VADA FRA STORIA E LEGGENDA
di Dino Agostini
Vada, conosciuta fin dai tempi
antichi come importante centro commerciale e marittimo soprattutto
di Volterra, prima etrusca poi romana, ma divenuta con il
trascorrere del tempo come il "Carneade manzoniano".ttenuata già dal
V secolo la sua rinomanza come porto, indebolita ancora la sua
posizione durante il periodo longobardo, scomparsa e dimenticata
durante i secoli bui del Medioevo.
Acquitrini, paludi salmastre,
zone malsane, resero quella terra inospitale e il posto, malarico e
insicuro. L' Alberti, visitando il luogo verso la metà del XVI sec.,
vi trova pochi abitanti, poveri e febbricitanti, forse i probabili
discendenti di quegli etruschi che per primi abitarono la zona, ed
ora costretti, loro malgrado, ad adattarsi quali inconsapevoli
conservatori delle vestigia di quella che fu sicuramente una grande
città. Anche il Targioni Tozzetti, circa due secoli più tardi,
testimonia attraverso i suoi appunti le povere condizioni della zona
e la vita grama dei suoi abitanti.
L' Abate Pifferi, che vi
transita nel 1831, non registra un gran mutamento e così, nella
"lettera prima", descrive il suo passaggio da Vada: "Da Rossignano
discendendo di nuovo alla pianura, ci portammo alla Torre di Vada.
Dicevasi quel luogo appunto Vada Volaterrana, perché tutto quel
piano era d' ogni intorno paludoso e difficile ad attraversarsi. Ora
però è asciuttissimo e sicuro, quantunque il terreno conservi sempre
la sua antica apparenza, essendo allo stesso livello del mare
"abbondanti masse di alga umida e disseccata rendono difficile l'
accesso al mare. Avvi un bastione fatto di quest' erba marina, su
cui sono collocati due cannoni, ed a cinquanta passi indietro vedesi
la moderna Torre di Vada. Ragionando con alcuni marinai genovesi,
che avevano preso pratica del porto a cagione della calma, questi ci
dissero che alcuni banchi di sabbia, o secche, che sporgono per
lungo tratto di mare, distaccandosi dalla punta orientale del
cratere, rendono ivi le navi sicure dalla tempesta, formando quasi
un comodo e spazioso porto. La situazione di Vada è ancor paludosa
come nei passati tempi, l' aria nell' estate è molto malsana. Quei
pochi soldati, che vi trovammo, erano tutti febbricitanti.
Immaginatevi, mio caro amico, una pianura di circa 20 miglia di
lunghezza e di altrettanta larghezza, piena di vigorosa vegetazione
e sparsa solo di qualche capanna, dove abitano i custodi del
bestiame, che pascola nella medesima e vi formarete un' idea di
questa valle che comincia poco prima di Vada e va fino alla Torre di
San Vincenzo".
Qui termina la "lettera prima"
dell' Abate Pifferi, una cronaca piuttosto fedele, anche se ci
sorprende un poco che "il luogo asciuttissimo" all' inizio della
lettera, diventi "paludoso" quasi in fondo, ma che tuttavia, che ci
fa conoscere le tristi condizioni della zona in quel penoso
frangente. Vada, riscoperta, se così si può dire, con le bonifiche e
gli appresellamenti iniziati verso la fine del XVIII secolo, ha
ripreso un nuovo vigore nei primi anni di questo secolo e, come l'
Araba Fenice, è risorta dalle sue ceneri. E sono molti, specialmente
in questi ultimi anni, che hanno riscoperto la "Vada Volaterrana" o,
come ci testimonia la "Tabula Peutingeriana", "Vadis Volateris".
Tutto questo interesse si è risvegliato da quando, nel 1958, furono
eseguiti i primi saggi archeologici nella zona ad Ovest di Vada, nel
podere denominato "San Gaetano", in quella "terra soda e salinosa"
posta a monte dello "stagnolo di Ponente", come si evidenzia in una
mappa del '700. Indagare sul passato è sempre stato affascinante,
quando poi, in questo passato affondano le nostre radici, allora il
fascino diventa una vera seduzione che lusinga e strega, e non si
può fare a meno di esserne coinvolti. L' interesse nella gente è
andato via via crescendo, particolarmente dal 1975 in poi, da quando
cioè ebbe inizio quella campagna di scavo che dura tuttora, e che
tanto ha contribuito alla divulgazione della storia di Vada tra le
popolazioni della zona. Come si giunse però ad effettuare i primi
sondaggi, e perché proprio a Vada? Fu una decisione che, visti i
risultati, potrebbe apparire semplice, ma che tuttavia si rivelò più
complessa del previsto e che impegnò per alcuni anni nello studio e
nella ricerca bibliografica un gruppo di appassionati, quelli che
per primi gettarono le basi del nascituro Museo Civico di Rosignano
Marittimo.
ARCHEOLOGIA LOCALE E
NASCITA DEL MUSEO ARCHEOLOGICO
Nel 1954, l'
Amministrazione comunale fece eseguire da una ditta dei lavori per
la sistemazione dell' acquedotto in via Tripoli e via Asmara in
Castiglioncello. I lavori di sterro erano seguiti giornalmente e con
il massimo scrupolo, dall' allora vigile sanitario Edilio Massa e da
Edolo Corsini, un impiegato dell' Ufficio Tecnico che si interessava
specificamente del settore viario del Comune. Tutti e due, ma
particolarmente il Massa, erano appassionati dilettanti di
archeologia, o meglio, erano affascinati dalle cose del passato. Il
Massa si preoccupava del recupero di tangibili testimonianze di
civiltà passate, seguendo, nella sua veste di vigile sanitario, ogni
lavoro di scavo che l' Amm/ne Comunale o i privati intraprendevano
sul territorio. Il Corsini si dedicava, studiando le vecchie "mappe
catastali" e indagando sui toponimi, alla ricerca di vecchie strade.
Durante il compimento dei lavori, vennero alla luce una quindicina
di tombe a pozzetto di epoca etrusca, databili intorno al III-II
sec. a. C. Il corredo funebre non era molto ricco e consisteva in
alcuni "vasi in impasto", usati per contenere le ceneri del defunto,
le cosiddette "olle cinerarie", in piatti a vernice nera, balsamari,
orcioli biansati, olpe, oinochoi (vasi da vino) con imboccatura
"trilobata" o a "cartoccio", in una spada e una punta di giavellotto
in ferro. Poche cose ed oltretutto molto simili a quelle già
custodite nel Museo di Castiglioncello, rinvenute in tombe
identiche, nei primi anni del secolo durante i lavori per la
costruzione della ferrovia Vada-Livorno. Nondimeno queste poche
cose, unitamente ad altre recuperate in varie zone del Comune,
invogliarono e stimolarono ad una ricerca più accurata sul
territorio e fecero nascere l'idea dell'istituzione di un Museo
Civico Archeologico, Museo che fu inaugurato e aperto al pubblico
nel Giugno del 1955. Chiamarlo Museo fu un po' una presunzione
perché "il tutto" consisteva unicamente in una piccola saletta al
primo piano dell'edificio del vecchio Comune, nel Castello di
Rosignano, dove queste povere cose erano disposte in bell'ordine e
ben distanziate tra loro, perché sembrassero più numerose su alcune
mensole a muro e in un paio di vetrine. Ma in quella sala c'era,
per noi, un campione delle nostre radici, una piccola parte della
nostra storia, ma soprattutto c'era il nostro cuore, la garanzia di
una scommessa con noi stessi, il nucleo, il seme, il fondamento del
futuro museo. Noi eravamo convinti, anzi certi, che il territorio
avrebbe offerto ben altro, bastava saper orientare il lavoro di
ricerca. Escludendo Castiglioncello, ormai talmente urbanizzato che
non ci avrebbe né offerto la possibilità, né consentito una proficua
ricerca, restavano nel Comune un discreto numero di altre aree
disponibili ad una seria esplorazione. Una collinetta in località
"Case nuove" di proprietà del conte Millo, aveva rivelato ad una
ricognizione superficiale, resti di strutture di epoca romana, quasi
certamente una villa, e anche piuttosto importante. Nel podere "La
Villana", di proprietà dei fratelli Banti, erano stati riportati
alla luce, oltre ad un tronco di statua in marmo raffigurante una
ninfa (divinità minore femminile della mitologia classica), monete
in bronzo, mosaici, una serie di frammenti di vasellame in "terra
sigillata", frammenti di anfore e residui di fondamenta di edifici,
testimonianza di imponenti costruzioni di epoca romana ora
distrutte; anche questi, senza ombra di dubbio, resti di una villa.
In quei tempi, stando a quanto riportava il Nencini sulla sua
"Monografia di Rosignano", si pensava addirittura alla villa di
Decio Albino Cecina. Alcune tombe erano state trovate negli anni
venti a "PoggiPaoli", sarebbe valsa la pena di una verifica ed una
ricerca più accurata, mentre una grande abbondanza di materiale
fittile era affiorato negli ultimi tempi a "Grotti", vicino al
cimitero, per non dire di decine e decine di altri siti. Poi c'era
Vada. Mi ricordai che sul finire degli anni trenta, alcuni miei
compagni di scuola, provenienti da Vada, raccontavano in classe cose
incredibili, di tesori nascosti, di case sepolte, ossa umane
accatastate ai lati dei campi, fatti insomma che accendevano la
fantasia di noi ragazzi e ci facevano sognare ad occhi aperti.
Specialmente quando una volta uno di loro portò in classe
addirittura una moneta, alcuni frammenti di "ceramica" e un paio di
denti umani. Avremmo voluto verificare di persona la veridicità di
quanto affermavano questi nostri compagni, pungolati da un
incontenibile entusiasmo, ma Vada a quei tempi, per noi, era in capo
al mondo, le distanze a quel tempo sembravano "più lunghe", e così
non ne facemmo di nulla e nessuno ci pensò più. Ma ora i tempi erano
cambiati. Esternai (per dirla con una parola ormai entrata nel
linguaggio comune) questi ricordi ad alcuni amici e cominciammo così
una ricerca bibliografica sulle opere di scrittori latini, a
cominciare da Catone, Strabone, Cicerone, Tito Livio, Plinio, in
definitiva qualunque scrittore antico avesse menzionato Vada
Volaterrana per noi andava bene, diventava una fonte preziosa di
informazioni. C' era inoltre il poema del poeta e scrittore Gallolatino Claudio Rutilio Namaziano, "De reditu suo", nel quale il
poeta narra di come durante il suo viaggio per mare da Roma in
Gallia, nel 417 d.C., abbia fatto scalo al porto di "Vada" per
passare una notte nella villa che il "suo Albino", il Prefetto di
Roma Decio Albino Cecina, possedeva nella zona. Così descrive l'incerto ingresso della nave nel porto, e la vista che dal porto ebbe
della villa, con questi versi:
In Volaterranum, vero Vada nomine,
tractum
Ingressus dubii tramitis alta lego.
