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			VADA FRA STORIA E LEGGENDA 
			di Dino Agostini 
			
			Vada, conosciuta fin dai tempi 
			antichi come importante centro commerciale e marittimo soprattutto 
			di Volterra, prima etrusca poi romana, ma divenuta con il 
			trascorrere del tempo come il "Carneade manzoniano".ttenuata già dal 
			V secolo la sua rinomanza come porto, indebolita ancora la sua 
			posizione durante il periodo longobardo, scomparsa e dimenticata 
			durante i secoli bui del Medioevo.  
			
			Acquitrini, paludi salmastre, 
			zone malsane, resero quella terra inospitale e il posto, malarico e 
			insicuro. L' Alberti, visitando il luogo verso la metà del XVI sec., 
			vi trova pochi abitanti, poveri e febbricitanti, forse i probabili 
			discendenti di quegli etruschi che per primi abitarono la zona, ed 
			ora costretti, loro malgrado, ad adattarsi quali inconsapevoli 
			conservatori delle vestigia di quella che fu sicuramente una grande 
			città. Anche il Targioni Tozzetti, circa due secoli più tardi, 
			testimonia attraverso i suoi appunti le povere condizioni della zona 
			e la vita grama dei suoi abitanti. 
			
			L' Abate Pifferi, che vi 
			transita nel 1831, non registra un gran mutamento e così, nella 
			"lettera prima", descrive il suo passaggio da Vada: "Da Rossignano 
			discendendo di nuovo alla pianura, ci portammo alla Torre di Vada. 
			Dicevasi quel luogo appunto Vada Volaterrana, perché tutto quel 
			piano era d' ogni intorno paludoso e difficile ad attraversarsi. Ora 
			però è asciuttissimo e sicuro, quantunque il terreno conservi sempre 
			la sua antica apparenza, essendo allo stesso livello del mare 
			"abbondanti masse di alga umida e disseccata rendono difficile l' 
			accesso al mare. Avvi un bastione fatto di quest' erba marina, su 
			cui sono collocati due cannoni, ed a cinquanta passi indietro vedesi 
			la moderna Torre di Vada. Ragionando con alcuni marinai genovesi, 
			che avevano preso pratica del porto a cagione della calma, questi ci 
			dissero che alcuni banchi di sabbia, o secche, che sporgono per 
			lungo tratto di mare, distaccandosi dalla punta orientale del 
			cratere, rendono ivi le navi sicure dalla tempesta, formando quasi 
			un comodo e spazioso porto. La situazione di Vada è ancor paludosa 
			come nei passati tempi, l' aria nell' estate è molto malsana. Quei 
			pochi soldati, che vi trovammo, erano tutti febbricitanti. 
			Immaginatevi, mio caro amico, una pianura di circa 20 miglia di 
			lunghezza e di altrettanta larghezza, piena di vigorosa vegetazione 
			e sparsa solo di qualche capanna, dove abitano i custodi del 
			bestiame, che pascola nella medesima e vi formarete un' idea di 
			questa valle che comincia poco prima di Vada e va fino alla Torre di 
			San Vincenzo".  
			
			Qui termina la "lettera prima" 
			dell' Abate Pifferi, una cronaca piuttosto fedele, anche se ci 
			sorprende un poco che "il luogo asciuttissimo" all' inizio della 
			lettera, diventi "paludoso" quasi in fondo, ma che tuttavia, che ci 
			fa conoscere le tristi condizioni della zona in quel penoso 
			frangente. Vada, riscoperta, se così si può dire, con le bonifiche e 
			gli appresellamenti iniziati verso la fine del XVIII secolo, ha 
			ripreso un nuovo vigore nei primi anni di questo secolo e, come l' 
			Araba Fenice, è risorta dalle sue ceneri. E sono molti, specialmente 
			in questi ultimi anni, che hanno riscoperto la "Vada Volaterrana" o, 
			come ci testimonia la "Tabula Peutingeriana", "Vadis Volateris". 
			Tutto questo interesse si è risvegliato da quando, nel 1958, furono 
			eseguiti i primi saggi archeologici nella zona ad Ovest di Vada, nel 
			podere denominato "San Gaetano", in quella "terra soda e salinosa" 
			posta a monte dello "stagnolo di Ponente", come si evidenzia in una 
			mappa del '700. Indagare sul passato è sempre stato affascinante, 
			quando poi, in questo passato affondano le nostre radici, allora il 
			fascino diventa una vera seduzione che lusinga e strega, e non si 
			può fare a meno di esserne coinvolti. L' interesse nella gente è 
			andato via via crescendo, particolarmente dal 1975 in poi, da quando 
			cioè ebbe inizio quella campagna di scavo che dura tuttora, e che 
			tanto ha contribuito alla divulgazione della storia di Vada tra le 
			popolazioni della zona. Come si giunse però ad effettuare i primi 
			sondaggi, e perché proprio a Vada? Fu una decisione che, visti i 
			risultati, potrebbe apparire semplice, ma che tuttavia si rivelò più 
			complessa del previsto e che impegnò per alcuni anni nello studio e 
			nella ricerca bibliografica un gruppo di appassionati, quelli che 
			per primi gettarono le basi del nascituro Museo Civico di Rosignano 
			Marittimo.                                
			 ARCHEOLOGIA LOCALE E 
			NASCITA DEL MUSEO ARCHEOLOGICO 
			Nel 1954, l' 
			Amministrazione comunale fece eseguire da una ditta dei lavori per 
			la sistemazione dell' acquedotto in via Tripoli e via Asmara in 
			Castiglioncello. I lavori di sterro erano seguiti giornalmente e con 
			il massimo scrupolo, dall' allora vigile sanitario Edilio Massa e da 
			Edolo Corsini, un impiegato dell' Ufficio Tecnico che si interessava 
			specificamente del settore viario del Comune. Tutti e due, ma 
			particolarmente il Massa, erano appassionati dilettanti di 
			archeologia, o meglio, erano affascinati dalle cose del passato. Il 
			Massa si preoccupava del recupero di tangibili testimonianze di 
			civiltà passate, seguendo, nella sua veste di vigile sanitario, ogni 
			lavoro di scavo che l' Amm/ne Comunale o i privati intraprendevano 
			sul territorio. Il Corsini si dedicava, studiando le vecchie "mappe 
			catastali" e indagando sui toponimi, alla ricerca di vecchie strade. 
