olle cinerarie", in piatti a vernice nera, balsamari, orcioli biansati, olpe, oinochoi (vasi da vino) con imboccatura "trilobata" o a "cartoccio", in una spada e una punta di giavellotto in ferro. Poche cose ed oltretutto molto simili a quelle già custodite nel Museo di Castiglioncello, rinvenute in tombe identiche, nei primi anni del secolo durante i lavori per la costruzione della ferrovia Vada-Livorno. Nondimeno queste poche cose, unitamente ad altre recuperate in varie zone del Comune, invogliarono e stimolarono ad una ricerca più accurata sul territorio e fecero nascere l'idea dell'istituzione di un Museo Civico Archeologico, Museo che fu inaugurato e aperto al pubblico nel Giugno del 1955. Chiamarlo Museo fu un po' una presunzione perché "il tutto" consisteva unicamente in una piccola saletta al primo piano dell'edificio del vecchio Comune, nel Castello di Rosignano, dove queste povere cose erano disposte in bell'ordine e ben distanziate tra loro, perché sembrassero più numerose su alcune mensole a muro e in un paio di vetrine. Ma in quella sala c'era, per noi, un campione delle nostre radici, una piccola parte della nostra storia, ma soprattutto c'era il nostro cuore, la garanzia di una scommessa con noi stessi, il nucleo, il seme, il fondamento del futuro museo. Noi eravamo convinti, anzi certi, che il territorio avrebbe offerto ben altro, bastava saper orientare il lavoro di ricerca. Escludendo Castiglioncello, ormai talmente urbanizzato che non ci avrebbe né offerto la possibilità, né consentito una proficua ricerca, restavano nel Comune un discreto numero di altre aree disponibili ad una seria esplorazione. Una collinetta in località "Case nuove" di proprietà del conte Millo, aveva rivelato ad una ricognizione superficiale, resti di strutture di epoca romana, quasi certamente una villa, e anche piuttosto importante. Nel podere "La Villana", di proprietà dei fratelli Banti, erano stati riportati alla luce, oltre ad un tronco di statua in marmo raffigurante una ninfa (divinità minore femminile della mitologia classica), monete in bronzo, mosaici, una serie di frammenti di vasellame in "terra sigillata", frammenti di anfore e residui di fondamenta di edifici, testimonianza di imponenti costruzioni di epoca romana ora distrutte; anche questi, senza ombra di dubbio, resti di una villa. In quei tempi, stando a quanto riportava il Nencini sulla sua "Monografia di Rosignano", si pensava addirittura alla villa di Decio Albino Cecina. Alcune tombe erano state trovate negli anni venti a "Poggi­Paoli", sarebbe valsa la pena di una verifica ed una ricerca più accurata, mentre una grande abbondanza di materiale fittile era affiorato negli ultimi tempi a "Grotti", vicino al cimitero, per non dire di decine e decine di altri siti. Poi c'era Vada. Mi ricordai che sul finire degli anni trenta, alcuni miei compagni di scuola, provenienti da Vada, raccontavano in classe cose incredibili, di tesori nascosti, di case sepolte, ossa umane accatastate ai lati dei campi, fatti insomma che accendevano la fantasia di noi ragazzi e ci facevano sognare ad occhi aperti. Specialmente quando una volta uno di loro portò in classe addirittura una moneta, alcuni frammenti di "ceramica" e un paio di denti umani. Avremmo voluto verificare di persona la veridicità di quanto affermavano questi nostri compagni, pungolati da un incontenibile entusiasmo, ma Vada a quei tempi, per noi, era in capo al mondo, le distanze a quel tempo sembravano "più lunghe", e così non ne facemmo di nulla e nessuno ci pensò più. Ma ora i tempi erano cambiati. Esternai (per dirla con una parola ormai entrata nel linguaggio comune) questi ricordi ad alcuni amici e cominciammo così una ricerca bibliografica sulle opere di scrittori latini, a cominciare da Catone, Strabone, Cicerone, Tito Livio, Plinio, in definitiva qualunque scrittore antico avesse menzionato Vada Volaterrana per noi andava bene, diventava una fonte preziosa di informazioni. C' era inoltre il poema del poeta e scrittore Gallo­latino Claudio Rutilio Namaziano, "De reditu suo", nel quale il poeta narra di come durante il suo viaggio per mare da Roma in Gallia, nel 417 d.C., abbia fatto scalo al porto di "Vada" per passare una notte nella villa che il "suo Albino", il Prefetto di Roma Decio Albino Cecina, possedeva nella zona. Così descrive l'incerto ingresso della nave nel porto, e la vista che dal porto ebbe della villa, con questi versi:
In Volaterranum, vero Vada nomine, tractum
Ingressus dubii tramitis alta lego.
Despectat prorae custos clavunque sequentem
Dirigit et puppim voce monente regit.
Incertas gemina discriminat arbore fauces
Defixasque offert lines uterque sudes,
Illis proceras mos est adnectare lauros
Cospicuas rami et fruticante coma,
Ut praebente viam densi symplegade limi
Servet inoffensas semita clara notas.
Illic me rapido consistere Corus adegit,
Qualis silvarum frangere lustra solet.
Vix tuti domibus saevos toleravimus imbres:
Albini patuit proxima villa mei.

che tradotti molto liberamente, ma crediamo, abbastanza coerenti e fedeli al testo, dicono pressappoco così: Ora entrato nella zona di Volterra, cui giustamente è nome Vada, percorro dove l'acqua è profonda infido canale. Scruta il fondo dell'acqua il nocchiero a prua e dirige il docile timone, guidando la poppa con ordini a gran voce. L'incerta imboccatura è mostrata da due alberi e l'uno e l' altro limite segnano pali infissi nell'acqua. E' uso legare ad essi alti lauri, che si stagliano all'occhio pei rami e le fitte foglie, perché conservi intatti i segnali un chiaro passaggio, sul fondo compatto di denso limo che pur lascia una via. Là mi costrinse a fermarmi la furia di Coro, qual suole sconvolgere fin nel profondo le selve. Ci riparammo a stento dalle piogge violente, protetti da un' abitazione: A noi s'era aperta, non lungi, la villa del mio Albino.
Probabilmente Namaziano è l'ultimo, in ordine cronologico, che abbia visto Vada ancora operosa prima del definitivo declino. Non è questo né il luogo né la sede adatta per discutere dove fosse situata la villa del Senatore Albino Cecina, se, come sostengono alcuni, alle pendici di Rosignano, oppure, come vorrebbero altri, sulla sinistra del Cecina, sempre però in posizione elevata, da dominare le "sottoposte saline", ma interessa attestare che a Vada Volaterrana, nel V secolo, prima che iniziassero le invasioni barbariche, esisteva un porto ancora in discreta efficienza, funzionavano le saline, e i patrizi romani frequentavano ancora le ville che possedevano nei dintorni. Ma ancora, autori più vicini a noi come Leandro Alberti, Giovanni Targioni Tozzetti, Emanuele Repetti, Pietro Vigo, l'Abate Pifferi, ci testimoniano con i loro documenti, gli appunti di viaggio, le lettere, come già abbiamo avuto modo di dire all'inizio, le condizioni di Vada dopo il XVI secolo, vale a dire più di mille anni dopo. Parallelamente alla ricerca bibliografica, si sviluppò una ricerca sondaggio presso i vecchi contadini della zona. Passammo pomeriggi interi a parlare con decine e decine di persone e attraverso i loro racconti, dichiarazioni fatte più spesso a mezza bocca, in un miscuglio di qualche verità e molte fantasticherie, ci convincemmo, sempre cautelandoci con il beneficio d'inventario, che valeva la pena di approfondire le indagini. La nostra convinzione divenne certezza quando qualcuno, dapprima con un po' di reticenza e ritrosia per la verità, ma alla fine con crescente fiducia, ci mostrò alcune monete particolarmente ben conservate e vari altri reperti che aveva trovato durante i lavori di aratura e che custodiva gelosamente come un piccolo "tesoro". Con il passare del tempo, tra noi intervistatori e, gli intervistati, si instaurò un rapporto di amicizia e una tale e tanta familiarità che la confidenza divenne sempre più aperta. Qualcuno anzi consigliò anche noi, di tentare l'avventura, indicandoci la zona dove la sorte ci avrebbe certamente favoriti, in particolare tra i vigneti o vicino agli olivi. Ci rendemmo ben presto conto che quello che a noi sembrava fantastico, a sentirlo raccontare, non era che un insignificante riflesso della realtà. Centinaia di tessere per mosaico in pasta vitrea multicolore, erano sparse sul terreno tra le vigne, chiodi in bronzo di varie dimensioni, dadi per gioco, aghi per cucire in osso e in bronzo, frammenti di ceramica sigillata e monete, molte monete, troppe per la verità. Il podere dove furono fatte queste prime ricognizioni, faceva parte dell'azienda agricola della Società Solvay, la quale si dimostrò disponibilissima, quando glielo chiedemmo, a farci fare un sondaggio esplorativo. La Soprintendenza alle antichità d' Etruria, dietro nostra richiesta, avallata anche da una lettera del sindaco prof. Demiro Marchi, inviò nell'Ottobre del 1957 un suo ispettore, il pro. Giorgio Monaco il quale si rese subito conto dell'importanza dei rinvenimenti, e nel Settembre del 1958 fece eseguire il primo sondaggio.