Despectat prorae custos
clavunque sequentem
Dirigit et puppim voce monente regit.
Incertas
gemina discriminat arbore fauces
Defixasque offert lines uterque
sudes,
Illis proceras mos est adnectare lauros
Cospicuas rami et
fruticante coma,
Ut praebente viam densi symplegade limi
Servet
inoffensas semita clara notas.
Illic me rapido consistere Corus
adegit,
Qualis silvarum frangere lustra solet.
Vix tuti domibus
saevos toleravimus imbres:
Albini patuit proxima villa mei.
che
tradotti molto liberamente, ma crediamo, abbastanza coerenti e
fedeli al testo, dicono pressappoco così: Ora entrato nella zona di
Volterra, cui giustamente è nome Vada, percorro dove l'acqua è
profonda infido canale. Scruta il fondo dell'acqua il nocchiero a
prua e dirige il docile timone, guidando la poppa con ordini a gran
voce. L'incerta imboccatura è mostrata da due alberi e l'uno e l'
altro limite segnano pali infissi nell'acqua. E' uso legare ad essi
alti lauri, che si stagliano all'occhio pei rami e le fitte foglie,
perché conservi intatti i segnali un chiaro passaggio, sul fondo
compatto di denso limo che pur lascia una via. Là mi costrinse a
fermarmi la furia di Coro, qual suole sconvolgere fin nel profondo
le selve. Ci riparammo a stento dalle piogge violente, protetti da
un' abitazione: A noi s'era aperta, non lungi, la villa del mio
Albino.
Probabilmente Namaziano è l'ultimo, in ordine cronologico,
che abbia visto Vada ancora operosa prima del definitivo declino.
Non è questo né il luogo né la sede adatta per discutere dove fosse
situata la villa del Senatore Albino Cecina, se, come sostengono
alcuni, alle pendici di Rosignano, oppure, come vorrebbero altri,
sulla sinistra del Cecina, sempre però in posizione elevata, da
dominare le "sottoposte saline", ma interessa attestare che a Vada Volaterrana, nel V secolo, prima che iniziassero le invasioni
barbariche, esisteva un porto ancora in discreta efficienza,
funzionavano le saline, e i patrizi romani frequentavano ancora le
ville che possedevano nei dintorni. Ma ancora, autori più vicini a
noi come Leandro Alberti, Giovanni Targioni Tozzetti, Emanuele
Repetti, Pietro Vigo, l'Abate Pifferi, ci testimoniano con i loro
documenti, gli appunti di viaggio, le lettere, come già abbiamo
avuto modo di dire all'inizio, le condizioni di Vada dopo il XVI
secolo, vale a dire più di mille anni dopo. Parallelamente alla
ricerca bibliografica, si sviluppò una ricerca sondaggio presso i
vecchi contadini della zona. Passammo pomeriggi interi a parlare con
decine e decine di persone e attraverso i loro racconti,
dichiarazioni fatte più spesso a mezza bocca, in un miscuglio di
qualche verità e molte fantasticherie, ci convincemmo, sempre
cautelandoci con il beneficio d'inventario, che valeva la pena di
approfondire le indagini. La nostra convinzione divenne certezza
quando qualcuno, dapprima con un po' di reticenza e ritrosia per la
verità, ma alla fine con crescente fiducia, ci mostrò alcune monete
particolarmente ben conservate e vari altri reperti che aveva
trovato durante i lavori di aratura e che custodiva gelosamente come
un piccolo "tesoro". Con il passare del tempo, tra noi
intervistatori e, gli intervistati, si instaurò un rapporto di
amicizia e una tale e tanta familiarità che la confidenza divenne
sempre più aperta. Qualcuno anzi consigliò anche noi, di tentare l'avventura, indicandoci la zona dove la sorte ci avrebbe certamente
favoriti, in particolare tra i vigneti o vicino agli olivi. Ci
rendemmo ben presto conto che quello che a noi sembrava fantastico,
a sentirlo raccontare, non era che un insignificante riflesso della
realtà. Centinaia di tessere per mosaico in pasta vitrea
multicolore, erano sparse sul terreno tra le vigne, chiodi in bronzo
di varie dimensioni, dadi per gioco, aghi per cucire in osso e in
bronzo, frammenti di ceramica sigillata e monete, molte monete,
troppe per la verità. Il podere dove furono fatte queste prime
ricognizioni, faceva parte dell'azienda agricola della Società
Solvay, la quale si dimostrò disponibilissima, quando glielo
chiedemmo, a farci fare un sondaggio esplorativo. La Soprintendenza
alle antichità d' Etruria, dietro nostra richiesta, avallata anche
da una lettera del sindaco prof. Demiro Marchi, inviò nell'Ottobre
del 1957 un suo ispettore, il pro. Giorgio Monaco il quale si rese
subito conto dell'importanza dei rinvenimenti, e nel Settembre del
1958 fece eseguire il primo sondaggio.
VADA
La costa a Sud di Livorno,
particolarmente il tratto tra il fiume Fine, nel Comune di Rosignano
e San Vincenzo è dal punto di vista orografico pianeggiante, poco
elevata sul livello del mare e, in certi tratti, addirittura un po'
sotto. Il mare spesso si insinua (o quanto meno si insinuava, e
questo accadeva nella zona prima della bonifica), per lungo tratto
all' interno della costa con lingue che a volte si allargano
formando dei veri e propri bacini. In questi bacini il ricambio
dell' acqua è assicurato dalle maree e l' acqua all' interno, può
essere salata oppure salmastra, specialmente se in questi bacini vi
sfociano botri o fossi. Quando poi, per il mutare delle correnti,
per forti venti di mare o per decine di altre cause naturali, si
accumula sabbia in prossimità della spiaggia, davanti all'
imboccatura dei bacini chiudendo il ricambio, in poco tempo il
bacino si trasforma in uno stagno, dapprincipio ancora salmastro, ma
tendente sempre più a divenire palude. Anticamente, sia queste
paludi, che gli stagnoli, o le lagune, tutti non molto profondi in
verità, si potevano attraversare tanquillamente a guado, senza
bisogno di girarvi intorno. Il guado, ossia un basso fondo, o secca,
o banco di sabbia, ovvero un qualsiasi luogo che permetta il
passaggio da una riva all' altra di un corso d' acqua, toccando il
fondo con i piedi, in latino, si dice: "vadum". Vadum = sostantivo
neutro singolare, al plurale diventa "vada". Nella zona, per le
ragioni che abbiamo sopra citato, di questi "vadum" dovevano
essercene parecchi e perciò tutto il territorio circostante fu
identificato con il nome di "vada". Vada Volaterrana, perché la
zona, prima di cadere come tutta l' Italia, sotto il dominio di
Roma, faceva parte del territorio volterrano, (ager volterranus). E'
ovvio e sintomatico perché il nome venga ricordato spesso in
relazioni o scritti di autori latini. I viaggiatori i mercanti o
chiunque altro avesse avuto necessità di transitare per quelle
terre, percorrendo la via Aurelia, correva il rischio, come minimo,
in certi periodi, di rimanere impantanato o di dover tornare
indietro. Oppure, per chi arrivava dal mare, essere costretto a
soggiornare forzatamente sul posto per qualche giorno, fino a che la
situazione meteorologica non fosse migliorata. Ma intorno al nome di
Vada è nata una fantastica leggenda che, quasi fosse un mito, ha
permeato di mistero un racconto che viene ripetuto da tempi remoti,
tramandato da padre in figlio.
"LEGGENDA DI
VADA"
Al "bar", durante
interminabili partite a carte, tra un "gotto" di vino e una "pipata"
di tabacco, o un "mezzo toscano", i vecchi pescatori di Vada amano
raccontare la "vera storia" delle origini della loro cittadina e di
come è nato il nome. E' gente semplice, come tutta la gente di mare,
gente avvezza a giornate passate in solitudine, tra mare e cielo, in
compagnia soltanto dei suoi "mestieri" e dei suoi pensieri. E in
questa solitudine i pensieri diventano ossessivi, la fantasia un'
angoscia ampliata da ancestrali superstizioni. Questa storia che
raccontano, tramandandosela come detto, di padre in figlio, ampliata
ogni volta con qualche particolare in più, abbellita e
infiocchettata secondo la fantasia e l' immaginazione del narratore,
è una storia che per loro, con il passare del tempo diventa sempre
più "saga" e sempre meno invenzione. Ognuno di loro, specialmente
dopo i primi bicchieri, è pronto a giurare sull' autenticità di cose
che crede di avere visto o sentito, come strade lastricate e muri di
case sul fondo marino, vicino al "fanale"; oppure, in giornate di
perfetta bonaccia, un suono di campane. Ecco la storia come me la
raccontarono una quarantina di anni fa alcuni pescatori, e che io vi
ripropongo, sperando che la memoria non mi tradisca, perché,
affascinato dalla narrazione, in quel tempo non prendevo appunti.
VALDIVETRO
C' era una volta. Tutti,
raccontandomela, cominciavano così: c' era una volta...... . C' era
una volta, dunque, centinaia e centinaia di anni fa, in questa zona,
qui, dove ora si trova Vada, una grande città, così grande che con
il suo porto, le sue strade, le sue case, arriva fino al "fanale".