			Durante il compimento dei lavori, vennero alla luce una quindicina 
			di tombe a pozzetto di epoca etrusca, databili intorno al III-II 
			sec. a. C. Il corredo funebre non era molto ricco e consisteva in 
			alcuni "vasi in impasto", usati per contenere le ceneri del defunto, 
			le cosiddette "olle cinerarie", in piatti a vernice nera, balsamari, 
			orcioli biansati, olpe, oinochoi (vasi da vino) con imboccatura 
			"trilobata" o a "cartoccio", in una spada e una punta di giavellotto 
			in ferro. Poche cose ed oltretutto molto simili a quelle già 
			custodite nel Museo di Castiglioncello, rinvenute in tombe 
			identiche, nei primi anni del secolo durante i lavori per la 
			costruzione della ferrovia Vada-Livorno. Nondimeno queste poche 
			cose, unitamente ad altre recuperate in varie zone del Comune, 
			invogliarono e stimolarono ad una ricerca più accurata sul 
			territorio e fecero nascere l'idea dell'istituzione di un Museo 
			Civico Archeologico, Museo che fu inaugurato e aperto al pubblico 
			nel Giugno del 1955. Chiamarlo Museo fu un po' una presunzione 
			perché "il tutto" consisteva unicamente in una piccola saletta al 
			primo piano dell'edificio del vecchio Comune, nel Castello di 
			Rosignano, dove queste povere cose erano disposte in bell'ordine e 
			ben distanziate tra loro, perché sembrassero più numerose su alcune 
			mensole a muro e in un paio di vetrine. Ma in quella sala c'era, 
			per noi, un campione delle nostre radici, una piccola parte della 
			nostra storia, ma soprattutto c'era il nostro cuore, la garanzia di 
			una scommessa con noi stessi, il nucleo, il seme, il fondamento del 
			futuro museo. Noi eravamo convinti, anzi certi, che il territorio 
			avrebbe offerto ben altro, bastava saper orientare il lavoro di 
			ricerca. Escludendo Castiglioncello, ormai talmente urbanizzato che 
			non ci avrebbe né offerto la possibilità, né consentito una proficua 
			ricerca, restavano nel Comune un discreto numero di altre aree 
			disponibili ad una seria esplorazione. Una collinetta in località 
			"Case nuove" di proprietà del conte Millo, aveva rivelato ad una 
			ricognizione superficiale, resti di strutture di epoca romana, quasi 
			certamente una villa, e anche piuttosto importante. Nel podere "La 
			Villana", di proprietà dei fratelli Banti, erano stati riportati 
			alla luce, oltre ad un tronco di statua in marmo raffigurante una 
			ninfa (divinità minore femminile della mitologia classica), monete 
			in bronzo, mosaici, una serie di frammenti di vasellame in "terra 
			sigillata", frammenti di anfore e residui di fondamenta di edifici, 
			testimonianza di imponenti costruzioni di epoca romana ora 
			distrutte; anche questi, senza ombra di dubbio, resti di una villa. 
			In quei tempi, stando a quanto riportava il Nencini sulla sua 
			"Monografia di Rosignano", si pensava addirittura alla villa di 
			Decio Albino Cecina. Alcune tombe erano state trovate negli anni 
			venti a "PoggiPaoli", sarebbe valsa la pena di una verifica ed una 
			ricerca più accurata, mentre una grande abbondanza di materiale 
			fittile era affiorato negli ultimi tempi a "Grotti", vicino al 
			cimitero, per non dire di decine e decine di altri siti. Poi c'era 
			Vada. Mi ricordai che sul finire degli anni trenta, alcuni miei 
			compagni di scuola, provenienti da Vada, raccontavano in classe cose 
			incredibili, di tesori nascosti, di case sepolte, ossa umane 
			accatastate ai lati dei campi, fatti insomma che accendevano la 
			fantasia di noi ragazzi e ci facevano sognare ad occhi aperti. 
			Specialmente quando una volta uno di loro portò in classe 
			addirittura una moneta, alcuni frammenti di "ceramica" e un paio di 
			denti umani. Avremmo voluto verificare di persona la veridicità di 
			quanto affermavano questi nostri compagni, pungolati da un 
			incontenibile entusiasmo, ma Vada a quei tempi, per noi, era in capo 
			al mondo, le distanze a quel tempo sembravano "più lunghe", e così 
			non ne facemmo di nulla e nessuno ci pensò più. Ma ora i tempi erano 
			cambiati. Esternai (per dirla con una parola ormai entrata nel 
			linguaggio comune) questi ricordi ad alcuni amici e cominciammo così 
			una ricerca bibliografica sulle opere di scrittori latini, a 
			cominciare da Catone, Strabone, Cicerone, Tito Livio, Plinio, in 
			definitiva qualunque scrittore antico avesse menzionato Vada 
			Volaterrana per noi andava bene, diventava una fonte preziosa di 
			informazioni. C' era inoltre il poema del poeta e scrittore Gallolatino Claudio Rutilio Namaziano, "De reditu suo", nel quale il 
			poeta narra di come durante il suo viaggio per mare da Roma in 
			Gallia, nel 417 d.C., abbia fatto scalo al porto di "Vada" per 
			passare una notte nella villa che il "suo Albino", il Prefetto di 
			Roma Decio Albino Cecina, possedeva nella zona. Così descrive l'incerto ingresso della nave nel porto, e la vista che dal porto ebbe 
			della villa, con questi versi:  
			In Volaterranum, vero Vada nomine, 
			tractum  
			Ingressus dubii tramitis alta lego.  
			Despectat prorae custos 
			clavunque sequentem  
			Dirigit et puppim voce monente regit.  
			Incertas 
			gemina discriminat arbore fauces  
			Defixasque offert lines uterque 
			sudes,  
			Illis proceras mos est adnectare lauros  
			Cospicuas rami et 
			fruticante coma,  
			Ut praebente viam densi symplegade limi  
			Servet 
			inoffensas semita clara notas.  
			Illic me rapido consistere Corus 
			adegit,  
			Qualis silvarum frangere lustra solet.  
			Vix tuti domibus 
			saevos toleravimus imbres:  
			Albini patuit proxima villa mei.   
			che 
			tradotti molto liberamente, ma crediamo, abbastanza coerenti e 
			fedeli al testo, dicono pressappoco così: Ora entrato nella zona di 
			Volterra, cui giustamente è nome Vada, percorro dove l'acqua è 
			profonda infido canale. Scruta il fondo dell'acqua il nocchiero a 
			prua e dirige il docile timone, guidando la poppa con ordini a gran 
			voce. L'incerta imboccatura è mostrata da due alberi e l'uno e l' 
			altro limite segnano pali infissi nell'acqua. E' uso legare ad essi 
			alti lauri, che si stagliano all'occhio pei rami e le fitte foglie, 
			perché conservi intatti i segnali un chiaro passaggio, sul fondo 
			compatto di denso limo che pur lascia una via. Là mi costrinse a 
			fermarmi la furia di Coro, qual suole sconvolgere fin nel profondo 
			le selve. Ci riparammo a stento dalle piogge violente, protetti da 
			un' abitazione: A noi s'era aperta, non lungi, la villa del mio 
			Albino.  
			Probabilmente Namaziano è l'ultimo, in ordine cronologico, 
			che abbia visto Vada ancora operosa prima del definitivo declino. 