                                                          
VADA

La costa a Sud di Livorno, particolarmente il tratto tra il fiume Fine, nel Comune di Rosignano e San Vincenzo è dal punto di vista orografico pianeggiante, poco elevata sul livello del mare e, in certi tratti, addirittura un po' sotto. Il mare spesso si insinua (o quanto meno si insinuava, e questo accadeva nella zona prima della bonifica), per lungo tratto all' interno della costa con lingue che a volte si allargano formando dei veri e propri bacini. In questi bacini il ricambio dell' acqua è assicurato dalle maree e l' acqua all' interno, può essere salata oppure salmastra, specialmente se in questi bacini vi sfociano botri o fossi. Quando poi, per il mutare delle correnti, per forti venti di mare o per decine di altre cause naturali, si accumula sabbia in prossimità della spiaggia, davanti all' imboccatura dei bacini chiudendo il ricambio, in poco tempo il bacino si trasforma in uno stagno, dapprincipio ancora salmastro, ma tendente sempre più a divenire palude. Anticamente, sia queste paludi, che gli stagnoli, o le lagune, tutti non molto profondi in verità, si potevano attraversare tanquillamente a guado, senza bisogno di girarvi intorno. Il guado, ossia un basso fondo, o secca, o banco di sabbia, ovvero un qualsiasi luogo che permetta il passaggio da una riva all' altra di un corso d' acqua, toccando il fondo con i piedi, in latino, si dice: "vadum". Vadum = sostantivo neutro singolare, al plurale diventa "vada". Nella zona, per le ragioni che abbiamo sopra citato, di questi "vadum" dovevano essercene parecchi e perciò tutto il territorio circostante fu identificato con il nome di "vada". Vada Volaterrana, perché la zona, prima di cadere come tutta l' Italia, sotto il dominio di Roma, faceva parte del territorio volterrano, (ager volterranus). E' ovvio e sintomatico perché il nome venga ricordato spesso in relazioni o scritti di autori latini. I viaggiatori i mercanti o chiunque altro avesse avuto necessità di transitare per quelle terre, percorrendo la via Aurelia, correva il rischio, come minimo, in certi periodi, di rimanere impantanato o di dover tornare indietro. Oppure, per chi arrivava dal mare, essere costretto a soggiornare forzatamente sul posto per qualche giorno, fino a che la situazione meteorologica non fosse migliorata. Ma intorno al nome di Vada è nata una fantastica leggenda che, quasi fosse un mito, ha permeato di mistero un racconto che viene ripetuto da tempi remoti, tramandato da padre in figlio.
                                                    
"LEGGENDA DI VADA"

Al "bar", durante interminabili partite a carte, tra un "gotto" di vino e una "pipata" di tabacco, o un "mezzo toscano", i vecchi pescatori di Vada amano raccontare la "vera storia" delle origini della loro cittadina e di come è nato il nome. E' gente semplice, come tutta la gente di mare, gente avvezza a giornate passate in solitudine, tra mare e cielo, in compagnia soltanto dei suoi "mestieri" e dei suoi pensieri. E in questa solitudine i pensieri diventano ossessivi, la fantasia un' angoscia ampliata da ancestrali superstizioni. Questa storia che raccontano, tramandandosela come detto, di padre in figlio, ampliata ogni volta con qualche particolare in più, abbellita e infiocchettata secondo la fantasia e l' immaginazione del narratore, è una storia che per loro, con il passare del tempo diventa sempre più "saga" e sempre meno invenzione. Ognuno di loro, specialmente dopo i primi bicchieri, è pronto a giurare sull' autenticità di cose che crede di avere visto o sentito, come strade lastricate e muri di case sul fondo marino, vicino al "fanale"; oppure, in giornate di perfetta bonaccia, un suono di campane. Ecco la storia come me la raccontarono una quarantina di anni fa alcuni pescatori, e che io vi ripropongo, sperando che la memoria non mi tradisca, perché, affascinato dalla narrazione, in quel tempo non prendevo appunti.
                                                          
VALDIVETRO

C' era una volta. Tutti, raccontandomela, cominciavano così: c' era una volta...... . C' era una volta, dunque, centinaia e centinaia di anni fa, in questa zona, qui, dove ora si trova Vada, una grande città, così grande che con il suo porto, le sue strade, le sue case, arriva fino al "fanale". La città si chiamava "Valdivetro". Il porto di questa città aveva dei moli lunghi chilometri e ai suoi moli ogni giorno arrivavano e attraccavano centinaia di navi provenienti da tutto il mondo. Con olio, stagno, rame dalla Spagna; stoffe, lana e legno dalla Gallia; grano dall' Africa; marmi dalla Lunigiana; vasi dalla Grecia; ferro dall' Elba; spezie e sete dalle Indie. Valdivetro era piena di gente che lavorava, navigava, commerciava, e si divertiva. C' erano negozi e botteghe artigiane, teatri, terme, banche, lupanari e chiese. (Non ho mai capito se l' accostamento dei due ultimi termini fosse maliziosamente voluto, come a sottolineare che dopo il peccato di lussuria era necessario il ravvedimento, il rimorso il riscatto per poter rimanere in pace con la propria coscienza e riconquistarsi la fiducia negli dei. Anche oggi del resto molti operano nello stesso modo). La vita scorreva quieta e pacifica, ma questa vita troppo spensierata, troppo facile, fece dimenticare ai cittadini il dovere verso gli dei. Era più il tempo passato nelle bettole (tabernae), alle terme e nei bordelli, che non quello dedicato al culto, si concedeva più tempo all' appagamento dei piaceri effimeri, fuggevoli, trascurando lo spirito, dimenticando i templi, tralasciando di sacrificare agli dei, disimparando le preghiere. Ma gli dei non dimenticano, e invidiosi, gelosi e indispettiti dalla trascuratezza della gente di Valdivetro verso di loro, decisero di vendicarsi. Un giorno, nubi gonfie di pioggia cominciarono ad addensarsi all' orizzonte, tutto intorno alla città. Venti impetuosi cominciarono a soffiare dal mare sollevando onde sempre più alte che si abbattevano sui moli, il cielo si oscurò, divenne sempre più nero e cominciò a piovere. Da prima si credette ad una tempesta passeggera, come ce ne erano state in tempi passati, del resto era la stagione delle piogge, ma passavano i giorni e il vento non calmava e pioveva sempre più forte. Le scorte dei viveri stavano per finire, la campagna era allagata e non produceva, navi non ne arrivavano più perché il porto, fino ad allora sicuro e fidato, era diventato rischioso. I moli principiavano a rovinare sotto la spinta delle onde, le navi ormeggiate affondavano come barchette di carta, si preannunciava un tragico evento. Il popolo, sempre più numeroso ora, si raccoglieva nel tempio a pregare. Ora, ci si ricordava dei torti fatti agli dei, ora, si sacrificavano sui loro altari gli ultimi animali rimasti, sperando in una riconciliazione, in una pace impossibile. Però gli dei offesi, voltavano le spalle a Valdivetro. Poi un giorno, tragico, funesto, un popolano fradicio di pioggia, affannato, stremato da una lunga corsa, entrò nel tempio mentre il sacerdote era intento al sacrificio, e con voce rotta dal pianto e dall' emozione, gridò che la furia del mare aveva abbattuto le ultime difese del porto, che onde altissime stavano rovinando sulla città distruggendola, urlò, piangendo e imprecando, che Valdivetro se ne stava andando, che si salvasse chi poteva. Un grido di angoscia e di paura si levò dal popolo raccolto in preghiera, alto il pianto dei bimbi e i lamenti delle donne imploranti. Solo il sacerdote mantenne la calma e rivolto ai fedeli, esortandoli a pregare disse: Che sia fatta la volontà degli dei, se Valdivetro deve andare, vada! Furono queste le ultime parole pronunciate dal sacerdote, prima che tutto venisse sommerso. Ma non tutti perirono in quell' immane sciagura. Alcuni riuscirono miracolosamente a sopravvivere. Quando quella terribile tragedia finì, le acque furono di nuovo calme e il sole tornò a splendere su quelle terre desolate colme di lutti e di rovine, i sopravvissuti alla tragedia si misero al lavoro impegnandosi a far risorgere dalle rovine una nuova città. E con questa volontà, ricordando l' ultima parola pronunciata dal sacerdote prima di morire, giurarono che la città, risorta dalla distruzione e sulle rovine di Valdivetro, si sarebbe chiamata Vada. Questo, più o meno, il racconto che mi hanno fatto molti anni fa gli Olivi, i Giovannelli ed altri vecchi pescatori di Vada, o come alcuni usavano definirli, "i discendenti di quei primi fondatori di Vada, distrutta e risorta mille anni prima di Cristo". E mi promettevano che, "una volta o l' altra", mi avrebbero portato sul posto per: "farti vedere con i tuoi occhi". Purtroppo, una volta perché le acque erano torbe, un' altra perché il tempo non prometteva niente di buono, o altre cose del genere, la promessa non fu mai mantenuta, e ora sono morti. Qualche volta ci sono andato con altri amici, ma probabilmente non abbiamo saputo individuare bene il posto, e non abbiamo visto niente. Peccato! Della leggenda ce ne parla anche il Targioni Tozzetti, nel capitolo sulla "Istoria di Vada", pag 416­417. "Hanno favoleggiato alcuni visionari, che sopra Val di Vetro fosse già fabbricata una grossa Terra, o Città, sottoposta ai Volterrani, e detta Tuscinatum, la quale da una inondazione del mare sia stata distrutta ed assorbita. Per rendere verosimile la loro supposizione, dicono che in tempo di calma, sopra Val di Vetro si vedono le rovine di questa Città: io però a bella posta m' informai con molti Pescatori, e Barcaroli, che tutto il giorno praticano questo Mare, e non ho potuto intendere che vi si veda altro che Rena, Piante Marine, e qualche scoglio come alla Meloria, ma raro. Le rovine che hanno dato origine a questa tradizione, sono senza dubbio i fondamenti, ed il principio della Torre per uso di Fanale, che vi fece fabbricare ne' bassi tempi, la Repubblica Pisana".
                                                     