La città si chiamava "Valdivetro". Il porto di questa città aveva
dei moli lunghi chilometri e ai suoi moli ogni giorno arrivavano e
attraccavano centinaia di navi provenienti da tutto il mondo. Con
olio, stagno, rame dalla Spagna; stoffe, lana e legno dalla Gallia;
grano dall' Africa; marmi dalla Lunigiana; vasi dalla Grecia; ferro
dall' Elba; spezie e sete dalle Indie. Valdivetro era piena di gente
che lavorava, navigava, commerciava, e si divertiva. C' erano negozi
e botteghe artigiane, teatri, terme, banche, lupanari e chiese. (Non
ho mai capito se l' accostamento dei due ultimi termini fosse
maliziosamente voluto, come a sottolineare che dopo il peccato di
lussuria era necessario il ravvedimento, il rimorso il riscatto per
poter rimanere in pace con la propria coscienza e riconquistarsi la
fiducia negli dei. Anche oggi del resto molti operano nello stesso
modo). La vita scorreva quieta e pacifica, ma questa vita troppo
spensierata, troppo facile, fece dimenticare ai cittadini il dovere
verso gli dei. Era più il tempo passato nelle bettole (tabernae),
alle terme e nei bordelli, che non quello dedicato al culto, si
concedeva più tempo all' appagamento dei piaceri effimeri,
fuggevoli, trascurando lo spirito, dimenticando i templi,
tralasciando di sacrificare agli dei, disimparando le preghiere. Ma
gli dei non dimenticano, e invidiosi, gelosi e indispettiti dalla
trascuratezza della gente di Valdivetro verso di loro, decisero di
vendicarsi. Un giorno, nubi gonfie di pioggia cominciarono ad
addensarsi all' orizzonte, tutto intorno alla città. Venti impetuosi
cominciarono a soffiare dal mare sollevando onde sempre più alte che
si abbattevano sui moli, il cielo si oscurò, divenne sempre più nero
e cominciò a piovere. Da prima si credette ad una tempesta
passeggera, come ce ne erano state in tempi passati, del resto era
la stagione delle piogge, ma passavano i giorni e il vento non
calmava e pioveva sempre più forte. Le scorte dei viveri stavano per
finire, la campagna era allagata e non produceva, navi non ne
arrivavano più perché il porto, fino ad allora sicuro e fidato, era
diventato rischioso. I moli principiavano a rovinare sotto la spinta
delle onde, le navi ormeggiate affondavano come barchette di carta,
si preannunciava un tragico evento. Il popolo, sempre più numeroso
ora, si raccoglieva nel tempio a pregare. Ora, ci si ricordava dei
torti fatti agli dei, ora, si sacrificavano sui loro altari gli
ultimi animali rimasti, sperando in una riconciliazione, in una pace
impossibile. Però gli dei offesi, voltavano le spalle a Valdivetro.
Poi un giorno, tragico, funesto, un popolano fradicio di pioggia,
affannato, stremato da una lunga corsa, entrò nel tempio mentre il
sacerdote era intento al sacrificio, e con voce rotta dal pianto e
dall' emozione, gridò che la furia del mare aveva abbattuto le
ultime difese del porto, che onde altissime stavano rovinando sulla
città distruggendola, urlò, piangendo e imprecando, che Valdivetro
se ne stava andando, che si salvasse chi poteva. Un grido di
angoscia e di paura si levò dal popolo raccolto in preghiera, alto
il pianto dei bimbi e i lamenti delle donne imploranti. Solo il
sacerdote mantenne la calma e rivolto ai fedeli, esortandoli a
pregare disse: Che sia fatta la volontà degli dei, se Valdivetro
deve andare, vada! Furono queste le ultime parole pronunciate dal
sacerdote, prima che tutto venisse sommerso. Ma non tutti perirono
in quell' immane sciagura. Alcuni riuscirono miracolosamente a
sopravvivere. Quando quella terribile tragedia finì, le acque furono
di nuovo calme e il sole tornò a splendere su quelle terre desolate
colme di lutti e di rovine, i sopravvissuti alla tragedia si misero
al lavoro impegnandosi a far risorgere dalle rovine una nuova città.
E con questa volontà, ricordando l' ultima parola pronunciata dal
sacerdote prima di morire, giurarono che la città, risorta dalla
distruzione e sulle rovine di Valdivetro, si sarebbe chiamata Vada.
Questo, più o meno, il racconto che mi hanno fatto molti anni fa gli
Olivi, i Giovannelli ed altri vecchi pescatori di Vada, o come
alcuni usavano definirli, "i discendenti di quei primi fondatori di
Vada, distrutta e risorta mille anni prima di Cristo". E mi
promettevano che, "una volta o l' altra", mi avrebbero portato sul
posto per: "farti vedere con i tuoi occhi". Purtroppo, una volta
perché le acque erano torbe, un' altra perché il tempo non
prometteva niente di buono, o altre cose del genere, la promessa non
fu mai mantenuta, e ora sono morti. Qualche volta ci sono andato con
altri amici, ma probabilmente non abbiamo saputo individuare bene il
posto, e non abbiamo visto niente. Peccato! Della leggenda ce ne
parla anche il Targioni Tozzetti, nel capitolo sulla "Istoria di
Vada", pag 416417. "Hanno favoleggiato alcuni visionari, che sopra
Val di Vetro fosse già fabbricata una grossa Terra, o Città,
sottoposta ai Volterrani, e detta Tuscinatum, la quale da una
inondazione del mare sia stata distrutta ed assorbita. Per rendere
verosimile la loro supposizione, dicono che in tempo di calma, sopra
Val di Vetro si vedono le rovine di questa Città: io però a bella
posta m' informai con molti Pescatori, e Barcaroli, che tutto il
giorno praticano questo Mare, e non ho potuto intendere che vi si
veda altro che Rena, Piante Marine, e qualche scoglio come alla
Meloria, ma raro. Le rovine che hanno dato origine a questa
tradizione, sono senza dubbio i fondamenti, ed il principio della
Torre per uso di Fanale, che vi fece fabbricare ne' bassi tempi, la
Repubblica Pisana".
LA VIA AURELIA
Fu soltanto verso la metà
del III secolo, 241 a.C. che il Console romano Lucio Aurelio Cotta
concepì l' idea di unificare, collegandoli tra loro, i vecchi tratti
della strada che partivano da Roma in direzione di "Alsium" l'
odierna Palo, "Caere" (Cerveteri), e "Cosa" (Ansedonia), facendoli
giungere fino a Vada Volaterrana e dando a questa nuova arteria il
nome di "via Aurelia". Da Vada la strada continuava poi verso Pisa
dove si divideva in due tronconi diretti, uno verso Felsina
(Bologna) e il centro Italia e l' altro verso la Gallia e poi la
Spagna seguendo il litorale. Il tronco che da Pisa si dirigeva verso
la Gallia, raggiunse "Albium Intimilium" Ventimiglia, verso la fine
del II secolo a.C. e prese il nome di via "Aemilia Scauri". La
lunghezza della via Aurelia fino a Vada Volaterrana era di 190
miglia, circa 280 chilometri. Nata come via di penetrazione
militare, l' Aurelia operò soprattutto come arteria commerciale,
collegando i vari porti sparsi sulla costa a Nord di Roma, con Roma
stessa. Anche se di regola, per i commerci, si preferivano le vie
marittime scegliendo di effettuare il trasporto delle merci con una
nave anziché con carri, in seguito dal porto di arrivo queste
dovevano essere trasferite ai mercati, e le strade allora più che
necessarie diventavano indispensabili. Il commercio per vie
marittime era scelto per varie ragioni; la prima perché la nave
poteva trasportare tanto prodotto che per la stessa quantità
sarebbero occorsi centinaia di carri, la seconda la velocità di
trasporto e questo, specialmente con le merci deperibili, era un
vantaggio non trascurabile, la terza ed ultima, se in mare c' erano
da considerare la pericolosità delle tempeste o un eventuale assalto
di pirati, per via di terra una rapina da parte di banditi era
sicura. Questa strada, veniva percorsa ogni giorno da centinaia di
carri e da viaggiatori che si muovevano per diporto o per affari, ma
sempre, o la maggior parte delle volte, in carovane numerose. Ricchi
mercanti romani la pecorrevano per rifornire,con le merci giunte per
mare agli scali del litorale, i mercati di Roma; i patrizi romani
per trascorrere le vacanze nelle loro ville situate lungo la costa,
o nelle ricche fattorie che possedevano, sparse sulle colline
toscane o umbre. Anche se per andare in Umbria, passare dalla via
Aurelia significava un cammino più lungo, il piacere di godere delle
bellezze offerte da un percorso vicino alla costa tirrenica, di un
clima più mite, di ospitalità nelle ville di amici, valeva bene la
pena di sopportare il sacrificio di un viaggio allungato di qualche
giorno, per godere della gioia e della felicità che tale sacrificio
poteva procurare. E' lungo questa strada che si trovavano i "Vada
volaterrana". Un grande emporio, un porto commerciale, un importante
centro di smistamento delle merci che giungevano via mare dalla
Spagna, dalla Gallia, dall' Africa e dal Medio Oriente, per il
centro ed il nord dell' Italia e oltre. La via Aurelia che partendo
da Roma, aveva sin qui seguito più o meno da vicino la costa,
toccando tutti i porti, ora se ne staccava, dirigendosi verso l'
interno. In questa zona infatti i "vada" e le propaggini dei "monti
livornesi" che si spingono fino sul litorale, e che costituiscono un
tratto di costa alta e spesso a picco sul mare, solcata
trasversalmente da gole piuttosto ripide e profonde, non consentono
o meglio, non consentivano un facile superamento delle difficoltà
orografiche per la realizzazione di un tracciato agevole come si
addiceva ad una strada di transito quale era considerata la via
consolare. Allo stesso tempo era facile superare l' ostacolo,
spostando il tracciato di qualche miglio verso l' interno allungando
il percorso solamente di alcune miglia, ma su terreno quasi
completamente pianeggiante, per riprendere il tracciato lungo costa
non appena le condizioni fossero state di nuovo favorevoli. Per
evitare questi ostacoli, particolarmente i "vada" che i viaggiatori
provenienti da Roma cominciavano ad incontrare nella pianura tra San
Vincenzo e Cecina, non appena oltrepassato il fiume Cecina, la via
Aurelia si spostava più verso l' interno, e dopo avere attraversato
il fiume Fine, ai piedi della collina di Rosignano, ne seguiva per
un tratto il corso risalendo lungo la riva destra, evitando così
oltre ai "vada", anche i "monti livornesi", che sarebbero venuti
dopo, e raggiungeva "Porto Pisano". Ma il porto di "Vada" era troppo
importante per essere tagliato fuori. La sua rilevanza dal punto di
vista commerciale ma, soprattutto militare, non poteva essere
ignorata. Per raggiungere il porto di Vada, ormai escluso dalla
deviazione dell' Aurelia, i romani sfruttarono il tracciato di una
vecchia strada già esistente che collegava Volterra con il suo porto
principale. Questa strada poi da Vada, continuava, evitando il
percorso litoraneo per le ragioni già dette e, passando per
Rosignano Marittimo, la Maestà, la Tagliola, le Serre, Poggio
Pelato, Nibbiaia, arrivava al guado sul torrente Chioma. Dopo averlo
attraversato si dirigeva verso Montenero da dove raggiungeva poi
Salviano e il "trivio d' Aldule". Da qui, dopo il ricongiungimento
con il ramo che aveva seguito la vallata del Fine, proseguiva per
Porto Pisano, la Versilia, la Liguria. Ma come abbiamo già detto, i
"vada" in certi periodi dell' anno non erano agibili, risultando per
molti tratti impercorribili e costringendo così i visitatori ad una
sosta forzata nella zona. Per questa ragione, tutta la città era
stata attrezzata per offrire ai "turisti" ospitalità e conforto. Tra
le attrezzature messe a disposizione degli "ospiti", certamente
figuravano negozi, osterie, locande, alberghi, teatri, bilblioteche,
oltre naturalmente alle terme, in cui poter trascorrere lunghi
periodi, distraendosi mentre si aspettavano tempi migliori. Nelle
nostre interviste, fatte alla gente del luogo, abbiamo appreso della
scoperta nella zona di resti di grandi costruzioni, dei quali
purtroppo oggi non resta traccia. Una notizia ci colpì in modo
particolare, quella del rinvenimento dei resti di un grande edificio
di forma semicircolare, di notevole ampiezza, la cui eliminazione
aveva richiesto l' impiego di cariche di esplosivo. Personalmente ho
veduto alcuni di questi blocchi che avrebbero, secondo il racconto,
formato i gradoni dell' "anfiteatro", erano in arenaria o pietra
calcarea, quadrati, di 75 cm di lato ed alti 45 cm circa.