			Non è questo né il luogo né la sede adatta per discutere dove fosse 
			situata la villa del Senatore Albino Cecina, se, come sostengono 
			alcuni, alle pendici di Rosignano, oppure, come vorrebbero altri, 
			sulla sinistra del Cecina, sempre però in posizione elevata, da 
			dominare le "sottoposte saline", ma interessa attestare che a Vada Volaterrana, nel V secolo, prima che iniziassero le invasioni 
			barbariche, esisteva un porto ancora in discreta efficienza, 
			funzionavano le saline, e i patrizi romani frequentavano ancora le 
			ville che possedevano nei dintorni. Ma ancora, autori più vicini a 
			noi come Leandro Alberti, Giovanni Targioni Tozzetti, Emanuele 
			Repetti, Pietro Vigo, l'Abate Pifferi, ci testimoniano con i loro 
			documenti, gli appunti di viaggio, le lettere, come già abbiamo 
			avuto modo di dire all'inizio, le condizioni di Vada dopo il XVI 
			secolo, vale a dire più di mille anni dopo. Parallelamente alla 
			ricerca bibliografica, si sviluppò una ricerca sondaggio presso i 
			vecchi contadini della zona. Passammo pomeriggi interi a parlare con 
			decine e decine di persone e attraverso i loro racconti, 
			dichiarazioni fatte più spesso a mezza bocca, in un miscuglio di 
			qualche verità e molte fantasticherie, ci convincemmo, sempre 
			cautelandoci con il beneficio d'inventario, che valeva la pena di 
			approfondire le indagini. La nostra convinzione divenne certezza 
			quando qualcuno, dapprima con un po' di reticenza e ritrosia per la 
			verità, ma alla fine con crescente fiducia, ci mostrò alcune monete 
			particolarmente ben conservate e vari altri reperti che aveva 
			trovato durante i lavori di aratura e che custodiva gelosamente come 
			un piccolo "tesoro". Con il passare del tempo, tra noi 
			intervistatori e, gli intervistati, si instaurò un rapporto di 
			amicizia e una tale e tanta familiarità che la confidenza divenne 
			sempre più aperta. Qualcuno anzi consigliò anche noi, di tentare l'avventura, indicandoci la zona dove la sorte ci avrebbe certamente 
			favoriti, in particolare tra i vigneti o vicino agli olivi. Ci 
			rendemmo ben presto conto che quello che a noi sembrava fantastico, 
			a sentirlo raccontare, non era che un insignificante riflesso della 
			realtà. Centinaia di tessere per mosaico in pasta vitrea 
			multicolore, erano sparse sul terreno tra le vigne, chiodi in bronzo 
			di varie dimensioni, dadi per gioco, aghi per cucire in osso e in 
			bronzo, frammenti di ceramica sigillata e monete, molte monete, 
			troppe per la verità. Il podere dove furono fatte queste prime 
			ricognizioni, faceva parte dell'azienda agricola della Società 
			Solvay, la quale si dimostrò disponibilissima, quando glielo 
			chiedemmo, a farci fare un sondaggio esplorativo. La Soprintendenza 
			alle antichità d' Etruria, dietro nostra richiesta, avallata anche 
			da una lettera del sindaco prof. Demiro Marchi, inviò nell'Ottobre 
			del 1957 un suo ispettore, il pro. Giorgio Monaco il quale si rese 
			subito conto dell'importanza dei rinvenimenti, e nel Settembre del 
			1958 fece eseguire il primo sondaggio.                                                            
			VADA 
			La costa a Sud di Livorno, 
			particolarmente il tratto tra il fiume Fine, nel Comune di Rosignano 
			e San Vincenzo è dal punto di vista orografico pianeggiante, poco 
			elevata sul livello del mare e, in certi tratti, addirittura un po' 
			sotto. Il mare spesso si insinua (o quanto meno si insinuava, e 
			questo accadeva nella zona prima della bonifica), per lungo tratto 
			all' interno della costa con lingue che a volte si allargano 
			formando dei veri e propri bacini. In questi bacini il ricambio 
			dell' acqua è assicurato dalle maree e l' acqua all' interno, può 
			essere salata oppure salmastra, specialmente se in questi bacini vi 
			sfociano botri o fossi. Quando poi, per il mutare delle correnti, 
			per forti venti di mare o per decine di altre cause naturali, si 
			accumula sabbia in prossimità della spiaggia, davanti all' 
			imboccatura dei bacini chiudendo il ricambio, in poco tempo il 
			bacino si trasforma in uno stagno, dapprincipio ancora salmastro, ma 
			tendente sempre più a divenire palude. Anticamente, sia queste 
			paludi, che gli stagnoli, o le lagune, tutti non molto profondi in 
			verità, si potevano attraversare tanquillamente a guado, senza 
			bisogno di girarvi intorno. Il guado, ossia un basso fondo, o secca, 
			o banco di sabbia, ovvero un qualsiasi luogo che permetta il 
			passaggio da una riva all' altra di un corso d' acqua, toccando il 
			fondo con i piedi, in latino, si dice: "vadum". Vadum = sostantivo 
			neutro singolare, al plurale diventa "vada". Nella zona, per le 
			ragioni che abbiamo sopra citato, di questi "vadum" dovevano 
			essercene parecchi e perciò tutto il territorio circostante fu 
			identificato con il nome di "vada". Vada Volaterrana, perché la 
			zona, prima di cadere come tutta l' Italia, sotto il dominio di 
			Roma, faceva parte del territorio volterrano, (ager volterranus). E' 
			ovvio e sintomatico perché il nome venga ricordato spesso in 
			relazioni o scritti di autori latini. I viaggiatori i mercanti o 
			chiunque altro avesse avuto necessità di transitare per quelle 
			terre, percorrendo la via Aurelia, correva il rischio, come minimo, 
			in certi periodi, di rimanere impantanato o di dover tornare 
			indietro. Oppure, per chi arrivava dal mare, essere costretto a 
			soggiornare forzatamente sul posto per qualche giorno, fino a che la 
			situazione meteorologica non fosse migliorata. Ma intorno al nome di 
			Vada è nata una fantastica leggenda che, quasi fosse un mito, ha 
			permeato di mistero un racconto che viene ripetuto da tempi remoti, 
			tramandato da padre in figlio.                                                      
			"LEGGENDA DI 
			VADA" 
			Al "bar", durante 
			interminabili partite a carte, tra un "gotto" di vino e una "pipata" 
			di tabacco, o un "mezzo toscano", i vecchi pescatori di Vada amano 
			raccontare la "vera storia" delle origini della loro cittadina e di 
			come è nato il nome. E' gente semplice, come tutta la gente di mare, 
			gente avvezza a giornate passate in solitudine, tra mare e cielo, in 
			compagnia soltanto dei suoi "mestieri" e dei suoi pensieri. E in 
			questa solitudine i pensieri diventano ossessivi, la fantasia un' 
			angoscia ampliata da ancestrali superstizioni. Questa storia che 
			raccontano, tramandandosela come detto, di padre in figlio, ampliata 
			ogni volta con qualche particolare in più, abbellita e 
			infiocchettata secondo la fantasia e l' immaginazione del narratore, 
			è una storia che per loro, con il passare del tempo diventa sempre 
			più "saga" e sempre meno invenzione. Ognuno di loro, specialmente 
			dopo i primi bicchieri, è pronto a giurare sull' autenticità di cose 
			che crede di avere visto o sentito, come strade lastricate e muri di 
			case sul fondo marino, vicino al "fanale"; oppure, in giornate di 
			perfetta bonaccia, un suono di campane. Ecco la storia come me la 
			raccontarono una quarantina di anni fa alcuni pescatori, e che io vi 
			ripropongo, sperando che la memoria non mi tradisca, perché, 
			affascinato dalla narrazione, in quel tempo non prendevo appunti.                                                            
			VALDIVETRO 
			C' era una volta. Tutti, 
			raccontandomela, cominciavano così: c' era una volta...... . C' era 
			una volta, dunque, centinaia e centinaia di anni fa, in questa zona, 
			qui, dove ora si trova Vada, una grande città, così grande che con 
			il suo porto, le sue strade, le sue case, arriva fino al "fanale". 