LA VIA AURELIA

Fu soltanto verso la metà del III secolo, 241 a.C. che il Console romano Lucio Aurelio Cotta concepì l' idea di unificare, collegandoli tra loro, i vecchi tratti della strada che partivano da Roma in direzione di "Alsium" l' odierna Palo, "Caere" (Cerveteri), e "Cosa" (Ansedonia), facendoli giungere fino a Vada Volaterrana e dando a questa nuova arteria il nome di "via Aurelia". Da Vada la strada continuava poi verso Pisa dove si divideva in due tronconi diretti, uno verso Felsina (Bologna) e il centro Italia e l' altro verso la Gallia e poi la Spagna seguendo il litorale. Il tronco che da Pisa si dirigeva verso la Gallia, raggiunse "Albium Intimilium" Ventimiglia, verso la fine del II secolo a.C. e prese il nome di via "Aemilia Scauri". La lunghezza della via Aurelia fino a Vada Volaterrana era di 190 miglia, circa 280 chilometri. Nata come via di penetrazione militare, l' Aurelia operò soprattutto come arteria commerciale, collegando i vari porti sparsi sulla costa a Nord di Roma, con Roma stessa. Anche se di regola, per i commerci, si preferivano le vie marittime scegliendo di effettuare il trasporto delle merci con una nave anziché con carri, in seguito dal porto di arrivo queste dovevano essere trasferite ai mercati, e le strade allora più che necessarie diventavano indispensabili. Il commercio per vie marittime era scelto per varie ragioni; la prima perché la nave poteva trasportare tanto prodotto che per la stessa quantità sarebbero occorsi centinaia di carri, la seconda la velocità di trasporto e questo, specialmente con le merci deperibili, era un vantaggio non trascurabile, la terza ed ultima, se in mare c' erano da considerare la pericolosità delle tempeste o un eventuale assalto di pirati, per via di terra una rapina da parte di banditi era sicura. Questa strada, veniva percorsa ogni giorno da centinaia di carri e da viaggiatori che si muovevano per diporto o per affari, ma sempre, o la maggior parte delle volte, in carovane numerose. Ricchi mercanti romani la pecorrevano per rifornire,con le merci giunte per mare agli scali del litorale, i mercati di Roma; i patrizi romani per trascorrere le vacanze nelle loro ville situate lungo la costa, o nelle ricche fattorie che possedevano, sparse sulle colline toscane o umbre. Anche se per andare in Umbria, passare dalla via Aurelia significava un cammino più lungo, il piacere di godere delle bellezze offerte da un percorso vicino alla costa tirrenica, di un clima più mite, di ospitalità nelle ville di amici, valeva bene la pena di sopportare il sacrificio di un viaggio allungato di qualche giorno, per godere della gioia e della felicità che tale sacrificio poteva procurare. E' lungo questa strada che si trovavano i "Vada volaterrana". Un grande emporio, un porto commerciale, un importante centro di smistamento delle merci che giungevano via mare dalla Spagna, dalla Gallia, dall' Africa e dal Medio Oriente, per il centro ed il nord dell' Italia e oltre. La via Aurelia che partendo da Roma, aveva sin qui seguito più o meno da vicino la costa, toccando tutti i porti, ora se ne staccava, dirigendosi verso l' interno. In questa zona infatti i "vada" e le propaggini dei "monti livornesi" che si spingono fino sul litorale, e che costituiscono un tratto di costa alta e spesso a picco sul mare, solcata trasversalmente da gole piuttosto ripide e profonde, non consentono o meglio, non consentivano un facile superamento delle difficoltà orografiche per la realizzazione di un tracciato agevole come si addiceva ad una strada di transito quale era considerata la via consolare. Allo stesso tempo era facile superare l' ostacolo, spostando il tracciato di qualche miglio verso l' interno allungando il percorso solamente di alcune miglia, ma su terreno quasi completamente pianeggiante, per riprendere il tracciato lungo costa non appena le condizioni fossero state di nuovo favorevoli. Per evitare questi ostacoli, particolarmente i "vada" che i viaggiatori provenienti da Roma cominciavano ad incontrare nella pianura tra San Vincenzo e Cecina, non appena oltrepassato il fiume Cecina, la via Aurelia si spostava più verso l' interno, e dopo avere attraversato il fiume Fine, ai piedi della collina di Rosignano, ne seguiva per un tratto il corso risalendo lungo la riva destra, evitando così oltre ai "vada", anche i "monti livornesi", che sarebbero venuti dopo, e raggiungeva "Porto Pisano". Ma il porto di "Vada" era troppo importante per essere tagliato fuori. La sua rilevanza dal punto di vista commerciale ma, soprattutto militare, non poteva essere ignorata. Per raggiungere il porto di Vada, ormai escluso dalla deviazione dell' Aurelia, i romani sfruttarono il tracciato di una vecchia strada già esistente che collegava Volterra con il suo porto principale. Questa strada poi da Vada, continuava, evitando il percorso litoraneo per le ragioni già dette e, passando per Rosignano Marittimo, la Maestà, la Tagliola, le Serre, Poggio Pelato, Nibbiaia, arrivava al guado sul torrente Chioma. Dopo averlo attraversato si dirigeva verso Montenero da dove raggiungeva poi Salviano e il "trivio d' Aldule". Da qui, dopo il ricongiungimento con il ramo che aveva seguito la vallata del Fine, proseguiva per Porto Pisano, la Versilia, la Liguria. Ma come abbiamo già detto, i "vada" in certi periodi dell' anno non erano agibili, risultando per molti tratti impercorribili e costringendo così i visitatori ad una sosta forzata nella zona. Per questa ragione, tutta la città era stata attrezzata per offrire ai "turisti" ospitalità e conforto. Tra le attrezzature messe a disposizione degli "ospiti", certamente figuravano negozi, osterie, locande, alberghi, teatri, bilblioteche, oltre naturalmente alle terme, in cui poter trascorrere lunghi periodi, distraendosi mentre si aspettavano tempi migliori. Nelle nostre interviste, fatte alla gente del luogo, abbiamo appreso della scoperta nella zona di resti di grandi costruzioni, dei quali purtroppo oggi non resta traccia. Una notizia ci colpì in modo particolare, quella del rinvenimento dei resti di un grande edificio di forma semicircolare, di notevole ampiezza, la cui eliminazione aveva richiesto l' impiego di cariche di esplosivo. Personalmente ho veduto alcuni di questi blocchi che avrebbero, secondo il racconto, formato i gradoni dell' "anfiteatro", erano in arenaria o pietra calcarea, quadrati, di 75 cm di lato ed alti 45 cm circa. (Rapportati alle grandezze di misura del tempo, circa due piedi e mezzo per uno e mezzo) Ma tutte queste testimonianze rimangono solo nella memoria di chi le ha vissute e di chi ce le ha raccontate perché la maggior parte dei ritrovamenti, o si è perduta o è andata distrutta. Unico edificio riportato alla luce, del quale si può "leggere" ancora con sicuro convincimento la funzione e lo scopo al quale era destinato, è l' edificio termale, o meglio, le vestigia che di esso rimangono.
                                                