(Rapportati alle grandezze di misura del tempo, circa due piedi e
mezzo per uno e mezzo) Ma tutte queste testimonianze rimangono solo
nella memoria di chi le ha vissute e di chi ce le ha raccontate
perché la maggior parte dei ritrovamenti, o si è perduta o è andata
distrutta. Unico edificio riportato alla luce, del quale si può
"leggere" ancora con sicuro convincimento la funzione e lo scopo al
quale era destinato, è l' edificio termale, o meglio, le vestigia
che di esso rimangono.
LE TERME PRESSO I ROMANI
Solamente in epoca
abbastanza recente il bagno è diventato un servizio troppo spesso
sbrigativo, compiuto con affrettata abitudine. La stanza da bagno è
oggi considerata un "annesso" della camera da letto, riservata così
più alla pulizia personale, che non alla distensione del corpo e
dello spirito. Era questo invece lo scopo principale del bagno,
presso i romani. Il cittadino romano, fosse ricco o povero, nobile o
plebeo, non effettuava mai una grande pulizia al mattino, appena
alzato. Per togliersi il torpore del sonno, immergeva le mani e il
viso in acqua fredda, e poi si recava a sbrigare le sue faccende.
Questo però non deve trarre in inganno, non si deve credere che il
cittadino romano non tenesse all' igiene personale, solo che a
questa cura egli riservava le ore centrali della giornata. Il bagno
presso i romani, consisteva in un bagno di sudore ottenuto in un
ambiente surriscaldato per passare poi, con intermezzi di riposo in
locali a calore moderato, in altri ambienti dove effettuavano
abluzioni con acqua tiepida o immersioni in acqua fredda, seguite da
massaggi e frizioni con oli frofumati e balsamici. C' erano, è vero,
anche edifici termali esclusivi per scopi curativi e terapeutici, ma
questo non ci sembra il caso delle terme di Vada. Il bagno per il
romano, quando, come abbiamo detto,non era fatto a scopo puramente
ed esclusivamente curativo, era anche un momento di rilassamento
oltre che del corpo, anche dello spirito, e per questo tutti vi
dedicavano una cura particolare. "Per liberare l' organismo di tutti
quei veleni di cui continuamente vien saturandosi con i cibi malsani
e mal digeriti, con le fatiche opprimenti o con le preoccupazioni
assillanti. Per espellere dal corpo le malefiche tossine, gli
antichi, più che ricorrere a diuretici e affaticare i reni,
ricorsero al sudore e a quel grande organo emuntorio che è la
pelle". Sant' Agostino, nelle "Confessioni", narra che alla morte
della madre avvenuta ad Ostia non pianse, e non pianse nemmeno
durante i funerali, il dolore gli si era "serrato nel cuore". Se ne
stava mesto e solo e si sentiva impazzire dalla pena. Si ricordò
allora del significato etimologico che si dava nelle scuole, alla
parola bagno, e si recò alle terme per cercare di liberarsi da
quello stato di angoscia che lo opprimeva. (Confessioni, IX 12,
2932). Il bagno alle terme però, divenne un' abitudine tanto
piacevole e radicata, che in molti cominciarono a farne un uso
smodato, prendendo anche cinquesei bagni al giorno, naturalmente
seguendo ogni volta le regole canoniche, essudazioni, abluzioni,
immersioni in acqua fredda, massaggi. I medici avvertivano con ogni
mezzo, dei pericoli a cui erano sottoposti, coloro i quali
esageravano in questa abitudine, ma la lapidaria risposta era: "balnea
vina venus corrumpunt corpora nostra sed vita faciunt", e cioè, "i
bagni il vino l' amore ci mandano in rovina ma fanno bella la vita".
Alle terme si ritrovavano tutti: ricchi e poveri, nobili e plebei e,
in una grande promiscuità di ceti e di censi si ritempravano,
liberando il corpo dagli umori maligni e lo spirito dai cattivi
pensieri. Peraltro, alle terme, non si andava solamente per svago,
ma anche per incontrare persone con cui discutere di affari, per
sollecitare un debitore al pagamento di un vecchio credito, per
collocare una partita di merce, per chiedere un prestito, per
raccomandare un parente o un amico per un lavoro. Le terme
rappresentavano un comodo mezzo per rivolgersi ad una persona senza
bisogno di andare a bussare alla sua porta o senza doversi
impegnare, scrivendogli una lettera, e d' altra parte non vi era
nessun' altra circostanza o occasione nella quale fosse altrettanto
facilmente raggiungibile la parità e la confidenza tra uomini che la
sorte o le congiunture della vita, dovevano tenere lontani. Le terme
erano edifici, o aggregati di edifici costruiti generalmente a spese
dello Stato, che vi profondeva a piene mani, quasi senza limiti,
sontuosità e grandezza. Abbiamo detto che le terme erano edifici
costruiti a spese dello Stato, ma meglio sarebbe dire, fatte
edificare dall' Imperatore. Fra i molti edifici termali ce ne erano
di modesti di ricchi e di sontuosi. Soltanto a Roma, tra il I e il
III secolo d.C. se ne contavano non meno di mille. Tra i più belli
basti ricordare le "terme di Nerone", fatte costruire dall'
imperatore, dopo l' incendio di Roma, su un' area di 30.000 metri
quadrati (tre ettari). Ma queste non sono nulla, se confrontate con
le "terme di Traiano", costruite su progetto dell' architetto
Apollodoro di Damasco e inaugurate il 22 Giugno del 109 d.C., ampie
110.000 metri quadrati. E che dire delle famose "terme di Caracalla"
riscoperte ed elevate a nuova gloria in questi ultimi anni? Dotate
di tutti i servizi, i più perfetti che a quel tempo si potessero
immaginare, sorgevano su un' area di 140.000 mq, ma tuttavia non
sono le più grandi, sono solo seconde. La palma delle terme più
grandi, spetta alle "terme di Diocleziano", con 150.000 mq, quindici
ettari, di cui oltre quattro spettano esclusivamente all' edificio
dei bagni. D' altra parte gli Imperatori ci tenevano a conquistarsi
le simpatie del popolo, e il popolo si contentava di "panem et
circenses", inteso non come giochi nel circo, ma divertimenti in
ogni senso. E quando uno ha la pancia piena e si diverte, mette da
parte le pene e gli affanni che la vita quotidiana procura.Alle
terme si poteva accedere gratuitamente oppure pagando una
piccolissima moneta (balneaticum) di valore trascurabile.
L' IMPIANTO TERMALE
Attraverso un ingresso si
entrava in un complesso di locali adibiti a spogliatoio (apodyterium).
Qui i clienti, dopo avere lasciato le vesti in appositi vani, si
avviavano in un locale a temperatura moderata (tepidarium). Il
pavimento del "tepidarium" era di solito appoggiato su colonnette di
mattoni (sospensurae) le quali formavano sotto di esso delle cavità
attraverso cui circolava aria calda. Dal "tepidarium" si passava nel
"caldarium" dove gli ospiti si radunavano per fare ginnastica o per
sudare. Questo ambiente era assai più caldo del primo e anche
questo, come il precedente, aveva il pavimento poggiato su
colonnette. Il locale più caldo delle terme era però il "laconicum",
detto anche "sudatorium". Situato direttamente sopra il "praefurnium"
o subito accanto a questo era costituito da un ambiente piuttosto
angusto dove si raggiungevano alte temperature, negli impianti
primitivi per mezzo di un braciere, in quelli dell' epoca di cui si
parla per mezzo dell' aria calda che circolava sotto il pavimento e
lungo le pareti. In questo ambiente si sudava senza bisogno di
compiere sforzi o eseguire esercizi ginnici. Il "praefurnium" era un
piccolo locale posto generalmente all' esterno dell' edificio
termale, ma attiguo allo stesso, dove si accendeva il fuoco. L'
imboccatura del forno vero e proprio, era sistemata davanti alle
colonnette in mattoni che sostenevano il "laconicum". Queste tra
loro, con il pavimento sul quale poggiavano e il soffitto formavano
una camera d' aria, creando un vano chiamato "ypocaustum". Il fuoco
alimentato nel "praefurnium" dal personale addetto, lambiva il
pavimento del "laconicum", allungando le sue fiamme tra le
colonnette dell' "ypocaustum" risalendo poi, attraverso le
intercapedini delle pareti, verso il tetto. Spesso nello spessore
delle pareti venivano incassati dei "tubuli" in laterizio, a sezione
rettangolare, che aiutavano il tiraggio e l' espulsione dei fumi.
Dopo un' abbondante sudata sollecitata nel "laconicum" o nel "caldarium",
il bagnante ripassava al "tepidarium" nel quale spesso si trovavano
ampi catini (labra) contenenti acqua tiepida con la quale poteva
fare abluzioni e sostare un poco per consentire al corpo il graduale
ritorno alla naturale temperatura poi, se voleva, si avviava verso
il "frigidarium". Era questo un locale più o meno ampio a secondo
dell' importanza e della grandezza delle terme, fornito di una vasca
contenente acqua fredda, dove i clienti più coraggiosi si
immergevano, sedendosi su dei gradini o nuotando come in piscina,
per rinvigorire e tonificare le membra e facilitare la circolazione.