			La città si chiamava "Valdivetro". Il porto di questa città aveva 
			dei moli lunghi chilometri e ai suoi moli ogni giorno arrivavano e 
			attraccavano centinaia di navi provenienti da tutto il mondo. Con 
			olio, stagno, rame dalla Spagna; stoffe, lana e legno dalla Gallia; 
			grano dall' Africa; marmi dalla Lunigiana; vasi dalla Grecia; ferro 
			dall' Elba; spezie e sete dalle Indie. Valdivetro era piena di gente 
			che lavorava, navigava, commerciava, e si divertiva. C' erano negozi 
			e botteghe artigiane, teatri, terme, banche, lupanari e chiese. (Non 
			ho mai capito se l' accostamento dei due ultimi termini fosse 
			maliziosamente voluto, come a sottolineare che dopo il peccato di 
			lussuria era necessario il ravvedimento, il rimorso il riscatto per 
			poter rimanere in pace con la propria coscienza e riconquistarsi la 
			fiducia negli dei. Anche oggi del resto molti operano nello stesso 
			modo). La vita scorreva quieta e pacifica, ma questa vita troppo 
			spensierata, troppo facile, fece dimenticare ai cittadini il dovere 
			verso gli dei. Era più il tempo passato nelle bettole (tabernae), 
			alle terme e nei bordelli, che non quello dedicato al culto, si 
			concedeva più tempo all' appagamento dei piaceri effimeri, 
			fuggevoli, trascurando lo spirito, dimenticando i templi, 
			tralasciando di sacrificare agli dei, disimparando le preghiere. Ma 
			gli dei non dimenticano, e invidiosi, gelosi e indispettiti dalla 
			trascuratezza della gente di Valdivetro verso di loro, decisero di 
			vendicarsi. Un giorno, nubi gonfie di pioggia cominciarono ad 
			addensarsi all' orizzonte, tutto intorno alla città. Venti impetuosi 
			cominciarono a soffiare dal mare sollevando onde sempre più alte che 
			si abbattevano sui moli, il cielo si oscurò, divenne sempre più nero 
			e cominciò a piovere. Da prima si credette ad una tempesta 
			passeggera, come ce ne erano state in tempi passati, del resto era 
			la stagione delle piogge, ma passavano i giorni e il vento non 
			calmava e pioveva sempre più forte. Le scorte dei viveri stavano per 
			finire, la campagna era allagata e non produceva, navi non ne 
			arrivavano più perché il porto, fino ad allora sicuro e fidato, era 
			diventato rischioso. I moli principiavano a rovinare sotto la spinta 
			delle onde, le navi ormeggiate affondavano come barchette di carta, 
			si preannunciava un tragico evento. Il popolo, sempre più numeroso 
			ora, si raccoglieva nel tempio a pregare. Ora, ci si ricordava dei 
			torti fatti agli dei, ora, si sacrificavano sui loro altari gli 
			ultimi animali rimasti, sperando in una riconciliazione, in una pace 
			impossibile. Però gli dei offesi, voltavano le spalle a Valdivetro. 
			Poi un giorno, tragico, funesto, un popolano fradicio di pioggia, 
			affannato, stremato da una lunga corsa, entrò nel tempio mentre il 
			sacerdote era intento al sacrificio, e con voce rotta dal pianto e 
			dall' emozione, gridò che la furia del mare aveva abbattuto le 
			ultime difese del porto, che onde altissime stavano rovinando sulla 
			città distruggendola, urlò, piangendo e imprecando, che Valdivetro 
			se ne stava andando, che si salvasse chi poteva. Un grido di 
			angoscia e di paura si levò dal popolo raccolto in preghiera, alto 
			il pianto dei bimbi e i lamenti delle donne imploranti. Solo il 
			sacerdote mantenne la calma e rivolto ai fedeli, esortandoli a 
			pregare disse: Che sia fatta la volontà degli dei, se Valdivetro 
			deve andare, vada! Furono queste le ultime parole pronunciate dal 
			sacerdote, prima che tutto venisse sommerso. Ma non tutti perirono 
			in quell' immane sciagura. Alcuni riuscirono miracolosamente a 
			sopravvivere. Quando quella terribile tragedia finì, le acque furono 
			di nuovo calme e il sole tornò a splendere su quelle terre desolate 
			colme di lutti e di rovine, i sopravvissuti alla tragedia si misero 
			al lavoro impegnandosi a far risorgere dalle rovine una nuova città. 
			E con questa volontà, ricordando l' ultima parola pronunciata dal 
			sacerdote prima di morire, giurarono che la città, risorta dalla 
			distruzione e sulle rovine di Valdivetro, si sarebbe chiamata Vada. 
			Questo, più o meno, il racconto che mi hanno fatto molti anni fa gli 
			Olivi, i Giovannelli ed altri vecchi pescatori di Vada, o come 
			alcuni usavano definirli, "i discendenti di quei primi fondatori di 
			Vada, distrutta e risorta mille anni prima di Cristo". E mi 
			promettevano che, "una volta o l' altra", mi avrebbero portato sul 
			posto per: "farti vedere con i tuoi occhi". Purtroppo, una volta 
			perché le acque erano torbe, un' altra perché il tempo non 
			prometteva niente di buono, o altre cose del genere, la promessa non 
			fu mai mantenuta, e ora sono morti. Qualche volta ci sono andato con 
			altri amici, ma probabilmente non abbiamo saputo individuare bene il 
			posto, e non abbiamo visto niente. Peccato! Della leggenda ce ne 
			parla anche il Targioni Tozzetti, nel capitolo sulla "Istoria di 
			Vada", pag 416417. "Hanno favoleggiato alcuni visionari, che sopra 
			Val di Vetro fosse già fabbricata una grossa Terra, o Città, 
			sottoposta ai Volterrani, e detta Tuscinatum, la quale da una 
			inondazione del mare sia stata distrutta ed assorbita. Per rendere 
			verosimile la loro supposizione, dicono che in tempo di calma, sopra 
			Val di Vetro si vedono le rovine di questa Città: io però a bella 
			posta m' informai con molti Pescatori, e Barcaroli, che tutto il 
			giorno praticano questo Mare, e non ho potuto intendere che vi si 
			veda altro che Rena, Piante Marine, e qualche scoglio come alla 
			Meloria, ma raro. Le rovine che hanno dato origine a questa 
			tradizione, sono senza dubbio i fondamenti, ed il principio della 
			Torre per uso di Fanale, che vi fece fabbricare ne' bassi tempi, la 
			Repubblica Pisana".                                                       
			LA VIA AURELIA 
			Fu soltanto verso la metà 
			del III secolo, 241 a.C. che il Console romano Lucio Aurelio Cotta 
			concepì l' idea di unificare, collegandoli tra loro, i vecchi tratti 
			della strada che partivano da Roma in direzione di "Alsium" l' 
			odierna Palo, "Caere" (Cerveteri), e "Cosa" (Ansedonia), facendoli 
			giungere fino a Vada Volaterrana e dando a questa nuova arteria il 
			nome di "via Aurelia". Da Vada la strada continuava poi verso Pisa 
			dove si divideva in due tronconi diretti, uno verso Felsina 
			(Bologna) e il centro Italia e l' altro verso la Gallia e poi la 
			Spagna seguendo il litorale. Il tronco che da Pisa si dirigeva verso 
			la Gallia, raggiunse "Albium Intimilium" Ventimiglia, verso la fine 
			del II secolo a.C. e prese il nome di via "Aemilia Scauri". La 
			lunghezza della via Aurelia fino a Vada Volaterrana era di 190 
			miglia, circa 280 chilometri. Nata come via di penetrazione 
			militare, l' Aurelia operò soprattutto come arteria commerciale, 
			collegando i vari porti sparsi sulla costa a Nord di Roma, con Roma 