LE TERME PRESSO I ROMANI

Solamente in epoca abbastanza recente il bagno è diventato un servizio troppo spesso sbrigativo, compiuto con affrettata abitudine. La stanza da bagno è oggi considerata un "annesso" della camera da letto, riservata così più alla pulizia personale, che non alla distensione del corpo e dello spirito. Era questo invece lo scopo principale del bagno, presso i romani. Il cittadino romano, fosse ricco o povero, nobile o plebeo, non effettuava mai una grande pulizia al mattino, appena alzato. Per togliersi il torpore del sonno, immergeva le mani e il viso in acqua fredda, e poi si recava a sbrigare le sue faccende. Questo però non deve trarre in inganno, non si deve credere che il cittadino romano non tenesse all' igiene personale, solo che a questa cura egli riservava le ore centrali della giornata. Il bagno presso i romani, consisteva in un bagno di sudore ottenuto in un ambiente surriscaldato per passare poi, con intermezzi di riposo in locali a calore moderato, in altri ambienti dove effettuavano abluzioni con acqua tiepida o immersioni in acqua fredda, seguite da massaggi e frizioni con oli frofumati e balsamici. C' erano, è vero, anche edifici termali esclusivi per scopi curativi e terapeutici, ma questo non ci sembra il caso delle terme di Vada. Il bagno per il romano, quando, come abbiamo detto,non era fatto a scopo puramente ed esclusivamente curativo, era anche un momento di rilassamento oltre che del corpo, anche dello spirito, e per questo tutti vi dedicavano una cura particolare. "Per liberare l' organismo di tutti quei veleni di cui continuamente vien saturandosi con i cibi malsani e mal digeriti, con le fatiche opprimenti o con le preoccupazioni assillanti. Per espellere dal corpo le malefiche tossine, gli antichi, più che ricorrere a diuretici e affaticare i reni, ricorsero al sudore e a quel grande organo emuntorio che è la pelle". Sant' Agostino, nelle "Confessioni", narra che alla morte della madre avvenuta ad Ostia non pianse, e non pianse nemmeno durante i funerali, il dolore gli si era "serrato nel cuore". Se ne stava mesto e solo e si sentiva impazzire dalla pena. Si ricordò allora del significato etimologico che si dava nelle scuole, alla parola bagno, e si recò alle terme per cercare di liberarsi da quello stato di angoscia che lo opprimeva. (Confessioni, IX 12, 29­32). Il bagno alle terme però, divenne un' abitudine tanto piacevole e radicata, che in molti cominciarono a farne un uso smodato, prendendo anche cinque­sei bagni al giorno, naturalmente seguendo ogni volta le regole canoniche, essudazioni, abluzioni, immersioni in acqua fredda, massaggi. I medici avvertivano con ogni mezzo, dei pericoli a cui erano sottoposti, coloro i quali esageravano in questa abitudine, ma la lapidaria risposta era: "balnea vina venus corrumpunt corpora nostra sed vita faciunt", e cioè, "i bagni il vino l' amore ci mandano in rovina ma fanno bella la vita". Alle terme si ritrovavano tutti: ricchi e poveri, nobili e plebei e, in una grande promiscuità di ceti e di censi si ritempravano, liberando il corpo dagli umori maligni e lo spirito dai cattivi pensieri. Peraltro, alle terme, non si andava solamente per svago, ma anche per incontrare persone con cui discutere di affari, per sollecitare un debitore al pagamento di un vecchio credito, per collocare una partita di merce, per chiedere un prestito, per raccomandare un parente o un amico per un lavoro. Le terme rappresentavano un comodo mezzo per rivolgersi ad una persona senza bisogno di andare a bussare alla sua porta o senza doversi impegnare, scrivendogli una lettera, e d' altra parte non vi era nessun' altra circostanza o occasione nella quale fosse altrettanto facilmente raggiungibile la parità e la confidenza tra uomini che la sorte o le congiunture della vita, dovevano tenere lontani. Le terme erano edifici, o aggregati di edifici costruiti generalmente a spese dello Stato, che vi profondeva a piene mani, quasi senza limiti, sontuosità e grandezza. Abbiamo detto che le terme erano edifici costruiti a spese dello Stato, ma meglio sarebbe dire, fatte edificare dall' Imperatore. Fra i molti edifici termali ce ne erano di modesti di ricchi e di sontuosi. Soltanto a Roma, tra il I e il III secolo d.C. se ne contavano non meno di mille. Tra i più belli basti ricordare le "terme di Nerone", fatte costruire dall' imperatore, dopo l' incendio di Roma, su un' area di 30.000 metri quadrati (tre ettari). Ma queste non sono nulla, se confrontate con le "terme di Traiano", costruite su progetto dell' architetto Apollodoro di Damasco e inaugurate il 22 Giugno del 109 d.C., ampie 110.000 metri quadrati. E che dire delle famose "terme di Caracalla" riscoperte ed elevate a nuova gloria in questi ultimi anni? Dotate di tutti i servizi, i più perfetti che a quel tempo si potessero immaginare, sorgevano su un' area di 140.000 mq, ma tuttavia non sono le più grandi, sono solo seconde. La palma delle terme più grandi, spetta alle "terme di Diocleziano", con 150.000 mq, quindici ettari, di cui oltre quattro spettano esclusivamente all' edificio dei bagni. D' altra parte gli Imperatori ci tenevano a conquistarsi le simpatie del popolo, e il popolo si contentava di "panem et circenses", inteso non come giochi nel circo, ma divertimenti in ogni senso. E quando uno ha la pancia piena e si diverte, mette da parte le pene e gli affanni che la vita quotidiana procura.Alle terme si poteva accedere gratuitamente oppure pagando una piccolissima moneta (balneaticum) di valore trascurabile.
                                                 
L' IMPIANTO TERMALE

Attraverso un ingresso si entrava in un complesso di locali adibiti a spogliatoio (apodyterium). Qui i clienti, dopo avere lasciato le vesti in appositi vani, si avviavano in un locale a temperatura moderata (tepidarium). Il pavimento del "tepidarium" era di solito appoggiato su colonnette di mattoni (sospensurae) le quali formavano sotto di esso delle cavità attraverso cui circolava aria calda. Dal "tepidarium" si passava nel "caldarium" dove gli ospiti si radunavano per fare ginnastica o per sudare. Questo ambiente era assai più caldo del primo e anche questo, come il precedente, aveva il pavimento poggiato su colonnette. Il locale più caldo delle terme era però il "laconicum", detto anche "sudatorium". Situato direttamente sopra il "praefurnium" o subito accanto a questo era costituito da un ambiente piuttosto angusto dove si raggiungevano alte temperature, negli impianti primitivi per mezzo di un braciere, in quelli dell' epoca di cui si parla per mezzo dell' aria calda che circolava sotto il pavimento e lungo le pareti. In questo ambiente si sudava senza bisogno di compiere sforzi o eseguire esercizi ginnici. Il "praefurnium" era un piccolo locale posto generalmente all' esterno dell' edificio termale, ma attiguo allo stesso, dove si accendeva il fuoco. L' imboccatura del forno vero e proprio, era sistemata davanti alle colonnette in mattoni che sostenevano il "laconicum". Queste tra loro, con il pavimento sul quale poggiavano e il soffitto formavano una camera d' aria, creando un vano chiamato "ypocaustum". Il fuoco alimentato nel "praefurnium" dal personale addetto, lambiva il pavimento del "laconicum", allungando le sue fiamme tra le colonnette dell' "ypocaustum" risalendo poi, attraverso le intercapedini delle pareti, verso il tetto. Spesso nello spessore delle pareti venivano incassati dei "tubuli" in laterizio, a sezione rettangolare, che aiutavano il tiraggio e l' espulsione dei fumi. Dopo un' abbondante sudata sollecitata nel "laconicum" o nel "caldarium", il bagnante ripassava al "tepidarium" nel quale spesso si trovavano ampi catini (labra) contenenti acqua tiepida con la quale poteva fare abluzioni e sostare un poco per consentire al corpo il graduale ritorno alla naturale temperatura poi, se voleva, si avviava verso il "frigidarium". Era questo un locale più o meno ampio a secondo dell' importanza e della grandezza delle terme, fornito di una vasca contenente acqua fredda, dove i clienti più coraggiosi si immergevano, sedendosi su dei gradini o nuotando come in piscina, per rinvigorire e tonificare le membra e facilitare la circolazione. E proprio nella reazione circolatoria, provocata dalla alternanza di bagni caldi e freddi, consisteva l' effetto salutare delle pratiche termali. Generalmente nelle grandi terme, i vari locali si succedevano in un ordine preciso: apoditerio, tepidario, laconico, caldario, frigidario, uno di seguito all' altro, di solito snodantisi su un percorso circolare, che alla fine ritornava allo spogliatoio. Non mancavano naturalmente edifici termali con i locali sistemati lungo un asse principale formato da un corridoio. Alla fine delle "pratiche termali", per ritornare allo spogliatoio, si rifaceva a ritroso il percorso, incontrandosi e scontrandosi con i clienti che sopraggiungevano. Oltre ai locali sopra descritti, facevano parte dell' impianto termale, particolarmente degli impianti più grandi, altri locali costituiti da: palestre per il gioco della palla (sphaeristerium), sale di riunione per i giocatori, stanze di attesa, ristoranti, empori, botteghe di barbieri (tonsor), profumieri, speziali, venditori di dolciumi. Vi erano ancora giardini con piante esotiche e fontane, vialetti con siepi di fiori, biblioteche, portici per passeggiate, saloni per convegni e tutto ciò che poteva rendere piacevole un pomeriggio in compagnia. E' interessante e curioso, rileggere quanto scriveva Seneca "il filosofo", precettore e consigliere di Nerone, a proposito di quanto succedeva nel bagno durante le ore di apertura: ....."Abito proprio sopra un bagno pubblico; immaginati un vocio, un gridare in tutti i toni che ti fa desiderare di essere sordo; sento il mugolio di coloro che si esercitano coi manubri, emettono sibili e respirano affannosamente. Se qualcuno se ne sta buono a farsi fare un massaggio, sento il picchio della mano sulla spalla, e un colpo diverso a seconda che il colpo è dato con la mano piatta o incavata. Quando poi viene uno di quelli che non può giocare a palla se non grida, e incomincia a contare i colpi a voce alta, è finita. C' è anche l' attaccabrighe, il ladro colto sul fatto, il chiacchierone che quando parla sta a sentire il suono della sua voce; e quelli che fanno il tuffo nella vasca per nuotare, mentre l' acqua spruzza rumorosamente da tutte le parti. Ma per lo meno questi mettono fuori la voce che è la loro. Pensa al depilatore che ogni poco fa un verso in falsetto per offrirti i suoi servizi; e non sta zitto che quando strappa i peli a qualcuno, ma allora strilla chi gli sta sotto. Centinaia di schiavi solerti provvedono a trasportare fascine e ciocchi di legna e a tenere accesi i fuochi, Altri schiavi scivolano silenziosi come ombre nella densa nebbia, portando pile di asciugamani o anforette d' olio profumato per i massaggi. Amici allegri e burloni, si salutano a gran voce da un capo all' altro della sala, tra il vapore denso dei bagni. Venditori di salsicce, focacce e noci, vantano la loro merce, mentre furfanti temerari, approfittando della confusione, cercano di allontanarsi in fretta con un bel mucchio di vestiti, sollevando un putiferio da non dire: inseguimenti, pugni, imprecazioni. Un gran chiasso, se vuoi, ma dalle terme si esce risanati". E, con il suo spirito acuto di osservatore, ironizzava sui "pancioni" che si sottoponevano a pratiche quotidiane di massaggi per dimagrire, consigliandoli, per perdere un po' di grasso, di provare a lavorare.
                                             