E proprio nella reazione circolatoria, provocata dalla alternanza di
bagni caldi e freddi, consisteva l' effetto salutare delle pratiche
termali. Generalmente nelle grandi terme, i vari locali si
succedevano in un ordine preciso: apoditerio, tepidario, laconico,
caldario, frigidario, uno di seguito all' altro, di solito
snodantisi su un percorso circolare, che alla fine ritornava allo
spogliatoio. Non mancavano naturalmente edifici termali con i locali
sistemati lungo un asse principale formato da un corridoio. Alla
fine delle "pratiche termali", per ritornare allo spogliatoio, si
rifaceva a ritroso il percorso, incontrandosi e scontrandosi con i
clienti che sopraggiungevano. Oltre ai locali sopra descritti,
facevano parte dell' impianto termale, particolarmente degli
impianti più grandi, altri locali costituiti da: palestre per il
gioco della palla (sphaeristerium), sale di riunione per i
giocatori, stanze di attesa, ristoranti, empori, botteghe di
barbieri (tonsor), profumieri, speziali, venditori di dolciumi. Vi
erano ancora giardini con piante esotiche e fontane, vialetti con
siepi di fiori, biblioteche, portici per passeggiate, saloni per
convegni e tutto ciò che poteva rendere piacevole un pomeriggio in
compagnia. E' interessante e curioso, rileggere quanto scriveva
Seneca "il filosofo", precettore e consigliere di Nerone, a
proposito di quanto succedeva nel bagno durante le ore di apertura:
....."Abito proprio sopra un bagno pubblico; immaginati un vocio, un
gridare in tutti i toni che ti fa desiderare di essere sordo; sento
il mugolio di coloro che si esercitano coi manubri, emettono sibili
e respirano affannosamente. Se qualcuno se ne sta buono a farsi fare
un massaggio, sento il picchio della mano sulla spalla, e un colpo
diverso a seconda che il colpo è dato con la mano piatta o incavata.
Quando poi viene uno di quelli che non può giocare a palla se non
grida, e incomincia a contare i colpi a voce alta, è finita. C' è
anche l' attaccabrighe, il ladro colto sul fatto, il chiacchierone
che quando parla sta a sentire il suono della sua voce; e quelli che
fanno il tuffo nella vasca per nuotare, mentre l' acqua spruzza
rumorosamente da tutte le parti. Ma per lo meno questi mettono fuori
la voce che è la loro. Pensa al depilatore che ogni poco fa un verso
in falsetto per offrirti i suoi servizi; e non sta zitto che quando
strappa i peli a qualcuno, ma allora strilla chi gli sta sotto.
Centinaia di schiavi solerti provvedono a trasportare fascine e
ciocchi di legna e a tenere accesi i fuochi, Altri schiavi scivolano
silenziosi come ombre nella densa nebbia, portando pile di
asciugamani o anforette d' olio profumato per i massaggi. Amici
allegri e burloni, si salutano a gran voce da un capo all' altro
della sala, tra il vapore denso dei bagni. Venditori di salsicce,
focacce e noci, vantano la loro merce, mentre furfanti temerari,
approfittando della confusione, cercano di allontanarsi in fretta
con un bel mucchio di vestiti, sollevando un putiferio da non dire:
inseguimenti, pugni, imprecazioni. Un gran chiasso, se vuoi, ma
dalle terme si esce risanati". E, con il suo spirito acuto di
osservatore, ironizzava sui "pancioni" che si sottoponevano a
pratiche quotidiane di massaggi per dimagrire, consigliandoli, per
perdere un po' di grasso, di provare a lavorare.
L' EDIFICIO
TERMALE DI VADA
L' edificio termale
riportato alla luce a Vada, in località "San Gaetano", nella
campagna di scavi da me diretta (19751979), anche se di modeste
dimensioni era, per quanto si è potuto intuire dalla disposizione
dei locali riportati alla luce, costruito secondo le regole indicate
da Caio Sergio Orata, per le terme di Capua e Bagnoli. Orata, famoso
per i suoi ricchi allevamenti di ostriche nel lago Lucrino, vissuto
tra la fine del II e l' inizio del I secolo a.C. a Baia, non avrebbe
fatto altro che ricreare artificialmente, il fenomeno delle
"fumarole" dei "Campi Flegrei" vicino a Napoli, riuscendo a
raggiungere con questo sistema, temperature superiori ai 30 gradi
arrivando talvolta fino a 60° mantenendole costantemente elevate
grazie allo strato d' aria calda che si formava nelle intercapedini.
Il sistema, perfezionato, si diffuse rapidamente e venne adottato
pressoché in tutti gli edifici termali dell' impero. In base ai
resti degli impianti venuti alla luce e ai dati da essi emersi,
cerchiamo di ipotizzare, con le informazioni a nostra disposizione,
quale sia stata la loro possibile destinazione e il loro presumibile
impiego. Il complesso termale, secondo le nostre supposizioni,
doveva trovarsi in prossimità della zona portuale. La strada di
accesso alle terme era sicuramente porticata. Noi però possiamo
solamente azzardare l' ipotesi per il lato Sud ovest, quello cioè,
verso il mare, lungo il quale sono stati rinvenuti plinti di
basamento delle colonne. Sotto i portici, dove si affacciavano gli
ingressi di varie botteghe, si trovava anche l' ingresso delle
terme. Questo era costituito da un atrio largo cinque metri e lungo
undici, attraverso il quale si accedeva ad uno spazio a forma di
esedra, con probabili funzioni di "solarium" o "gymnasium",
delimitato da un ampio porticato semicircolare con un diametro di
poco superiore ai venti metri e, dalla facciata delle terme. Il
porticato, chiuso esternamente da un muro, era sostenuto
internamente da colonne che si affacciavano verso il "solarium".
Internamente il muro del porticato doveva essere affrescato con
disegni a colori molto vivaci, come dimostrano i frammenti di
intonaco ritrovati durante gli scavi. Questo loggiato semicircolare,
che senza dubbio serviva per passeggiare, conversando con gli amici
(deambulatorium), era sopraelevato rispetto al piano del "solarium"
di quarantaquarantacinque centimetri (circa un piede e mezzo), e vi
si accedeva tramite due "gradoni" in pietra disposti tutto intorno
alla circonferenza interna dell' esedra, i quali, potevano servire
all' occorrenza, anche da sedili. Sul davanti dell' edificio
termale, si trovava un marciapiede con una canaletta che
probabilmente aveva la funzione di convogliare le acque piovane
nella cloaca principale, situata esternamente al complesso termale.
L' ingresso all' edificio che ospitava le terme era costituito da un
piccolo ambiente, che quasi sicuramente fungeva anche da spogliatoio
(apodyterium), e da questo, attraverso porte diverse, si accedeva ai
vari locali del bagno. Una conduceva nel "laconicum" sotto il cui
pavimento si trovava il "praefurnium", da un' altra si accedeva al "tepidarium",
un' altra ancora la collegava al "frigidarium". Il "laconicum" era
un piccolo ambiente, quadrato, di appena tre metri di lato,
probabilmente con dei sedili lungo le pareti, ma trovandosi
direttamente situato sopra il "praefurnium" ed essendo il luogo
destinato all' essudazione, provocata solo dall' alta temperatura e
non compiendo esercizi fisici, le dimensioni erano più che
sufficienti per raggiungere lo scopo. Il secondo ambiente preso in
esame, è il locale da noi individuato come "caldarium", di forma
rettangolare, con i lati rispettivamente di sei e quattro metri,
chiuso sul lato minore da un' "abside" con un diametro di poco
inferiore ai quattro metri. Nella parte "absidata", erano situati
quasi certamente i catini (labra) contenenti acqua calda che i
clienti usavano per lavacri e abluzioni. Il pavimento era ricoperto
con lastre di laterizio di forma quadrata di circa 45 cm di lato (un
piede e mezzo). Il pavimento facente parte dell' "abside", quello
dove noi crediamo fossero disposti i catini, era rialzato di una
ventina di centimetri rispetto al pavimento restante costruito in
leggera pendenza verso la parete esterna, nella quale era praticato
un foro per lo scolo delle acque sgocciolate per terra durante i
lavacri. L' interpretazione dell' uso di questo ambiente, ci
richiese un po' di fantasia, in quanto la parte centrale del
pavimento del "caldarium" presentava, scavato nel centro, un pozzo
circolare, profondo circa due metri con le pareti costruite con
pietre, alcune delle quali squadrate e cementate tra loro. Il fondo
di questo pozzo, era pavimentato con laterizio e lungo le pareti si
rilevarono delle colature di materiale fuso invetriato, segno
evidente che le stesse erano state esposte ad un forte calore. Tutto
questo però, ci convinse che quella buca fosse stata scavata ed
usata dopo il definitivo abbandono del luogo, come "calcara", cioè
come fornace per produrre calce, ricavandola cuocendo i marmi che
ornavano le terme. L' ultimo ambiente preso in esame, il "frigidarium",
era formato da una piccola vasca, profonda circa 80 cm, e delle
dimensioni di metri 3 per 2. Su uno dei lati più lunghi, due
gradini, permettevano a quattro o cinque persone di sedere per il
bagno. Le pareti e i gradini, erano rivestiti in marmo, mentre il
pavimento era ricoperto da mosaico bianco. Una porta sulla destra
dell' ingresso serviva da accesso ad un' altra struttura molto
simile a quella già descritta, e probabilmente con le stesse
funzioni, costruita in epoca o epoche successive, quando, per l'
invecchiamento forse, fu abbandonata la primitiva struttura, oppure
perché l' aumento dei frequentatori, aveva reso necessario l'
ampliamento dei locali. Anche questa nuova struttura aveva
sicuramente uno o più locali adibiti a "caldarium" e probabilmente
un "laconicum". Di certo, in questa parte che chiameremo "nuova",
abbiamo identificato il "praefurnium" e un "caldarium" piuttosto
ampio. Queste due fasi di costruzione si possono facilmente
individuare osservando la diversità dei materiali impiegati. Delle
pareti, o del tetto di copertura di tutto il complesso, non c' è
rimasta traccia, tuttavia la grande quantità di tessere per mosaico
multicolore, in pasta vitrea, rinvenute durante lo scavo, ci
consentono di ipotizzare la presenza di una struttura con pareti e
soffitti ricoperti da mosaici policromi. Intorno a questa sorsero
certamente altre costruzioni, che dettero l' avvio, non diciamo alla
città perché questa aveva già raggiunto una sua importanza, ma ad
una serie di servizi evidenziati da alberghi, empori, botteghe,
laboratori, i quali spesso diventano un polo importante per il
commercio al minuto e l' economia di una zona. L' edificio termale
da noi riportato alla luce a Vada, probabilmente, non era né l'
unico né il solo dei "Vada volaterrana", perché secondo il nostro
parere, in una città che si estendeva per sette o otto ettari, ben
altre dovevano esere le strutture che la completavano.