			stessa. Anche se di regola, per i commerci, si preferivano le vie 
			marittime scegliendo di effettuare il trasporto delle merci con una 
			nave anziché con carri, in seguito dal porto di arrivo queste 
			dovevano essere trasferite ai mercati, e le strade allora più che 
			necessarie diventavano indispensabili. Il commercio per vie 
			marittime era scelto per varie ragioni; la prima perché la nave 
			poteva trasportare tanto prodotto che per la stessa quantità 
			sarebbero occorsi centinaia di carri, la seconda la velocità di 
			trasporto e questo, specialmente con le merci deperibili, era un 
			vantaggio non trascurabile, la terza ed ultima, se in mare c' erano 
			da considerare la pericolosità delle tempeste o un eventuale assalto 
			di pirati, per via di terra una rapina da parte di banditi era 
			sicura. Questa strada, veniva percorsa ogni giorno da centinaia di 
			carri e da viaggiatori che si muovevano per diporto o per affari, ma 
			sempre, o la maggior parte delle volte, in carovane numerose. Ricchi 
			mercanti romani la pecorrevano per rifornire,con le merci giunte per 
			mare agli scali del litorale, i mercati di Roma; i patrizi romani 
			per trascorrere le vacanze nelle loro ville situate lungo la costa, 
			o nelle ricche fattorie che possedevano, sparse sulle colline 
			toscane o umbre. Anche se per andare in Umbria, passare dalla via 
			Aurelia significava un cammino più lungo, il piacere di godere delle 
			bellezze offerte da un percorso vicino alla costa tirrenica, di un 
			clima più mite, di ospitalità nelle ville di amici, valeva bene la 
			pena di sopportare il sacrificio di un viaggio allungato di qualche 
			giorno, per godere della gioia e della felicità che tale sacrificio 
			poteva procurare. E' lungo questa strada che si trovavano i "Vada 
			volaterrana". Un grande emporio, un porto commerciale, un importante 
			centro di smistamento delle merci che giungevano via mare dalla 
			Spagna, dalla Gallia, dall' Africa e dal Medio Oriente, per il 
			centro ed il nord dell' Italia e oltre. La via Aurelia che partendo 
			da Roma, aveva sin qui seguito più o meno da vicino la costa, 
			toccando tutti i porti, ora se ne staccava, dirigendosi verso l' 
			interno. In questa zona infatti i "vada" e le propaggini dei "monti 
			livornesi" che si spingono fino sul litorale, e che costituiscono un 
			tratto di costa alta e spesso a picco sul mare, solcata 
			trasversalmente da gole piuttosto ripide e profonde, non consentono 
			o meglio, non consentivano un facile superamento delle difficoltà 
			orografiche per la realizzazione di un tracciato agevole come si 
			addiceva ad una strada di transito quale era considerata la via 
			consolare. Allo stesso tempo era facile superare l' ostacolo, 
			spostando il tracciato di qualche miglio verso l' interno allungando 
			il percorso solamente di alcune miglia, ma su terreno quasi 
			completamente pianeggiante, per riprendere il tracciato lungo costa 
			non appena le condizioni fossero state di nuovo favorevoli. Per 
			evitare questi ostacoli, particolarmente i "vada" che i viaggiatori 
			provenienti da Roma cominciavano ad incontrare nella pianura tra San 
			Vincenzo e Cecina, non appena oltrepassato il fiume Cecina, la via 
			Aurelia si spostava più verso l' interno, e dopo avere attraversato 
			il fiume Fine, ai piedi della collina di Rosignano, ne seguiva per 
			un tratto il corso risalendo lungo la riva destra, evitando così 
			oltre ai "vada", anche i "monti livornesi", che sarebbero venuti 
			dopo, e raggiungeva "Porto Pisano". Ma il porto di "Vada" era troppo 
			importante per essere tagliato fuori. La sua rilevanza dal punto di 
			vista commerciale ma, soprattutto militare, non poteva essere 
			ignorata. Per raggiungere il porto di Vada, ormai escluso dalla 
			deviazione dell' Aurelia, i romani sfruttarono il tracciato di una 
			vecchia strada già esistente che collegava Volterra con il suo porto 
			principale. Questa strada poi da Vada, continuava, evitando il 
			percorso litoraneo per le ragioni già dette e, passando per 
			Rosignano Marittimo, la Maestà, la Tagliola, le Serre, Poggio 
			Pelato, Nibbiaia, arrivava al guado sul torrente Chioma. Dopo averlo 
			attraversato si dirigeva verso Montenero da dove raggiungeva poi 
			Salviano e il "trivio d' Aldule". Da qui, dopo il ricongiungimento 
			con il ramo che aveva seguito la vallata del Fine, proseguiva per 
			Porto Pisano, la Versilia, la Liguria. Ma come abbiamo già detto, i 
			"vada" in certi periodi dell' anno non erano agibili, risultando per 
			molti tratti impercorribili e costringendo così i visitatori ad una 
			sosta forzata nella zona. Per questa ragione, tutta la città era 
			stata attrezzata per offrire ai "turisti" ospitalità e conforto. Tra 
			le attrezzature messe a disposizione degli "ospiti", certamente 
			figuravano negozi, osterie, locande, alberghi, teatri, bilblioteche, 
			oltre naturalmente alle terme, in cui poter trascorrere lunghi 
			periodi, distraendosi mentre si aspettavano tempi migliori. Nelle 
			nostre interviste, fatte alla gente del luogo, abbiamo appreso della 
			scoperta nella zona di resti di grandi costruzioni, dei quali 
			purtroppo oggi non resta traccia. Una notizia ci colpì in modo 
			particolare, quella del rinvenimento dei resti di un grande edificio 
			di forma semicircolare, di notevole ampiezza, la cui eliminazione 
			aveva richiesto l' impiego di cariche di esplosivo. Personalmente ho 
			veduto alcuni di questi blocchi che avrebbero, secondo il racconto, 
			formato i gradoni dell' "anfiteatro", erano in arenaria o pietra 
			calcarea, quadrati, di 75 cm di lato ed alti 45 cm circa. 
			(Rapportati alle grandezze di misura del tempo, circa due piedi e 
			mezzo per uno e mezzo) Ma tutte queste testimonianze rimangono solo 
			nella memoria di chi le ha vissute e di chi ce le ha raccontate 
			perché la maggior parte dei ritrovamenti, o si è perduta o è andata 
			distrutta. Unico edificio riportato alla luce, del quale si può 
			"leggere" ancora con sicuro convincimento la funzione e lo scopo al 
			quale era destinato, è l' edificio termale, o meglio, le vestigia 
			che di esso rimangono.                                                  
			LE TERME PRESSO I ROMANI 
			Solamente in epoca 
			abbastanza recente il bagno è diventato un servizio troppo spesso 
			sbrigativo, compiuto con affrettata abitudine. La stanza da bagno è 
			oggi considerata un "annesso" della camera da letto, riservata così 
			più alla pulizia personale, che non alla distensione del corpo e 
			dello spirito. Era questo invece lo scopo principale del bagno, 
			presso i romani. Il cittadino romano, fosse ricco o povero, nobile o 
			plebeo, non effettuava mai una grande pulizia al mattino, appena 
			alzato. Per togliersi il torpore del sonno, immergeva le mani e il 
			viso in acqua fredda, e poi si recava a sbrigare le sue faccende. 