L' EDIFICIO TERMALE DI VADA

L' edificio termale riportato alla luce a Vada, in località "San Gaetano", nella campagna di scavi da me diretta (1975­1979), anche se di modeste dimensioni era, per quanto si è potuto intuire dalla disposizione dei locali riportati alla luce, costruito secondo le regole indicate da Caio Sergio Orata, per le terme di Capua e Bagnoli. Orata, famoso per i suoi ricchi allevamenti di ostriche nel lago Lucrino, vissuto tra la fine del II e l' inizio del I secolo a.C. a Baia, non avrebbe fatto altro che ricreare artificialmente, il fenomeno delle "fumarole" dei "Campi Flegrei" vicino a Napoli, riuscendo a raggiungere con questo sistema, temperature superiori ai 30 gradi arrivando talvolta fino a 60° mantenendole costantemente elevate grazie allo strato d' aria calda che si formava nelle intercapedini. Il sistema, perfezionato, si diffuse rapidamente e venne adottato pressoché in tutti gli edifici termali dell' impero. In base ai resti degli impianti venuti alla luce e ai dati da essi emersi, cerchiamo di ipotizzare, con le informazioni a nostra disposizione, quale sia stata la loro possibile destinazione e il loro presumibile impiego. Il complesso termale, secondo le nostre supposizioni, doveva trovarsi in prossimità della zona portuale. La strada di accesso alle terme era sicuramente porticata. Noi però possiamo solamente azzardare l' ipotesi per il lato Sud­ ovest, quello cioè, verso il mare, lungo il quale sono stati rinvenuti plinti di basamento delle colonne. Sotto i portici, dove si affacciavano gli ingressi di varie botteghe, si trovava anche l' ingresso delle terme. Questo era costituito da un atrio largo cinque metri e lungo undici, attraverso il quale si accedeva ad uno spazio a forma di esedra, con probabili funzioni di "solarium" o "gymnasium", delimitato da un ampio porticato semicircolare con un diametro di poco superiore ai venti metri e, dalla facciata delle terme. Il porticato, chiuso esternamente da un muro, era sostenuto internamente da colonne che si affacciavano verso il "solarium". Internamente il muro del porticato doveva essere affrescato con disegni a colori molto vivaci, come dimostrano i frammenti di intonaco ritrovati durante gli scavi. Questo loggiato semicircolare, che senza dubbio serviva per passeggiare, conversando con gli amici (deambulatorium), era sopraelevato rispetto al piano del "solarium" di quaranta­quarantacinque centimetri (circa un piede e mezzo), e vi si accedeva tramite due "gradoni" in pietra disposti tutto intorno alla circonferenza interna dell' esedra, i quali, potevano servire all' occorrenza, anche da sedili. Sul davanti dell' edificio termale, si trovava un marciapiede con una canaletta che probabilmente aveva la funzione di convogliare le acque piovane nella cloaca principale, situata esternamente al complesso termale. L' ingresso all' edificio che ospitava le terme era costituito da un piccolo ambiente, che quasi sicuramente fungeva anche da spogliatoio (apodyterium), e da questo, attraverso porte diverse, si accedeva ai vari locali del bagno. Una conduceva nel "laconicum" sotto il cui pavimento si trovava il "praefurnium", da un' altra si accedeva al "tepidarium", un' altra ancora la collegava al "frigidarium". Il "laconicum" era un piccolo ambiente, quadrato, di appena tre metri di lato, probabilmente con dei sedili lungo le pareti, ma trovandosi direttamente situato sopra il "praefurnium" ed essendo il luogo destinato all' essudazione, provocata solo dall' alta temperatura e non compiendo esercizi fisici, le dimensioni erano più che sufficienti per raggiungere lo scopo. Il secondo ambiente preso in esame, è il locale da noi individuato come "caldarium", di forma rettangolare, con i lati rispettivamente di sei e quattro metri, chiuso sul lato minore da un' "abside" con un diametro di poco inferiore ai quattro metri. Nella parte "absidata", erano situati quasi certamente i catini (labra) contenenti acqua calda che i clienti usavano per lavacri e abluzioni. Il pavimento era ricoperto con lastre di laterizio di forma quadrata di circa 45 cm di lato (un piede e mezzo). Il pavimento facente parte dell' "abside", quello dove noi crediamo fossero disposti i catini, era rialzato di una ventina di centimetri rispetto al pavimento restante costruito in leggera pendenza verso la parete esterna, nella quale era praticato un foro per lo scolo delle acque sgocciolate per terra durante i lavacri. L' interpretazione dell' uso di questo ambiente, ci richiese un po' di fantasia, in quanto la parte centrale del pavimento del "caldarium" presentava, scavato nel centro, un pozzo circolare, profondo circa due metri con le pareti costruite con pietre, alcune delle quali squadrate e cementate tra loro. Il fondo di questo pozzo, era pavimentato con laterizio e lungo le pareti si rilevarono delle colature di materiale fuso invetriato, segno evidente che le stesse erano state esposte ad un forte calore. Tutto questo però, ci convinse che quella buca fosse stata scavata ed usata dopo il definitivo abbandono del luogo, come "calcara", cioè come fornace per produrre calce, ricavandola cuocendo i marmi che ornavano le terme. L' ultimo ambiente preso in esame, il "frigidarium", era formato da una piccola vasca, profonda circa 80 cm, e delle dimensioni di metri 3 per 2. Su uno dei lati più lunghi, due gradini, permettevano a quattro o cinque persone di sedere per il bagno. Le pareti e i gradini, erano rivestiti in marmo, mentre il pavimento era ricoperto da mosaico bianco. Una porta sulla destra dell' ingresso serviva da accesso ad un' altra struttura molto simile a quella già descritta, e probabilmente con le stesse funzioni, costruita in epoca o epoche successive, quando, per l' invecchiamento forse, fu abbandonata la primitiva struttura, oppure perché l' aumento dei frequentatori, aveva reso necessario l' ampliamento dei locali. Anche questa nuova struttura aveva sicuramente uno o più locali adibiti a "caldarium" e probabilmente un "laconicum". Di certo, in questa parte che chiameremo "nuova", abbiamo identificato il "praefurnium" e un "caldarium" piuttosto ampio. Queste due fasi di costruzione si possono facilmente individuare osservando la diversità dei materiali impiegati. Delle pareti, o del tetto di copertura di tutto il complesso, non c' è rimasta traccia, tuttavia la grande quantità di tessere per mosaico multicolore, in pasta vitrea, rinvenute durante lo scavo, ci consentono di ipotizzare la presenza di una struttura con pareti e soffitti ricoperti da mosaici policromi. Intorno a questa sorsero certamente altre costruzioni, che dettero l' avvio, non diciamo alla città perché questa aveva già raggiunto una sua importanza, ma ad una serie di servizi evidenziati da alberghi, empori, botteghe, laboratori, i quali spesso diventano un polo importante per il commercio al minuto e l' economia di una zona. L' edificio termale da noi riportato alla luce a Vada, probabilmente, non era né l' unico né il solo dei "Vada volaterrana", perché secondo il nostro parere, in una città che si estendeva per sette o otto ettari, ben altre dovevano esere le strutture che la completavano. 
                             