RITROVAMENTI DI
MATERIALE MINUTO DURANTE LO SCAVO
Prima di parlare dei
materiali minuti, venuti alla luce durante lo scavo archeologico di
Vada, riteniamo indispensabile accennare anche al rinvenimento dei
resti di edifici che costituivano, insieme al tutto il resto, una
parte, sicuramente la più importante, dei "Vada volaterrana". L'
edificio termale di cui abbiamo parlato nel paragrafo precedente,
era circondato da costruzioni le quali, probabilmente, formavano il
nucleo del complesso di edifici, pubblici e privati, che ospitavano
quei servizi necessari sia alla vita della città, che alle stesse
terme. Queste costruzioni erano costituite da una serie di grandi
ambienti rettangolari delle dimensioni di 5 metri per 11, che si
affacciavano, come abbiamo già accennato, sotto il portico posto sul
lato a mare della via delle terme. Durante lo scavo da noi eseguito,
non è stato possibile accertare se anche l' altro lato fosse
porticato o meno. Quanto rimane in piedi di queste costruzioni, ci
ha permesso però, di farci un' idea della tecnica costruttiva usata
particolarmente in quel periodo. Sopra i muri di fondazione, larghi
circa quattro piedi (metri 1,20), e profondi quasi altrettanto,
(90120 cm), venivano innalzate le pareti portanti costruite con
"conci" in arenaria di dimensioni abbastanza omogenee, e materiale
laterizio. Questi conci venivano murati su due file, perfettamente
allineate e distanti tra loro circa due piedi (60 cm), in modo tale
che tra una fila e l' altra, rimanesse internamente un certo spazio.
Il vuoto interno che ne risultava veniva riempito con materiale
minuto, pietre, frammenti di laterizio, scarti di fornace, inclusi
pezzi di anfore. Questa tecnica prendeva il nome di "opus quadratum".
Ogni quattro o cinque file di conci, per ritrovare l' allineamento
orizzontale del manufatto, si provvedeva inserendo due o tre file di
laterizi. La copertura poteva essere ad "arco a tutto sesto", oppure
a "sesto ribassato" o a "doppio spiovente", ma più probabilmente, a
"spiovente unico", la cosiddetta "copertura a capanna", molto più
facile da costruire e più veloce da realizzare. In questi locali, al
momento dello scavo, non fu rinvenuta alcuna pavimentazione, se si
eccettuano piccoli settori negli angoli o vicino alle pareti, dove
ancora si conservavano residui del pavimento originario in
cocciopesto, (una tecnica consistente nel "gettare" malta mischiata
a laterizio frantumato e poi spianato e lisciato con arenaria).
Questo ci persuase che, nel momento di maggiore frequentazione della
zona, questi locali fossero, non solo tutti pavimentati, ma
probabilmente intonacati e forniti di tutte le comodità, per
renderli più accoglienti. A quale attività fossero realmente adibiti
i locali, lo possiamo soltanto immaginare, partendo però da un dato
concreto, il rinvenimento di un cospicuo numero di oggetti dello
stesso tipo, interi o frammentati, in certi ambienti, piuttosto che
in altri. Uno di questi locali, per esempio, ci fa pensare ad un
emporio, dove si poteva trovare di tutto. "Dall' ago al milione", si
direbbe oggi. E proprio in questo locale si sono ritrovati aghi in
osso e in bronzo, in quantità esagerata, sia per cucire che per
capelli, i cosiddetti "aghi crinali"; oppure dadi per gioco; 120
lucerne, intere o frammentate; chiodi in bronzo di varie fogge e
dimensioni. Oltre a questo, nello stesso stanzone, si rinvennero
frammenti di alcune decine, o meglio, di alcune centinaia di coppe,
piatti, ciotole, in "terra sigillata"; frammenti di calici e ampolle
in vetro; vasetti in ceramica grigia, uniforme, sottile, insieme a
centinaia di monete in bronzo e decine di monete in argento. Abbiamo
accennato alla "terra sigillata", e riteniamo indispensabile, dare
un piccolo chiarimento di questo termine. Con il vocabolo "terra
sigillata", termine che abbraccia tutta la ceramica sigillata
prodotta in Italia per il periodo che va più o meno, dalla fine del
I sec. a.C., alla fine del I d.C. (età flavia), si voleva
inizialmente indicare la ceramica ricavata da matrici decorate all'
interno per mezzo di punzoni. La sigillata infatti veniva prodotta
in serie per mezzo di matrici, la cui decorazione era ovviamente in
negativo, e alle cui pareti l' argilla veniva fatta aderire per
mezzo del tornio, mentre il piede e, spesso anche l' orlo, venivano
modellati a parte. Attualmente, per convenzione, col termine
"sigillata italica" si intende anche la produzione cosiddetta
liscia, che non veniva cioè, prodotta per mezzo di matrici, ma
semplicemente lavorata al tornio senza figure in rilievo. A volte a
questa ceramica così lavorata, venivano aggiunte delle decorazioni a
rilievo, lavorate a mano o ottenute con uno stampo e poi applicate
con una mistura di argilla fluida-liquida, con tecnica definita "a
la barbotiné". Non è accertato se in questo locale venisse prodotta
questa "terra sigillata", come in un primo momento la scoperta di un
pozzo all' interno di un magazzino ce lo aveva fatto supporre, ma
sicuramente se ne commerciava. Anche a proposito dei manufatti in
vetro, frammentati, rinvenuti nei "magazzini" o "botteghe", c'è da
aggiungere che in una zona, unita all' edificio termale, furono
rinvenuti molti frammenti di vetro in lastre, messi uno sull' altro,
alcuni dei quali sufficientemente grandi da farci ipotizzare l'
esistenza nel luogo di una vetreria per la produzione di questo
articolo. E' ammissibile che questa lavorazione vi sia stata
iniziata in epoca molto tarda, forse anche medioevale, ma rimane il
fatto inconfutabile che, durante gli scavi, sia stato trovato vetro
in abbondanza. Sarebbe stato auspicabile e anche molto più semplice
se i resti fossero stati rinvenuti su terreno vergine, ma purtroppo
l' area dei ritrovamenti era stata sconvolta dallo scasso per
precedenti colture. Del resto, anche il Targioni Tozzetti che, come
abbiamo veduto all' inizio, visitò questa zona verso la prima metà
del 1700, osservando la sabbia e:... l' "aliga rammucchiata dal
vento sulla spiaggia", suggerì di utilizzare sia la sabbia come
materiale siliceo, che la cenere dell' "aliga" come soda, "come
fanno in certe marine d' Inghilterra", per fabbricare "vetro da
bicchieri". In quel periodo, tra le tante ipotesi che si facevano,
ci ritornò alla mente il nome con il quale, secondo la leggenda, era
conosciuta Vada: Valdivetro. Ognuno, naturalmente, è libero di fare
le considerazioni che vuole, la nostra al momento fu questa: Che
fosse una leggenda era fuor di dubbio, ma con una base molto vicina
a fatti reali, altrimenti come avrebbero potuto sussistere tante
coincidenze? Non avrebbe potuto la storia, che i vecchi raccontavano
volentieri, avere subito distorsioni, essere stata gratuitamente
esagerata, ingigantita, gonfiata, proprio per farla apparire più
fantastica, ma avere avuto all' origine un briciolo, un granello di
verità? Anche oggi a dire il vero, se pure siamo certi che non sia
andata come ce la raccontano, e che non ci siano né case né
tantomeno strade sui fondali del "fanale", ci sono alcuni punti
scuri che non siamo riusciti a chiarire, e che ci piacerebbe tanto
che qualcuno ci spiegasse. Durante lo scavo, per esempio, a circa 80
cm di profondità, vennero alla luce migliaia, decine di migliaia, di
conchiglie di un "gasteropode" del genere "Hinia", tipico delle zone
sabbiose e di bassofondo, comuni anche in acque salmastre. Era uno
strato compatto, continuo di conchiglie, e si estendeva sicuramente
per tutta la zona; noi lo trovammo intatto in piccole aree non
manomesse o sconvolte da scassi precedenti, negli ambienti dei
magazzini, nelle terme e fuori di queste, come se questi animali
avessero vissuto in una zona, sommersa dall' acqua, per decine e
decine di anni. E Leandro Alberti, nella sua "Descritione dei luoghi
di Toscana appresso alla marina" non afferma: ..."e più avanti i
Vadi volaterrani da Catone, Plinio, e da Antonino Vada
nominati...onde essendo cheto il mare, alquanti edifici d' esso
nell' acqua marina si vedono"? Non pensiamo che gli "edifici"
citati, l' Alberti li abbia osservati in mare presso il fanale, ma
certamente saranno state le stesse rovine, ora interrate e da noi
riportate alla luce, che in quel tempo egli scorse sommerse nelle
acque dei "vada". E l' acqua che sommergeva quelle rovine, era
sicuramente una parte dell' acqua della laguna che si era formata
mille anni prima. In un altro ambiente, da noi definito "la fucina",
si rinvennero appoggiate in bell' ordine, accanto a una parete, 5
barre di ferro a sezione quadrata, di circa 7 cm di lato e lunghe un
metro. Quasi nel centro del locale, spostato un po' verso la parete
di fondo, i resti di un focolare con accanto un anello di ferro a
sezione quadrata di circa 2 cm di lato. Altri frammenti di ferro
erano sparsi li accanto, e si presentavano come manufatti
semilavorati. In questo locale le monete rinvenute furono un numero
piuttosto esiguo se si eccettuano le oltre 200 recuperate tutte
nello stesso punto, fra resti di cenere e frammenti di un recipiente
di impasto carbonizzati dal fuoco.
LE MONETE
Un discorso a parte merita
il rinvenimento, delle monete, nella zona oggetto delle nostre
indagini. In un' area ampia poco meno di due ettari, sono state
recuperate, sia durante i primi lavori di scasso del 193036, che
nel corso delle dello scavo archeologico, oltre ventimila monete in
bronzo di epoca romana. La zona sottoposta alle indagini prima e
allo scavo poi, era, in quel periodo, coltivata a vigneto e olivi,
salvo una piccola striscia di circa 600 metri quadrati (15x4045
circa) che veniva seminata a rotazione a grano, erbaio o prato, ma
anche in questa parte, era stata tentata tempo prima la coltura a
vigneto poi abbandonata per le difficoltà incontrate nello scasso.