			Questo però non deve trarre in inganno, non si deve credere che il 
			cittadino romano non tenesse all' igiene personale, solo che a 
			questa cura egli riservava le ore centrali della giornata. Il bagno 
			presso i romani, consisteva in un bagno di sudore ottenuto in un 
			ambiente surriscaldato per passare poi, con intermezzi di riposo in 
			locali a calore moderato, in altri ambienti dove effettuavano 
			abluzioni con acqua tiepida o immersioni in acqua fredda, seguite da 
			massaggi e frizioni con oli frofumati e balsamici. C' erano, è vero, 
			anche edifici termali esclusivi per scopi curativi e terapeutici, ma 
			questo non ci sembra il caso delle terme di Vada. Il bagno per il 
			romano, quando, come abbiamo detto,non era fatto a scopo puramente 
			ed esclusivamente curativo, era anche un momento di rilassamento 
			oltre che del corpo, anche dello spirito, e per questo tutti vi 
			dedicavano una cura particolare. "Per liberare l' organismo di tutti 
			quei veleni di cui continuamente vien saturandosi con i cibi malsani 
			e mal digeriti, con le fatiche opprimenti o con le preoccupazioni 
			assillanti. Per espellere dal corpo le malefiche tossine, gli 
			antichi, più che ricorrere a diuretici e affaticare i reni, 
			ricorsero al sudore e a quel grande organo emuntorio che è la 
			pelle". Sant' Agostino, nelle "Confessioni", narra che alla morte 
			della madre avvenuta ad Ostia non pianse, e non pianse nemmeno 
			durante i funerali, il dolore gli si era "serrato nel cuore". Se ne 
			stava mesto e solo e si sentiva impazzire dalla pena. Si ricordò 
			allora del significato etimologico che si dava nelle scuole, alla 
			parola bagno, e si recò alle terme per cercare di liberarsi da 
			quello stato di angoscia che lo opprimeva. (Confessioni, IX 12, 
			2932). Il bagno alle terme però, divenne un' abitudine tanto 
			piacevole e radicata, che in molti cominciarono a farne un uso 
			smodato, prendendo anche cinquesei bagni al giorno, naturalmente 
			seguendo ogni volta le regole canoniche, essudazioni, abluzioni, 
			immersioni in acqua fredda, massaggi. I medici avvertivano con ogni 
			mezzo, dei pericoli a cui erano sottoposti, coloro i quali 
			esageravano in questa abitudine, ma la lapidaria risposta era: "balnea 
			vina venus corrumpunt corpora nostra sed vita faciunt", e cioè, "i 
			bagni il vino l' amore ci mandano in rovina ma fanno bella la vita". 
			Alle terme si ritrovavano tutti: ricchi e poveri, nobili e plebei e, 
			in una grande promiscuità di ceti e di censi si ritempravano, 
			liberando il corpo dagli umori maligni e lo spirito dai cattivi 
			pensieri. Peraltro, alle terme, non si andava solamente per svago, 
			ma anche per incontrare persone con cui discutere di affari, per 
			sollecitare un debitore al pagamento di un vecchio credito, per 
			collocare una partita di merce, per chiedere un prestito, per 
			raccomandare un parente o un amico per un lavoro. Le terme 
			rappresentavano un comodo mezzo per rivolgersi ad una persona senza 
			bisogno di andare a bussare alla sua porta o senza doversi 
			impegnare, scrivendogli una lettera, e d' altra parte non vi era 
			nessun' altra circostanza o occasione nella quale fosse altrettanto 
			facilmente raggiungibile la parità e la confidenza tra uomini che la 
			sorte o le congiunture della vita, dovevano tenere lontani. Le terme 
			erano edifici, o aggregati di edifici costruiti generalmente a spese 
			dello Stato, che vi profondeva a piene mani, quasi senza limiti, 
			sontuosità e grandezza. Abbiamo detto che le terme erano edifici 
			costruiti a spese dello Stato, ma meglio sarebbe dire, fatte 
			edificare dall' Imperatore. Fra i molti edifici termali ce ne erano 
			di modesti di ricchi e di sontuosi. Soltanto a Roma, tra il I e il 
			III secolo d.C. se ne contavano non meno di mille. Tra i più belli 
			basti ricordare le "terme di Nerone", fatte costruire dall' 
			imperatore, dopo l' incendio di Roma, su un' area di 30.000 metri 
			quadrati (tre ettari). Ma queste non sono nulla, se confrontate con 
			le "terme di Traiano", costruite su progetto dell' architetto 
			Apollodoro di Damasco e inaugurate il 22 Giugno del 109 d.C., ampie 
			110.000 metri quadrati. E che dire delle famose "terme di Caracalla" 
			riscoperte ed elevate a nuova gloria in questi ultimi anni? Dotate 
			di tutti i servizi, i più perfetti che a quel tempo si potessero 
			immaginare, sorgevano su un' area di 140.000 mq, ma tuttavia non 
			sono le più grandi, sono solo seconde. La palma delle terme più 
			grandi, spetta alle "terme di Diocleziano", con 150.000 mq, quindici 
			ettari, di cui oltre quattro spettano esclusivamente all' edificio 
			dei bagni. D' altra parte gli Imperatori ci tenevano a conquistarsi 
			le simpatie del popolo, e il popolo si contentava di "panem et 
			circenses", inteso non come giochi nel circo, ma divertimenti in 
			ogni senso. E quando uno ha la pancia piena e si diverte, mette da 
			parte le pene e gli affanni che la vita quotidiana procura.Alle 
			terme si poteva accedere gratuitamente oppure pagando una 
			piccolissima moneta (balneaticum) di valore trascurabile.                                                   
			L' IMPIANTO TERMALE 
			Attraverso un ingresso si 
			entrava in un complesso di locali adibiti a spogliatoio (apodyterium). 
			Qui i clienti, dopo avere lasciato le vesti in appositi vani, si 
			avviavano in un locale a temperatura moderata (tepidarium). Il 
			pavimento del "tepidarium" era di solito appoggiato su colonnette di 
			mattoni (sospensurae) le quali formavano sotto di esso delle cavità 
			attraverso cui circolava aria calda. Dal "tepidarium" si passava nel 
			"caldarium" dove gli ospiti si radunavano per fare ginnastica o per 
			sudare. Questo ambiente era assai più caldo del primo e anche 
			questo, come il precedente, aveva il pavimento poggiato su 
			colonnette. Il locale più caldo delle terme era però il "laconicum", 
			detto anche "sudatorium". Situato direttamente sopra il "praefurnium" 
			o subito accanto a questo era costituito da un ambiente piuttosto 
			angusto dove si raggiungevano alte temperature, negli impianti 
			primitivi per mezzo di un braciere, in quelli dell' epoca di cui si 
			parla per mezzo dell' aria calda che circolava sotto il pavimento e 
			lungo le pareti. In questo ambiente si sudava senza bisogno di 
			compiere sforzi o eseguire esercizi ginnici. Il "praefurnium" era un 
			piccolo locale posto generalmente all' esterno dell' edificio 
			termale, ma attiguo allo stesso, dove si accendeva il fuoco. L' 
			imboccatura del forno vero e proprio, era sistemata davanti alle 
			colonnette in mattoni che sostenevano il "laconicum". Queste tra 
			loro, con il pavimento sul quale poggiavano e il soffitto formavano 
			una camera d' aria, creando un vano chiamato "ypocaustum". Il fuoco 
			alimentato nel "praefurnium" dal personale addetto, lambiva il 
			pavimento del "laconicum", allungando le sue fiamme tra le 
			colonnette dell' "ypocaustum" risalendo poi, attraverso le 
			intercapedini delle pareti, verso il tetto. Spesso nello spessore 
			delle pareti venivano incassati dei "tubuli" in laterizio, a sezione 
			rettangolare, che aiutavano il tiraggio e l' espulsione dei fumi. 