RITROVAMENTI DI MATERIALE MINUTO DURANTE LO SCAVO

Prima di parlare dei materiali minuti, venuti alla luce durante lo scavo archeologico di Vada, riteniamo indispensabile accennare anche al rinvenimento dei resti di edifici che costituivano, insieme al tutto il resto, una parte, sicuramente la più importante, dei "Vada volaterrana". L' edificio termale di cui abbiamo parlato nel paragrafo precedente, era circondato da costruzioni le quali, probabilmente, formavano il nucleo del complesso di edifici, pubblici e privati, che ospitavano quei servizi necessari sia alla vita della città, che alle stesse terme. Queste costruzioni erano costituite da una serie di grandi ambienti rettangolari delle dimensioni di 5 metri per 11, che si affacciavano, come abbiamo già accennato, sotto il portico posto sul lato a mare della via delle terme. Durante lo scavo da noi eseguito, non è stato possibile accertare se anche l' altro lato fosse porticato o meno. Quanto rimane in piedi di queste costruzioni, ci ha permesso però, di farci un' idea della tecnica costruttiva usata particolarmente in quel periodo. Sopra i muri di fondazione, larghi circa quattro piedi (metri 1,20), e profondi quasi altrettanto, (90­120 cm), venivano innalzate le pareti portanti costruite con "conci" in arenaria di dimensioni abbastanza omogenee, e materiale laterizio. Questi conci venivano murati su due file, perfettamente allineate e distanti tra loro circa due piedi (60 cm), in modo tale che tra una fila e l' altra, rimanesse internamente un certo spazio. Il vuoto interno che ne risultava veniva riempito con materiale minuto, pietre, frammenti di laterizio, scarti di fornace, inclusi pezzi di anfore. Questa tecnica prendeva il nome di "opus quadratum". Ogni quattro o cinque file di conci, per ritrovare l' allineamento orizzontale del manufatto, si provvedeva inserendo due o tre file di laterizi. La copertura poteva essere ad "arco a tutto sesto", oppure a "sesto ribassato" o a "doppio spiovente", ma più probabilmente, a "spiovente unico", la cosiddetta "copertura a capanna", molto più facile da costruire e più veloce da realizzare. In questi locali, al momento dello scavo, non fu rinvenuta alcuna pavimentazione, se si eccettuano piccoli settori negli angoli o vicino alle pareti, dove ancora si conservavano residui del pavimento originario in cocciopesto, (una tecnica consistente nel "gettare" malta mischiata a laterizio frantumato e poi spianato e lisciato con arenaria). Questo ci persuase che, nel momento di maggiore frequentazione della zona, questi locali fossero, non solo tutti pavimentati, ma probabilmente intonacati e forniti di tutte le comodità, per renderli più accoglienti. A quale attività fossero realmente adibiti i locali, lo possiamo soltanto immaginare, partendo però da un dato concreto, il rinvenimento di un cospicuo numero di oggetti dello stesso tipo, interi o frammentati, in certi ambienti, piuttosto che in altri. Uno di questi locali, per esempio, ci fa pensare ad un emporio, dove si poteva trovare di tutto. "Dall' ago al milione", si direbbe oggi. E proprio in questo locale si sono ritrovati aghi in osso e in bronzo, in quantità esagerata, sia per cucire che per capelli, i cosiddetti "aghi crinali"; oppure dadi per gioco; 120 lucerne, intere o frammentate; chiodi in bronzo di varie fogge e dimensioni. Oltre a questo, nello stesso stanzone, si rinvennero frammenti di alcune decine, o meglio, di alcune centinaia di coppe, piatti, ciotole, in "terra sigillata"; frammenti di calici e ampolle in vetro; vasetti in ceramica grigia, uniforme, sottile, insieme a centinaia di monete in bronzo e decine di monete in argento. Abbiamo accennato alla "terra sigillata", e riteniamo indispensabile, dare un piccolo chiarimento di questo termine. Con il vocabolo "terra sigillata", termine che abbraccia tutta la ceramica sigillata prodotta in Italia per il periodo che va più o meno, dalla fine del I sec. a.C., alla fine del I d.C. (età flavia), si voleva inizialmente indicare la ceramica ricavata da matrici decorate all' interno per mezzo di punzoni. La sigillata infatti veniva prodotta in serie per mezzo di matrici, la cui decorazione era ovviamente in negativo, e alle cui pareti l' argilla veniva fatta aderire per mezzo del tornio, mentre il piede e, spesso anche l' orlo, venivano modellati a parte. Attualmente, per convenzione, col termine "sigillata italica" si intende anche la produzione cosiddetta liscia, che non veniva cioè, prodotta per mezzo di matrici, ma semplicemente lavorata al tornio senza figure in rilievo. A volte a questa ceramica così lavorata, venivano aggiunte delle decorazioni a rilievo, lavorate a mano o ottenute con uno stampo e poi applicate con una mistura di argilla fluida-liquida, con tecnica definita "a la barbotiné". Non è accertato se in questo locale venisse prodotta questa "terra sigillata", come in un primo momento la scoperta di un pozzo all' interno di un magazzino ce lo aveva fatto supporre, ma sicuramente se ne commerciava. Anche a proposito dei manufatti in vetro, frammentati, rinvenuti nei "magazzini" o "botteghe", c'è da aggiungere che in una zona, unita all' edificio termale, furono rinvenuti molti frammenti di vetro in lastre, messi uno sull' altro, alcuni dei quali sufficientemente grandi da farci ipotizzare l' esistenza nel luogo di una vetreria per la produzione di questo articolo. E' ammissibile che questa lavorazione vi sia stata iniziata in epoca molto tarda, forse anche medioevale, ma rimane il fatto inconfutabile che, durante gli scavi, sia stato trovato vetro in abbondanza. Sarebbe stato auspicabile e anche molto più semplice se i resti fossero stati rinvenuti su terreno vergine, ma purtroppo l' area dei ritrovamenti era stata sconvolta dallo scasso per precedenti colture. Del resto, anche il Targioni Tozzetti che, come abbiamo veduto all' inizio, visitò questa zona verso la prima metà del 1700, osservando la sabbia e:... l' "aliga rammucchiata dal vento sulla spiaggia", suggerì di utilizzare sia la sabbia come materiale siliceo, che la cenere dell' "aliga" come soda, "come fanno in certe marine d' Inghilterra", per fabbricare "vetro da bicchieri". In quel periodo, tra le tante ipotesi che si facevano, ci ritornò alla mente il nome con il quale, secondo la leggenda, era conosciuta Vada: Valdivetro. Ognuno, naturalmente, è libero di fare le considerazioni che vuole, la nostra al momento fu questa: Che fosse una leggenda era fuor di dubbio, ma con una base molto vicina a fatti reali, altrimenti come avrebbero potuto sussistere tante coincidenze? Non avrebbe potuto la storia, che i vecchi raccontavano volentieri, avere subito distorsioni, essere stata gratuitamente esagerata, ingigantita, gonfiata, proprio per farla apparire più fantastica, ma avere avuto all' origine un briciolo, un granello di verità? Anche oggi a dire il vero, se pure siamo certi che non sia andata come ce la raccontano, e che non ci siano né case né tantomeno strade sui fondali del "fanale", ci sono alcuni punti scuri che non siamo riusciti a chiarire, e che ci piacerebbe tanto che qualcuno ci spiegasse. Durante lo scavo, per esempio, a circa 80 cm di profondità, vennero alla luce migliaia, decine di migliaia, di conchiglie di un "gasteropode" del genere "Hinia", tipico delle zone sabbiose e di bassofondo, comuni anche in acque salmastre. Era uno strato compatto, continuo di conchiglie, e si estendeva sicuramente per tutta la zona; noi lo trovammo intatto in piccole aree non manomesse o sconvolte da scassi precedenti, negli ambienti dei magazzini, nelle terme e fuori di queste, come se questi animali avessero vissuto in una zona, sommersa dall' acqua, per decine e decine di anni. E Leandro Alberti, nella sua "Descritione dei luoghi di Toscana appresso alla marina" non afferma: ..."e più avanti i Vadi volaterrani da Catone, Plinio, e da Antonino Vada nominati...onde essendo cheto il mare, alquanti edifici d' esso nell' acqua marina si vedono"? Non pensiamo che gli "edifici" citati, l' Alberti li abbia osservati in mare presso il fanale, ma certamente saranno state le stesse rovine, ora interrate e da noi riportate alla luce, che in quel tempo egli scorse sommerse nelle acque dei "vada". E l' acqua che sommergeva quelle rovine, era sicuramente una parte dell' acqua della laguna che si era formata mille anni prima. In un altro ambiente, da noi definito "la fucina", si rinvennero appoggiate in bell' ordine, accanto a una parete, 5 barre di ferro a sezione quadrata, di circa 7 cm di lato e lunghe un metro. Quasi nel centro del locale, spostato un po' verso la parete di fondo, i resti di un focolare con accanto un anello di ferro a sezione quadrata di circa 2 cm di lato. Altri frammenti di ferro erano sparsi li accanto, e si presentavano come manufatti semilavorati. In questo locale le monete rinvenute furono un numero piuttosto esiguo se si eccettuano le oltre 200 recuperate tutte nello stesso punto, fra resti di cenere e frammenti di un recipiente di impasto carbonizzati dal fuoco.
                                                        