Di monete antiche, nell' area di cui si tratta, ne venivano
rinvenute anche nei tempi passati, ne parla addirittura anche il
Targioni Tozzetti, quando dice: "Da Vada, andando verso il fiume
Fine, si rinvengono nei campi, vestigia di vecchie muraglie, e tra
queste, medaglie di bronzo e anche d' oro". Un signore, persona
degna di fede, dotata di onestà a tutta prova, ora purtroppo
scomparso, il quale all' epoca della trasformazione della zona da
seminativa in vigneto, era contadino a S. Gaetano, ci dichiarò di
avere raccolto, insieme al fratello, nell' arco di sei anni, dal
1930 al 36, oltre "quindicimila" monete, e di averle cedute per
"qualche spicciolo" a un "cenciaio" di Livorno. Ci raccontava delle
cose incredibili, come per esempio di quando suo padre chiedeva a
lui e a suo fratello, dopo una pioggia,di "andare per i campi a
raccattare monete". Anche se "raccattare" o "raccogliere", vuol dire
tirar su da terra, e le monete stavano per terra, in quel caso si
riferiva a raccogliere qualcosa che stava per terra in gran copia, e
non si doveva chiaramente perdere tempo a cercare. E perché dopo una
pioggia? Perché le monete, dopo una pioggia, neppure molto violenta,
(e noi lo possiamo confermare), rimangono alla sommità di
piccolissimi coni di terra che si formano sul terreno, sotto di
esse, e si possono individuare con facilità. Noi, per quanto ci
riguarda, nelle cinque campagne di scavo, dal 1975 al 79, durante le
quali abbiamo esplorato circa 2000 metri quadrati di terreno, (1/5
di ettaro), di monete ne abbiamo rinvenute oltre cinquemila, delle
quali leggibili e attribuibili con sicurezza, solo un 1012%, un
altro 20% ancora abbastanza leggibili ma di attribuzione incerta, il
rimanente illeggibili o quasi. Un attento studio di queste monete,
prendendo in considerazione soltanto quelle rinvenute durante lo
scavo, decifrate e assegnabili con sicurezza, non potendo
controllare per ovvie ragioni le altre ormai perdute, ci permette di
ipotizzare quale sia stato il periodo di maggiore frequentazione
della zona. Le monete rinvenute abbracciano un periodo di circa56
secoli, dal I secolo a.C., al V inizio VI d.C. I rinvenimenti di
monete di età repubblicana I sec. a.C., tra le circa 600 leggibili,
sono una ventina (3%), le monete del III sec. d.C. un centinaio,
con prevalenza di quelle del II sec. (1516%), circa ottanta quelle
del III sec. (13%). La parte del leone con circa il 60% tocca però
alle monete della prima metà del IV secolo, particolarmente numerose
quelle di Costantino Magno e dei suoi discendenti. Il rimanente 89%
va assegnata al V sec. comprese quattro o cinque dell' inizio VI.
Questo considerando solamente le monete leggibili. Se poi,
confrontando le misure e i pesi, si prendono in esame, azzardando
magari un po', tutte le monete rinvenute, prevalgono quelle del V
secolo. Immaginando una inflazione (rilevata particolarmente dalla
misura piuttosto piccola e dal peso molto ridotto delle monete) ed
essendo conseguentemente diminuito il potere di acquisto, di moneta
in quel periodo ne doveva circolare molta. Ma qualsiasi
giustificazione si voglia cercare, rimane sempre incomprensibile,
non tanto il rinvenimento di monete appartenenti ad epoche diverse,
quanto il motivo del loro rilevante numero. Accettando l' ipotesi
dell' inflazione e perciò di una grande quantità denaro liquido
circolante e, presupponendo per la stessa ragione, lo scarso valore
dato agli "spiccioli", era pur sempre denaro e, non si capisce la
causa o la ragione che sembrerebbe avere spinto i cittadini a
gettarlo, perché tale era l' impressione che se ne ricavava, nelle
ricognizioni effettuate nella zona durante lo scavo. Sembrava
proprio che gli abitanti di Vada, non avessero altro passatempo che
quello di buttare i soldi al vento. Ma probabilmente l' abbandono
dei beni è da ricercarsi in un allontanamento in massa dalla città,
in una rotta precipitosa e improvvisa, tanto da costringerli a
lasciare tutto per cercare di salvare almeno la vita. Forse un
improvviso attacco di pirati al porto e alle difese portuali?
oppure, vista la coincidenza del periodo del probabile abbandono
della zona, (VVI sec d.C.), l' avanzata di orde barbariche dal
Nord, (Goti, Visigoti, Ostrogoti, Longobardi). All' inizio del V
secolo i Visigoti guidati da Alarico, assediarono Roma, e la presero
per fame saccheggiandola. E non è che il primo dei tanti tristi
episodi in questo secolo. Verso la metà del V secolo, per fermare le
orde dei Goti che marciavano alla conquista di Roma, una grande
battaglia si scatenò nella pianura di fronte a Rosignano, tanto che
Pietro Vigo, parafrasando Dante, vuole "il Fine colorato di rosso".
E Vada si trovò sicuramente coinvolta in questa battaglia. La via
Aurelia, quella via di penetrazione verso l' occidente, costruita
secoli prima, quella via lungo la quale erano transitate immense
ricchezze e preziose merci verso Roma, quella via percorsa dagli
eserciti romani, guidati alla conquista del mondo, diventava ora un
"boomerang", una strada già pronta per "barbari" per riprendersi
quanto i legionari di Roma avevano conquistato. E lungo questa
strada, si trovava Vada. Gli invasori, da qualsiasi parte
provenissero, dal mare o dal centro Europa, davano poca importanza
alle monete, se queste non erano d' oro o d' argento. Non si
curavano affatto dei "tesori" rappresentati da monete di bronzo che
gli sventurati fuggiaschi erano stati costretti ad abbandonare. Del
resto anche i consoli romani, al ritorno da guerre di conquista,
alla testa delle loro legioni, durante la celebrazione del
"trionfo", esibivano per le vie imperiali carri colmi d' oro e d'
argento, d' avorio e di sete, e di tutto ciò che ritenevano prezioso
e di cui si erano impadroniti, soprattutto prigionieri che potevano
rivendere come schiavi. Qualche volta mostravano anche armi in
bronzo, o scudi, ma il loro amore per questo metallo o lega che
fosse, si fermava qui. Le monete in bronzo dei popoli sottomessi, se
mai le avessero possedute, erano considerate di nessun valore. E'
probabile, che dopo l' invasione o le invasioni, perché potrebbero
essere state più di una, e le distruzioni che certamente ne
seguirono, sia accaduto quanto raccontato, in maniera più o meno
fantastica, dalla leggenda. Si sa che le disgrazie non vengono mai
sole. E, se ammettiamo per ipotesi, che le cose siano andate come le
abbiamo immaginate e appena descritte, e che si siano succedute a
distanza di poco tempo l' una dall' altra e, le ipotiziamo accadute
nell' ordine accennato, ben poco rimaneva da fare ai pochi
superstiti, se non fuggire ritirandosi sulle colline vicine in
attesa di tempi migliori per poter ritornare e riprendere le proprie
fatiche. Ma come sempre, i tempi migliori sono lunghi a venire. La
città distrutta e ormai quasi inghiottita dalle acque che non
accennavano a ritirarsi, i campi divenuti improduttivi, la malaria
che incombeva sempre più dappresso. E più il tempo passava e più i
ricordi si affievolivano, fino a scomparire, e della città e della
sua storia, non rimase traccia se non nella "leggenda".
LENTA RIPRESA DELLE ATTIVITA'
Forse, fu soltanto all'
inizio del VII secolo, quando i Longobardi che già occupavano gran
parte della pianura Padana, dell' Umbria e della Toscana estesero la
loro influenza lungo la costa tirrenica che la vita attiva riprese
nuovamente a pulsare in quelle zone. Con il dominio e l' egemonia
longobarda, si prospettava un periodo di calma ed una organizzazione
militare stabile, che ispirava una certa fiducia, perciò vi fu una
timida ripresa dei commerci, uno sviluppo dell' agricoltura e dell'
allevamento del bestiame, specialmente quello suino. Lentamente,
faticosamente, con estrema prudenza, anche a Vada, i primi coloni,
ricominciarono a coltivare queste terre, come veri e propri
"pionieri", trascinandosi dietro i primi mercanti che diventarono
per necessità anche marinai. Molto contribuì alla ripresa dei
commerci, anche la vicinanza di un' importante arteria come l'
Aurelia. La città stava riprendendo nuovo vigore, con la costruzione
di nuovi edifici, ed è forse in questo periodo e in questo contesto
che si deve inquadrare la preparazione della "calcara" che abbiamo
visto scavata nell' edificio termale, e che molto probabilmente
venne impiegata per produrre calce utilizzando i marmi delle terme
stesse, ormai inutili avanzi di una dimenticata, passata opulenza.
Come sottofondo per il selciato di nuove strade, si impiegarono vari
materiali reperibili sul posto, dai laterizi ai ciotoli di fiume,
dai pezzi di marmo delle terme ai frammenti di anfore e vasi. Di
questa pavimentazione, ottenuta con l' utilizzazione di materiale di
ogni specie, ne abbiamo riportati alla luce diversi tratti,
specialmente nella zona delle terme. E' probabile che in quel tempo,
l' economia cittadina si indirizzasse anche verso nuove attività, e
che una di queste, fosse la produzione del vetro. Non crediamo sia
del tutto sbagliato pensare che le lastre di vetro, rinvenute
durante lo scavo dell' edificio termale, appartengano al periodo di
questa nuova utilizzazione dell' edificio stesso. Ne abbiamo già
parlato nel paragrafo dedicato ai "materiali minuti", riferendoci
anche al suggerimento dato dal Targioni Tozzetti sull' impiego della
sabbia e della cenere dell' "aliga", pensando che l' autore abbia
trattato l' argomento, forse anche per avere rinvenuto nella zona
notevoli quantità di vetro. Non dimentichiamoci del leggendario
toponimo di Valdivetro. Della presenza dei Longobardi nella zona, ne
abbiamo una dimostrazione nelle due "arche" (sarcofagi) in pietra
rinvenute nella zona di San Gaetano ed ora conservate nel parco
della fattoria "Il pino" di Vada, di proprietà del conte
MelzColloredo. Queste "arche", di accertata tipologia longobarda,
riteniamo venisero usate per seppellire i morti all' interno di
Basiliche, o quanto meno, in terra consacrata nelle immediate
adiacenze della Basilica stessa. Questo ci farebbe supporre per quel
periodo, siamo verso l' VIII secolo, la presenza a Vada di una
comunità abbastanza numerosa e l' esistenza, per lo meno nel
territorio, di una Chiesa di una certa importanza. Ai Longobardi
succedettero i Franchi. E' in questo periodo di transizione che le
scorrerie dei pirati aumentarono di numero (probabilmente l' attuale
via delle Saracine, non è che una corruzione del nome antico della
zona in ricordo di quei tristi periodi), tanto da consigliare alla
popolazione di trovare rifugio in luoghi più sicuri, forse
addirittura sul colle di Rosignano o sulle colline circostanti. E
poi ha inizio l' avvicendarsi delle dominazioni delle "Repubbliche
Marinare" che, alternandosi al potere con i vari principati, hanno
caratterizzato l' assetto politico di tutto il periodo medievale.
Vada, fino a quel periodo legata probabilmente all' "ager
volterranus", passò a poco a poco sotto la giurisdizione di Pisa.