			Dopo un' abbondante sudata sollecitata nel "laconicum" o nel "caldarium", 
			il bagnante ripassava al "tepidarium" nel quale spesso si trovavano 
			ampi catini (labra) contenenti acqua tiepida con la quale poteva 
			fare abluzioni e sostare un poco per consentire al corpo il graduale 
			ritorno alla naturale temperatura poi, se voleva, si avviava verso 
			il "frigidarium". Era questo un locale più o meno ampio a secondo 
			dell' importanza e della grandezza delle terme, fornito di una vasca 
			contenente acqua fredda, dove i clienti più coraggiosi si 
			immergevano, sedendosi su dei gradini o nuotando come in piscina, 
			per rinvigorire e tonificare le membra e facilitare la circolazione. 
			E proprio nella reazione circolatoria, provocata dalla alternanza di 
			bagni caldi e freddi, consisteva l' effetto salutare delle pratiche 
			termali. Generalmente nelle grandi terme, i vari locali si 
			succedevano in un ordine preciso: apoditerio, tepidario, laconico, 
			caldario, frigidario, uno di seguito all' altro, di solito 
			snodantisi su un percorso circolare, che alla fine ritornava allo 
			spogliatoio. Non mancavano naturalmente edifici termali con i locali 
			sistemati lungo un asse principale formato da un corridoio. Alla 
			fine delle "pratiche termali", per ritornare allo spogliatoio, si 
			rifaceva a ritroso il percorso, incontrandosi e scontrandosi con i 
			clienti che sopraggiungevano. Oltre ai locali sopra descritti, 
			facevano parte dell' impianto termale, particolarmente degli 
			impianti più grandi, altri locali costituiti da: palestre per il 
			gioco della palla (sphaeristerium), sale di riunione per i 
			giocatori, stanze di attesa, ristoranti, empori, botteghe di 
			barbieri (tonsor), profumieri, speziali, venditori di dolciumi. Vi 
			erano ancora giardini con piante esotiche e fontane, vialetti con 
			siepi di fiori, biblioteche, portici per passeggiate, saloni per 
			convegni e tutto ciò che poteva rendere piacevole un pomeriggio in 
			compagnia. E' interessante e curioso, rileggere quanto scriveva 
			Seneca "il filosofo", precettore e consigliere di Nerone, a 
			proposito di quanto succedeva nel bagno durante le ore di apertura: 
			....."Abito proprio sopra un bagno pubblico; immaginati un vocio, un 
			gridare in tutti i toni che ti fa desiderare di essere sordo; sento 
			il mugolio di coloro che si esercitano coi manubri, emettono sibili 
			e respirano affannosamente. Se qualcuno se ne sta buono a farsi fare 
			un massaggio, sento il picchio della mano sulla spalla, e un colpo 
			diverso a seconda che il colpo è dato con la mano piatta o incavata. 
			Quando poi viene uno di quelli che non può giocare a palla se non 
			grida, e incomincia a contare i colpi a voce alta, è finita. C' è 
			anche l' attaccabrighe, il ladro colto sul fatto, il chiacchierone 
			che quando parla sta a sentire il suono della sua voce; e quelli che 
			fanno il tuffo nella vasca per nuotare, mentre l' acqua spruzza 
			rumorosamente da tutte le parti. Ma per lo meno questi mettono fuori 
			la voce che è la loro. Pensa al depilatore che ogni poco fa un verso 
			in falsetto per offrirti i suoi servizi; e non sta zitto che quando 
			strappa i peli a qualcuno, ma allora strilla chi gli sta sotto. 
			Centinaia di schiavi solerti provvedono a trasportare fascine e 
			ciocchi di legna e a tenere accesi i fuochi, Altri schiavi scivolano 
			silenziosi come ombre nella densa nebbia, portando pile di 
			asciugamani o anforette d' olio profumato per i massaggi. Amici 
			allegri e burloni, si salutano a gran voce da un capo all' altro 
			della sala, tra il vapore denso dei bagni. Venditori di salsicce, 
			focacce e noci, vantano la loro merce, mentre furfanti temerari, 
			approfittando della confusione, cercano di allontanarsi in fretta 
			con un bel mucchio di vestiti, sollevando un putiferio da non dire: 
			inseguimenti, pugni, imprecazioni. Un gran chiasso, se vuoi, ma 
			dalle terme si esce risanati". E, con il suo spirito acuto di 
			osservatore, ironizzava sui "pancioni" che si sottoponevano a 
			pratiche quotidiane di massaggi per dimagrire, consigliandoli, per 
			perdere un po' di grasso, di provare a lavorare.                                               
			L' EDIFICIO 
			TERMALE DI VADA 
			L' edificio termale 
			riportato alla luce a Vada, in località "San Gaetano", nella 
			campagna di scavi da me diretta (19751979), anche se di modeste 
			dimensioni era, per quanto si è potuto intuire dalla disposizione 
			dei locali riportati alla luce, costruito secondo le regole indicate 
			da Caio Sergio Orata, per le terme di Capua e Bagnoli. Orata, famoso 
			per i suoi ricchi allevamenti di ostriche nel lago Lucrino, vissuto 
			tra la fine del II e l' inizio del I secolo a.C. a Baia, non avrebbe 
			fatto altro che ricreare artificialmente, il fenomeno delle 
			"fumarole" dei "Campi Flegrei" vicino a Napoli, riuscendo a 
			raggiungere con questo sistema, temperature superiori ai 30 gradi 
			arrivando talvolta fino a 60° mantenendole costantemente elevate 
			grazie allo strato d' aria calda che si formava nelle intercapedini. 
			Il sistema, perfezionato, si diffuse rapidamente e venne adottato 
			pressoché in tutti gli edifici termali dell' impero. In base ai 
			resti degli impianti venuti alla luce e ai dati da essi emersi, 
			cerchiamo di ipotizzare, con le informazioni a nostra disposizione, 
			quale sia stata la loro possibile destinazione e il loro presumibile 
			impiego. Il complesso termale, secondo le nostre supposizioni, 
			doveva trovarsi in prossimità della zona portuale. La strada di 
			accesso alle terme era sicuramente porticata. Noi però possiamo 
			solamente azzardare l' ipotesi per il lato Sud ovest, quello cioè, 
			verso il mare, lungo il quale sono stati rinvenuti plinti di 
			basamento delle colonne. Sotto i portici, dove si affacciavano gli 
			ingressi di varie botteghe, si trovava anche l' ingresso delle 
			terme. Questo era costituito da un atrio largo cinque metri e lungo 
			undici, attraverso il quale si accedeva ad uno spazio a forma di 
			esedra, con probabili funzioni di "solarium" o "gymnasium", 
			delimitato da un ampio porticato semicircolare con un diametro di 
			poco superiore ai venti metri e, dalla facciata delle terme. Il 
			porticato, chiuso esternamente da un muro, era sostenuto 
			internamente da colonne che si affacciavano verso il "solarium". 