LE MONETE

Un discorso a parte merita il rinvenimento, delle monete, nella zona oggetto delle nostre indagini. In un' area ampia poco meno di due ettari, sono state recuperate, sia durante i primi lavori di scasso del 1930­36, che nel corso delle dello scavo archeologico, oltre ventimila monete in bronzo di epoca romana. La zona sottoposta alle indagini prima e allo scavo poi, era, in quel periodo, coltivata a vigneto e olivi, salvo una piccola striscia di circa 600 metri quadrati (15x40­45 circa) che veniva seminata a rotazione a grano, erbaio o prato, ma anche in questa parte, era stata tentata tempo prima la coltura a vigneto poi abbandonata per le difficoltà incontrate nello scasso. Di monete antiche, nell' area di cui si tratta, ne venivano rinvenute anche nei tempi passati, ne parla addirittura anche il Targioni Tozzetti, quando dice: "Da Vada, andando verso il fiume Fine, si rinvengono nei campi, vestigia di vecchie muraglie, e tra queste, medaglie di bronzo e anche d' oro". Un signore, persona degna di fede, dotata di onestà a tutta prova, ora purtroppo scomparso, il quale all' epoca della trasformazione della zona da seminativa in vigneto, era contadino a S. Gaetano, ci dichiarò di avere raccolto, insieme al fratello, nell' arco di sei anni, dal 1930 al 36, oltre "quindicimila" monete, e di averle cedute per "qualche spicciolo" a un "cenciaio" di Livorno. Ci raccontava delle cose incredibili, come per esempio di quando suo padre chiedeva a lui e a suo fratello, dopo una pioggia,di "andare per i campi a raccattare monete". Anche se "raccattare" o "raccogliere", vuol dire tirar su da terra, e le monete stavano per terra, in quel caso si riferiva a raccogliere qualcosa che stava per terra in gran copia, e non si doveva chiaramente perdere tempo a cercare. E perché dopo una pioggia? Perché le monete, dopo una pioggia, neppure molto violenta, (e noi lo possiamo confermare), rimangono alla sommità di piccolissimi coni di terra che si formano sul terreno, sotto di esse, e si possono individuare con facilità. Noi, per quanto ci riguarda, nelle cinque campagne di scavo, dal 1975 al 79, durante le quali abbiamo esplorato circa 2000 metri quadrati di terreno, (1/5 di ettaro), di monete ne abbiamo rinvenute oltre cinquemila, delle quali leggibili e attribuibili con sicurezza, solo un 10­12%, un altro 20% ancora abbastanza leggibili ma di attribuzione incerta, il rimanente illeggibili o quasi. Un attento studio di queste monete, prendendo in considerazione soltanto quelle rinvenute durante lo scavo, decifrate e assegnabili con sicurezza, non potendo controllare per ovvie ragioni le altre ormai perdute, ci permette di ipotizzare quale sia stato il periodo di maggiore frequentazione della zona. Le monete rinvenute abbracciano un periodo di circa5­6 secoli, dal I secolo a.C., al V inizio VI d.C. I rinvenimenti di monete di età repubblicana I sec. a.C., tra le circa 600 leggibili, sono una ventina (3%), le monete del I­II sec. d.C. un centinaio, con prevalenza di quelle del II sec. (15­16%), circa ottanta quelle del III sec. (13%). La parte del leone con circa il 60% tocca però alle monete della prima metà del IV secolo, particolarmente numerose quelle di Costantino Magno e dei suoi discendenti. Il rimanente 8­9% va assegnata al V sec. comprese quattro o cinque dell' inizio VI. Questo considerando solamente le monete leggibili. Se poi, confrontando le misure e i pesi, si prendono in esame, azzardando magari un po', tutte le monete rinvenute, prevalgono quelle del V secolo. Immaginando una inflazione (rilevata particolarmente dalla misura piuttosto piccola e dal peso molto ridotto delle monete) ed essendo conseguentemente diminuito il potere di acquisto, di moneta in quel periodo ne doveva circolare molta. Ma qualsiasi giustificazione si voglia cercare, rimane sempre incomprensibile, non tanto il rinvenimento di monete appartenenti ad epoche diverse, quanto il motivo del loro rilevante numero. Accettando l' ipotesi dell' inflazione e perciò di una grande quantità denaro liquido circolante e, presupponendo per la stessa ragione, lo scarso valore dato agli "spiccioli", era pur sempre denaro e, non si capisce la causa o la ragione che sembrerebbe avere spinto i cittadini a gettarlo, perché tale era l' impressione che se ne ricavava, nelle ricognizioni effettuate nella zona durante lo scavo. Sembrava proprio che gli abitanti di Vada, non avessero altro passatempo che quello di buttare i soldi al vento. Ma probabilmente l' abbandono dei beni è da ricercarsi in un allontanamento in massa dalla città, in una rotta precipitosa e improvvisa, tanto da costringerli a lasciare tutto per cercare di salvare almeno la vita. Forse un improvviso attacco di pirati al porto e alle difese portuali? oppure, vista la coincidenza del periodo del probabile abbandono della zona, (V­VI sec d.C.), l' avanzata di orde barbariche dal Nord, (Goti, Visigoti, Ostrogoti, Longobardi). All' inizio del V secolo i Visigoti guidati da Alarico, assediarono Roma, e la presero per fame saccheggiandola. E non è che il primo dei tanti tristi episodi in questo secolo. Verso la metà del V secolo, per fermare le orde dei Goti che marciavano alla conquista di Roma, una grande battaglia si scatenò nella pianura di fronte a Rosignano, tanto che Pietro Vigo, parafrasando Dante, vuole "il Fine colorato di rosso". E Vada si trovò sicuramente coinvolta in questa battaglia. La via Aurelia, quella via di penetrazione verso l' occidente, costruita secoli prima, quella via lungo la quale erano transitate immense ricchezze e preziose merci verso Roma, quella via percorsa dagli eserciti romani, guidati alla conquista del mondo, diventava ora un "boomerang", una strada già pronta per "barbari" per riprendersi quanto i legionari di Roma avevano conquistato. E lungo questa strada, si trovava Vada. Gli invasori, da qualsiasi parte provenissero, dal mare o dal centro Europa, davano poca importanza alle monete, se queste non erano d' oro o d' argento. Non si curavano affatto dei "tesori" rappresentati da monete di bronzo che gli sventurati fuggiaschi erano stati costretti ad abbandonare. Del resto anche i consoli romani, al ritorno da guerre di conquista, alla testa delle loro legioni, durante la celebrazione del "trionfo", esibivano per le vie imperiali carri colmi d' oro e d' argento, d' avorio e di sete, e di tutto ciò che ritenevano prezioso e di cui si erano impadroniti, soprattutto prigionieri che potevano rivendere come schiavi. Qualche volta mostravano anche armi in bronzo, o scudi, ma il loro amore per questo metallo o lega che fosse, si fermava qui. Le monete in bronzo dei popoli sottomessi, se mai le avessero possedute, erano considerate di nessun valore. E' probabile, che dopo l' invasione o le invasioni, perché potrebbero essere state più di una, e le distruzioni che certamente ne seguirono, sia accaduto quanto raccontato, in maniera più o meno fantastica, dalla leggenda. Si sa che le disgrazie non vengono mai sole. E, se ammettiamo per ipotesi, che le cose siano andate come le abbiamo immaginate e appena descritte, e che si siano succedute a distanza di poco tempo l' una dall' altra e, le ipotiziamo accadute nell' ordine accennato, ben poco rimaneva da fare ai pochi superstiti, se non fuggire ritirandosi sulle colline vicine in attesa di tempi migliori per poter ritornare e riprendere le proprie fatiche. Ma come sempre, i tempi migliori sono lunghi a venire. La città distrutta e ormai quasi inghiottita dalle acque che non accennavano a ritirarsi, i campi divenuti improduttivi, la malaria che incombeva sempre più dappresso. E più il tempo passava e più i ricordi si affievolivano, fino a scomparire, e della città e della sua storia, non rimase traccia se non nella "leggenda".
                                           
LENTA RIPRESA DELLE ATTIVITA'