Non si sa bene quando questo accadde, ma sicuramente prima del 780,
perché un documento, riguardante la donazione di una "Ecclesia SS.
Joannis et Pauli de Vada" alla "Badia di S. Savino" del piano di
Pisa, fu rogato proprio in quella data. Ancora il Targioni Tozzetti
ci informa che nell' anno 1043, vi era una "Chiesa dedicata a S.
Giovanni, col titolo di Pieve", di conseguenza si può ipotizzare
che, almeno in quel periodo, il luogo era abitato. Nel 1075, o nel
1079, gli storici su questo punto non sono molto d' accordo,
comunque in quegli anni, vi si accamparono per qualche tempo i
genovesi, finché furono costretti dai pisani, i quali avevano
assediato Rapallo, a tornarsene a Genova. Ritornarono però con
numerose navi e una nuova armata nel 1126 e, distrussero Vada
mettendola "a ferro e fuoco". L' Imperatore Corrado II, con un suo
Diploma, nell' anno 1138 confermò alla Chiesa pisana "Placitum et
fodrum de Vada et ogni terra o ogni cosa di sua pertinenza". Pisa,
che in questo periodo stava incrementando la sua influenza nel
Mediterraneo, assumendo sempre più importanza come "Repubblica
marinara", si servì del porto di Vada sia per spedizioni militari
che per quelle mercantili, e verso la fine del XIII secolo, circa
1280, iniziò la costruzione di un faro "sulla secca di Val di Vetro,
che indicasse di notte ai marinari il pericolo dell' arrenare, e
qual' era la bocca del porto". E' molto probabile che questo
"fanale" non sia mai stato portato a compimento e, indubbiamente,
saranno i resti di questa costruzione, avvistati dai pescatori sulla
secca, che hanno contribuito a far nascere la "leggenda di
Valdivetro". In diverse "rubriche" dei vari "libri" e "statuti", si
parla di Vada e dei lavori fatti per il suo porto e per migliorare
la viabilità delle sue strade, e si concedono molte esenzioni e
privilegi a chi "anderà ad abitare a Vada". Anche se dal periodo
Longobardo in poi si assiste ad una ripresa, questa indubbiamente fu
molto lenta. L' economia stentava a decollare per una serie di cose,
non ultime le scorribande che pirati saraceni, come abbiamo visto,
effettuavano quasi giornalmente lungo tutta la fascia costiera, a
dispetto delle "repubbliche marinare" la malaria che imperversava in
quelle zone paludose e malsane, i vari mutamenti politici cui erano
costretti, loro malgrado, gli abitanti della zona. Il cambiamento di
indirizzo politico, cui fu obbligato il governo di Pisa alla morte
del Conte Ugolino, e l' allentamento dei controlli sui territori
extraurbani, favorì il tentativo del Conte Inghiramo di Biserno per
la conquista di Vada, che tuttavia dovette nuovamente restituire ai
pisani nel 1287. Tra alterne vicissitudini e vari passaggi diciamo,
di proprietà, guerre guerreggiate, scaramucce, saccheggi, beghe
varie, sempre fra potenti prepotenti e, chi era prepotente ma non
ancora sufficientemente potente, si giunge all' inizio del XV
secolo. Nell' anno 1405 Vada fu presa a forza da truppe fiorentine
comandate da "Sforza Attendolo da Cutignola", il quale, nel 1431, si
"sottomesse a Niccolò Piccinino, generale del Duca di Milano". I
fiorentini la riebbero poi, nella pace del 1433. Nel 1452, nel mese
di Dicembre, fu assediata dall' armata di Ladislao re di Napoli, che
riuscì a conquistarla grazie al tradimento del castellano, il quale
si vendette per danaro, ma i fiorentini la riconquistarono il 26
Ottobre dell' anno seguente. Prima di lasciare Vada però, le truppe
napoletane lasciate dal re di Napoli a guardia del presidio, la
misero a ferro e fuoco, così che i fiorentini constatata l'
inopportunità di una ricostruzione delle fortificazioni, fecero
radere al suolo quanto era rimasto. E' questa, secondo gli storici,
la vera causa della desolazione e dell' abbandono definitivo di
Vada. Quanto accaduto in seguito, sotto il dominio dei Lorena, dal
XVIII secolo ad oggi, dall' inizio delle bonifiche agli
appresellamenti, è storia troppo recente e conosciuta, perché se ne
debba ulteriormente parlare.
BIBLIOGRAFIA
Alberti
Leandro:Descrizione dei luoghi di Toscana appresso alla maremma.
(1550) Agostini Dino: Diari di scavo dell' "Edificio termale di
Vada" (Rosignano 1979) Boni Cuaz Gianna: Vita quotidiana a Roma; Vol
II Vita sociale. (Loescher editore To 1963) Castorina Emanuele:
Claudio Rutilio Namaziano, De redito suo. (Sansoni Fi 1967) Di Capua
Francesco: Appunti sull' origine e sviluppo delle terme romane.
(Arti Grafiche Na 1940) Fricher Parini Janna: L' Aurelia, più che
una strada un fiume d' oro. (Historia, industrie grafiche. Cino Del
Duca, Ma Gennaio 1973) De Luca Serena: Sigillata Italica rinvenuta
nello scavo di edifici romani a Vada. (Museo Civico di Rosignano
M/mo 1980) Levi Mario Attilio: Roma antica. (U.T.E.T. To 1963)
Pifferi P. (Abate): Viaggio antiquario per la via Aurelia, da
Livorno a Roma. (Roma 1831) Riccioni Giuliana: La ceramica romana da
mensa in Italia. La Terra Sigillata: origini e principali
produzioni. (Quaderni 1982) Sant' Agostino: Le confessioni. (B.U.R.
Mi) Targioni Tozzetti Giovanni: Relazioni d' alcuni viaggi fatti in
diverse parti della Toscana. (Stamperia granducale Fi1770) Vigo
Pietro: Monografia di Rosignano e dintorni. (1913)
GLOSSARI
ABSIDE: Struttura architettonica
a pianta semicircolare o poligonale, fornita di volta a catino.
APODITERYUM: Locali delle terme
romane adibiti a spogliatoio. Erano provvisti di mensole ad altezza
d' uomo per riporvi gli indumenti.
ARCA: Sarcofago in pietra,
sepolcro.
ARENARIA: Roccia sedimentaria
costituita da granuli di mica, quarzo, feldspati, cementati entro
una matrice argillosa, calcarea o silicea, usata come materiale da
costruzione.
ARETINA: (Ceramica) Argilla di
colore rosso con cui venivano fabbricati vasi con decorazioni a
rilievo, talvolta applicate.
BALNEATICUM: Moneta di poco
valore usata per ingresso alle terme.
BALNEAE PENSILES: Letteralmente
bagni sospesi: Impianto adottato dai romani per il riscaldamento
degli ambienti. Consisteva nel far circolare sotto il pavimento e
lungo le pareti aria calda proveniente dal PRAEFURNIUM.
BARBOTINE: Termine di
derivazione francese. Consiste in um miscuglio di argilla molto
fluido contenente dal 45 al 55% di acqua, usato per incollare ai
vasi lisci figure in rilievo preparate a parte.
CALDARIUM: Ambiente riscaldato
per prendere il bagno caldo e sudare, nelle antiche terme romane.
CORO: Antico nome del vento di
ponente, maestro.
DEAMBULATORIUM: Ambiente di
passaggio posto lateralmente ad uno o più locali di un edificio.
ESEDRA: Ambiente a forma di
emiciclo destinato a luogo di ritrovo e di conversazione, all'
interno di edifici pubblici e privati di epoca romana.
FIGULINA: Arte del vasaio, arte
della ceramica.
FRIGIDARIUM: Locale delle terme
provvisto di piscina o vasca con acqua fredda dove il bagnante, con
i pori della pelle dilatati dal sudore, si tuffava.
HYPOCAUSTUM: Letteralmente, che
scalda da sotto. Particolare tipo di vespaio formato da un pavimento
di mattoni e calcestruzzo, talvolta con mosaico, poggiato su
pilastrini di mattoni, per permettere all' aria calda proveniente
dal "praefurnium" di circolare sotto di esso. I gas combusti
uscivano attraverso canne fumarie poste lungo i muri che così
venivano anch' essi riscaldati.
LACONICUM: Ambiente delle terme
riscaldato a temperatura molto elevata. Originariamente il
riscaldamento avveniva per mezzo di un braciere, ma dopo l'
invenzione del BALNEAE PENSILES, il locale veniva riscaldato con
aria calda che circolava sotto il pavimento e lungo le pareti in
appositi condotti.
LABRUM = BACILE: Recipiente
adatto a contenere liquidi, per lo più acqua.
OPUS: Termine usato da Vitruvio
per indicare la tipologia costruttiva e strutturale di un edificio:
O.INCERTUM formato elementi litici disposti casualmente.
O.SQUADRATUM murature formate da pietre tagliate e collegate
regolarmente con giunti orizzontali. O.VITTATUM muri formati da
fasce di laterizio alternate a fasce di pietra.
PORTICATO: Luogo aperto a guisa
di loggia, posto intorno o davanti agli edifici, sorretto da colonne
o pilastri.
PORTOLANO: Libro che contiene la
descrizione delle coste e tutte le notizie idrografiche,
meteorologiche, e altri dati utili alla navigazione.
PRAEFURNIUM: Locale dove si
alimentava il fuoco che serviva a riscaldare le terme
SIGILLATA(CERAMICA): Terra
sigillata, caratteristica ceramica prodotta soprattutto nella Gallia
meridionale e centrale nei primi secoli dopo Cristo. Fu copiata
dalla ceramica aretina e fu essa stessa ampiamente imitata. Era una
ceramica rossa con superficie brillante e levigata, decorata
semplicemente o in maniera elaborata per mezzo di matrici. Il nome
sigillata deriva dal timbro (sigillum) col quale il vasaio
frequentemente "firmava" i suoi prodotti. Questa ceramica ha grande
valore archeologico ai fini della datazione, spesso superiore alle
monete.
SUSPENSURAE: Colonnette di
mattoni (quadrati o circolari) sostenenti un pavimento, poste
distanziate tra di loro per permettere la circolazione di aria
calda.
SPHAERISTERIUM: Palestra dove ci
si allenava alla lotta o alla scherma o ci si divertiva giocando
alla palla.
TEPIDARIUM: Stanza con
temperatura moderata. Qui i clienti provenienti dal CALIDARIUM
sostavano per graduare il passaggio di temperatura del corpo prima
di tuffarsi nel frigidarium.
VADUM = GUADO: Tratto di mare o
di fiume o di laguna che si può attraversare toccando il fondo con i
piedi.
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