Forse, fu soltanto all' inizio del VII secolo, quando i Longobardi che già occupavano gran parte della pianura Padana, dell' Umbria e della Toscana estesero la loro influenza lungo la costa tirrenica che la vita attiva riprese nuovamente a pulsare in quelle zone. Con il dominio e l' egemonia longobarda, si prospettava un periodo di calma ed una organizzazione militare stabile, che ispirava una certa fiducia, perciò vi fu una timida ripresa dei commerci, uno sviluppo dell' agricoltura e dell' allevamento del bestiame, specialmente quello suino. Lentamente, faticosamente, con estrema prudenza, anche a Vada, i primi coloni, ricominciarono a coltivare queste terre, come veri e propri "pionieri", trascinandosi dietro i primi mercanti che diventarono per necessità anche marinai. Molto contribuì alla ripresa dei commerci, anche la vicinanza di un' importante arteria come l' Aurelia. La città stava riprendendo nuovo vigore, con la costruzione di nuovi edifici, ed è forse in questo periodo e in questo contesto che si deve inquadrare la preparazione della "calcara" che abbiamo visto scavata nell' edificio termale, e che molto probabilmente venne impiegata per produrre calce utilizzando i marmi delle terme stesse, ormai inutili avanzi di una dimenticata, passata opulenza. Come sottofondo per il selciato di nuove strade, si impiegarono vari materiali reperibili sul posto, dai laterizi ai ciotoli di fiume, dai pezzi di marmo delle terme ai frammenti di anfore e vasi. Di questa pavimentazione, ottenuta con l' utilizzazione di materiale di ogni specie, ne abbiamo riportati alla luce diversi tratti, specialmente nella zona delle terme. E' probabile che in quel tempo, l' economia cittadina si indirizzasse anche verso nuove attività, e che una di queste, fosse la produzione del vetro. Non crediamo sia del tutto sbagliato pensare che le lastre di vetro, rinvenute durante lo scavo dell' edificio termale, appartengano al periodo di questa nuova utilizzazione dell' edificio stesso. Ne abbiamo già parlato nel paragrafo dedicato ai "materiali minuti", riferendoci anche al suggerimento dato dal Targioni Tozzetti sull' impiego della sabbia e della cenere dell' "aliga", pensando che l' autore abbia trattato l' argomento, forse anche per avere rinvenuto nella zona notevoli quantità di vetro. Non dimentichiamoci del leggendario toponimo di Valdivetro. Della presenza dei Longobardi nella zona, ne abbiamo una dimostrazione nelle due "arche" (sarcofagi) in pietra rinvenute nella zona di San Gaetano ed ora conservate nel parco della fattoria "Il pino" di Vada, di proprietà del conte Melz­Colloredo. Queste "arche", di accertata tipologia longobarda, riteniamo venisero usate per seppellire i morti all' interno di Basiliche, o quanto meno, in terra consacrata nelle immediate adiacenze della Basilica stessa. Questo ci farebbe supporre per quel periodo, siamo verso l' VIII secolo, la presenza a Vada di una comunità abbastanza numerosa e l' esistenza, per lo meno nel territorio, di una Chiesa di una certa importanza. Ai Longobardi succedettero i Franchi. E' in questo periodo di transizione che le scorrerie dei pirati aumentarono di numero (probabilmente l' attuale via delle Saracine, non è che una corruzione del nome antico della zona in ricordo di quei tristi periodi), tanto da consigliare alla popolazione di trovare rifugio in luoghi più sicuri, forse addirittura sul colle di Rosignano o sulle colline circostanti. E poi ha inizio l' avvicendarsi delle dominazioni delle "Repubbliche Marinare" che, alternandosi al potere con i vari principati, hanno caratterizzato l' assetto politico di tutto il periodo medievale. Vada, fino a quel periodo legata probabilmente all' "ager volterranus", passò a poco a poco sotto la giurisdizione di Pisa. Non si sa bene quando questo accadde, ma sicuramente prima del 780, perché un documento, riguardante la donazione di una "Ecclesia SS. Joannis et Pauli de Vada" alla "Badia di S. Savino" del piano di Pisa, fu rogato proprio in quella data. Ancora il Targioni Tozzetti ci informa che nell' anno 1043, vi era una "Chiesa dedicata a S. Giovanni, col titolo di Pieve", di conseguenza si può ipotizzare che, almeno in quel periodo, il luogo era abitato. Nel 1075, o nel 1079, gli storici su questo punto non sono molto d' accordo, comunque in quegli anni, vi si accamparono per qualche tempo i genovesi, finché furono costretti dai pisani, i quali avevano assediato Rapallo, a tornarsene a Genova. Ritornarono però con numerose navi e una nuova armata nel 1126 e, distrussero Vada mettendola "a ferro e fuoco". L' Imperatore Corrado II, con un suo Diploma, nell' anno 1138 confermò alla Chiesa pisana "Placitum et fodrum de Vada et ogni terra o ogni cosa di sua pertinenza". Pisa, che in questo periodo stava incrementando la sua influenza nel Mediterraneo, assumendo sempre più importanza come "Repubblica marinara", si servì del porto di Vada sia per spedizioni militari che per quelle mercantili, e verso la fine del XIII secolo, circa 1280, iniziò la costruzione di un faro "sulla secca di Val di Vetro, che indicasse di notte ai marinari il pericolo dell' arrenare, e qual' era la bocca del porto". E' molto probabile che questo "fanale" non sia mai stato portato a compimento e, indubbiamente, saranno i resti di questa costruzione, avvistati dai pescatori sulla secca, che hanno contribuito a far nascere la "leggenda di Valdivetro". In diverse "rubriche" dei vari "libri" e "statuti", si parla di Vada e dei lavori fatti per il suo porto e per migliorare la viabilità delle sue strade, e si concedono molte esenzioni e privilegi a chi "anderà ad abitare a Vada". Anche se dal periodo Longobardo in poi si assiste ad una ripresa, questa indubbiamente fu molto lenta. L' economia stentava a decollare per una serie di cose, non ultime le scorribande che pirati saraceni, come abbiamo visto, effettuavano quasi giornalmente lungo tutta la fascia costiera, a dispetto delle "repubbliche marinare" la malaria che imperversava in quelle zone paludose e malsane, i vari mutamenti politici cui erano costretti, loro malgrado, gli abitanti della zona. Il cambiamento di indirizzo politico, cui fu obbligato il governo di Pisa alla morte del Conte Ugolino, e l' allentamento dei controlli sui territori extraurbani, favorì il tentativo del Conte Inghiramo di Biserno per la conquista di Vada, che tuttavia dovette nuovamente restituire ai pisani nel 1287. Tra alterne vicissitudini e vari passaggi diciamo, di proprietà, guerre guerreggiate, scaramucce, saccheggi, beghe varie, sempre fra potenti prepotenti e, chi era prepotente ma non ancora sufficientemente potente, si giunge all' inizio del XV secolo. Nell' anno 1405 Vada fu presa a forza da truppe fiorentine comandate da "Sforza Attendolo da Cutignola", il quale, nel 1431, si "sottomesse a Niccolò Piccinino, generale del Duca di Milano". I fiorentini la riebbero poi, nella pace del 1433. Nel 1452, nel mese di Dicembre, fu assediata dall' armata di Ladislao re di Napoli, che riuscì a conquistarla grazie al tradimento del castellano, il quale si vendette per danaro, ma i fiorentini la riconquistarono il 26 Ottobre dell' anno seguente. Prima di lasciare Vada però, le truppe napoletane lasciate dal re di Napoli a guardia del presidio, la misero a ferro e fuoco, così che i fiorentini constatata l' inopportunità di una ricostruzione delle fortificazioni, fecero radere al suolo quanto era rimasto. E' questa, secondo gli storici, la vera causa della desolazione e dell' abbandono definitivo di Vada. Quanto accaduto in seguito, sotto il dominio dei Lorena, dal XVIII secolo ad oggi, dall' inizio delle bonifiche agli appresellamenti, è storia troppo recente e conosciuta, perché se ne debba ulteriormente parlare.  
                                                          
BIBLIOGRAFIA

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                                                                                          GLOSSARI

ABSIDE: Struttura architettonica a pianta semicircolare o poligonale, fornita di volta a catino.

APODITERYUM: Locali delle terme romane adibiti a spogliatoio. Erano provvisti di mensole ad altezza d' uomo per riporvi gli indumenti.

ARCA: Sarcofago in pietra, sepolcro.

ARENARIA: Roccia sedimentaria costituita da granuli di mica, quarzo, feldspati, cementati entro una matrice argillosa, calcarea o silicea, usata come materiale da costruzione.

ARETINA: (Ceramica) Argilla di colore rosso con cui venivano fabbricati vasi con decorazioni a rilievo, talvolta applicate.

BALNEATICUM: Moneta di poco valore usata per ingresso alle terme.

BALNEAE PENSILES: Letteralmente bagni sospesi: Impianto adottato dai romani per il riscaldamento degli ambienti. Consisteva nel far circolare sotto il pavimento e lungo le pareti aria calda proveniente dal PRAEFURNIUM.

BARBOTINE: Termine di derivazione francese. Consiste in um miscuglio di argilla molto fluido contenente dal 45 al 55% di acqua, usato per incollare ai vasi lisci figure in rilievo preparate a parte.

CALDARIUM: Ambiente riscaldato per prendere il bagno caldo e sudare, nelle antiche terme romane.

CORO: Antico nome del vento di ponente, maestro.

DEAMBULATORIUM: Ambiente di passaggio posto lateralmente ad uno o più locali di un edificio.

ESEDRA: Ambiente a forma di emiciclo destinato a luogo di ritrovo e di conversazione, all' interno di edifici pubblici e privati di epoca romana.

FIGULINA: Arte del vasaio, arte della ceramica.

FRIGIDARIUM: Locale delle terme provvisto di piscina o vasca con acqua fredda dove il bagnante, con i pori della pelle dilatati dal sudore, si tuffava.

HYPOCAUSTUM: Letteralmente, che scalda da sotto. Particolare tipo di vespaio formato da un pavimento di mattoni e calcestruzzo, talvolta con mosaico, poggiato su pilastrini di mattoni, per permettere all' aria calda proveniente dal "praefurnium" di circolare sotto di esso. I gas combusti uscivano attraverso canne fumarie poste lungo i muri che così venivano anch' essi riscaldati.

LACONICUM: Ambiente delle terme riscaldato a temperatura molto elevata. Originariamente il riscaldamento avveniva per mezzo di un braciere, ma dopo l' invenzione del BALNEAE PENSILES, il locale veniva riscaldato con aria calda che circolava sotto il pavimento e lungo le pareti in appositi condotti.

LABRUM = BACILE: Recipiente adatto a contenere liquidi, per lo più acqua.

OPUS: Termine usato da Vitruvio per indicare la tipologia costruttiva e strutturale di un edificio: O.INCERTUM formato elementi litici disposti casualmente. O.SQUADRATUM murature formate da pietre tagliate e collegate regolarmente con giunti orizzontali. O.VITTATUM muri formati da fasce di laterizio alternate a fasce di pietra.

PORTICATO: Luogo aperto a guisa di loggia, posto intorno o davanti agli edifici, sorretto da colonne o pilastri.

PORTOLANO: Libro che contiene la descrizione delle coste e tutte le notizie idrografiche, meteorologiche, e altri dati utili alla navigazione.

PRAEFURNIUM: Locale dove si alimentava il fuoco che serviva a riscaldare le terme

SIGILLATA(CERAMICA): Terra sigillata, caratteristica ceramica prodotta soprattutto nella Gallia meridionale e centrale nei primi secoli dopo Cristo. Fu copiata dalla ceramica aretina e fu essa stessa ampiamente imitata. Era una ceramica rossa con superficie brillante e levigata, decorata semplicemente o in maniera elaborata per mezzo di matrici. Il nome sigillata deriva dal timbro (sigillum) col quale il vasaio frequentemente "firmava" i suoi prodotti. Questa ceramica ha grande valore archeologico ai fini della datazione, spesso superiore alle monete.

SUSPENSURAE: Colonnette di mattoni (quadrati o circolari) sostenenti un pavimento, poste distanziate tra di loro per permettere la circolazione di aria calda.

SPHAERISTERIUM: Palestra dove ci si allenava alla lotta o alla scherma o ci si divertiva giocando alla palla.

TEPIDARIUM: Stanza con temperatura moderata. Qui i clienti provenienti dal CALIDARIUM sostavano per graduare il passaggio di temperatura del corpo prima di tuffarsi nel frigidarium.

VADUM = GUADO: Tratto di mare o di fiume o di laguna che si può attraversare toccando il fondo con i piedi.