			Internamente il muro del porticato doveva essere affrescato con 
			disegni a colori molto vivaci, come dimostrano i frammenti di 
			intonaco ritrovati durante gli scavi. Questo loggiato semicircolare, 
			che senza dubbio serviva per passeggiare, conversando con gli amici 
			(deambulatorium), era sopraelevato rispetto al piano del "solarium" 
			di quarantaquarantacinque centimetri (circa un piede e mezzo), e vi 
			si accedeva tramite due "gradoni" in pietra disposti tutto intorno 
			alla circonferenza interna dell' esedra, i quali, potevano servire 
			all' occorrenza, anche da sedili. Sul davanti dell' edificio 
			termale, si trovava un marciapiede con una canaletta che 
			probabilmente aveva la funzione di convogliare le acque piovane 
			nella cloaca principale, situata esternamente al complesso termale. 
			L' ingresso all' edificio che ospitava le terme era costituito da un 
			piccolo ambiente, che quasi sicuramente fungeva anche da spogliatoio 
			(apodyterium), e da questo, attraverso porte diverse, si accedeva ai 
			vari locali del bagno. Una conduceva nel "laconicum" sotto il cui 
			pavimento si trovava il "praefurnium", da un' altra si accedeva al "tepidarium", 
			un' altra ancora la collegava al "frigidarium". Il "laconicum" era 
			un piccolo ambiente, quadrato, di appena tre metri di lato, 
			probabilmente con dei sedili lungo le pareti, ma trovandosi 
			direttamente situato sopra il "praefurnium" ed essendo il luogo 
			destinato all' essudazione, provocata solo dall' alta temperatura e 
			non compiendo esercizi fisici, le dimensioni erano più che 
			sufficienti per raggiungere lo scopo. Il secondo ambiente preso in 
			esame, è il locale da noi individuato come "caldarium", di forma 
			rettangolare, con i lati rispettivamente di sei e quattro metri, 
			chiuso sul lato minore da un' "abside" con un diametro di poco 
			inferiore ai quattro metri. Nella parte "absidata", erano situati 
			quasi certamente i catini (labra) contenenti acqua calda che i 
			clienti usavano per lavacri e abluzioni. Il pavimento era ricoperto 
			con lastre di laterizio di forma quadrata di circa 45 cm di lato (un 
			piede e mezzo). Il pavimento facente parte dell' "abside", quello 
			dove noi crediamo fossero disposti i catini, era rialzato di una 
			ventina di centimetri rispetto al pavimento restante costruito in 
			leggera pendenza verso la parete esterna, nella quale era praticato 
			un foro per lo scolo delle acque sgocciolate per terra durante i 
			lavacri. L' interpretazione dell' uso di questo ambiente, ci 
			richiese un po' di fantasia, in quanto la parte centrale del 
			pavimento del "caldarium" presentava, scavato nel centro, un pozzo 
			circolare, profondo circa due metri con le pareti costruite con 
			pietre, alcune delle quali squadrate e cementate tra loro. Il fondo 
			di questo pozzo, era pavimentato con laterizio e lungo le pareti si 
			rilevarono delle colature di materiale fuso invetriato, segno 
			evidente che le stesse erano state esposte ad un forte calore. Tutto 
			questo però, ci convinse che quella buca fosse stata scavata ed 
			usata dopo il definitivo abbandono del luogo, come "calcara", cioè 
			come fornace per produrre calce, ricavandola cuocendo i marmi che 
			ornavano le terme. L' ultimo ambiente preso in esame, il "frigidarium", 
			era formato da una piccola vasca, profonda circa 80 cm, e delle 
			dimensioni di metri 3 per 2. Su uno dei lati più lunghi, due 
			gradini, permettevano a quattro o cinque persone di sedere per il 
			bagno. Le pareti e i gradini, erano rivestiti in marmo, mentre il 
			pavimento era ricoperto da mosaico bianco. Una porta sulla destra 
			dell' ingresso serviva da accesso ad un' altra struttura molto 
			simile a quella già descritta, e probabilmente con le stesse 
			funzioni, costruita in epoca o epoche successive, quando, per l' 
			invecchiamento forse, fu abbandonata la primitiva struttura, oppure 
			perché l' aumento dei frequentatori, aveva reso necessario l' 
			ampliamento dei locali. Anche questa nuova struttura aveva 
			sicuramente uno o più locali adibiti a "caldarium" e probabilmente 
			un "laconicum". Di certo, in questa parte che chiameremo "nuova", 
			abbiamo identificato il "praefurnium" e un "caldarium" piuttosto 
			ampio. Queste due fasi di costruzione si possono facilmente 
			individuare osservando la diversità dei materiali impiegati. Delle 
			pareti, o del tetto di copertura di tutto il complesso, non c' è 
			rimasta traccia, tuttavia la grande quantità di tessere per mosaico 
			multicolore, in pasta vitrea, rinvenute durante lo scavo, ci 
			consentono di ipotizzare la presenza di una struttura con pareti e 
			soffitti ricoperti da mosaici policromi. Intorno a questa sorsero 
			certamente altre costruzioni, che dettero l' avvio, non diciamo alla 
			città perché questa aveva già raggiunto una sua importanza, ma ad 
			una serie di servizi evidenziati da alberghi, empori, botteghe, 
			laboratori, i quali spesso diventano un polo importante per il 
			commercio al minuto e l' economia di una zona. L' edificio termale 
			da noi riportato alla luce a Vada, probabilmente, non era né l' 
			unico né il solo dei "Vada volaterrana", perché secondo il nostro 
			parere, in una città che si estendeva per sette o otto ettari, ben 
			altre dovevano esere le strutture che la completavano.                                
			RITROVAMENTI DI 
			MATERIALE MINUTO DURANTE LO SCAVO 
			Prima di parlare dei 
			materiali minuti, venuti alla luce durante lo scavo archeologico di 
			Vada, riteniamo indispensabile accennare anche al rinvenimento dei 
			resti di edifici che costituivano, insieme al tutto il resto, una 
			parte, sicuramente la più importante, dei "Vada volaterrana". L' 
			edificio termale di cui abbiamo parlato nel paragrafo precedente, 
			era circondato da costruzioni le quali, probabilmente, formavano il 
			nucleo del complesso di edifici, pubblici e privati, che ospitavano 
			quei servizi necessari sia alla vita della città, che alle stesse 
			terme. Queste costruzioni erano costituite da una serie di grandi 
			ambienti rettangolari delle dimensioni di 5 metri per 11, che si 
			affacciavano, come abbiamo già accennato, sotto il portico posto sul 
			lato a mare della via delle terme. Durante lo scavo da noi eseguito, 
			non è stato possibile accertare se anche l' altro lato fosse 
			porticato o meno. Quanto rimane in piedi di queste costruzioni, ci 
			ha permesso però, di farci un' idea della tecnica costruttiva usata 
			particolarmente in quel periodo. Sopra i muri di fondazione, larghi 
			circa quattro piedi (metri 1,20), e profondi quasi altrettanto, 
			(90120 cm), venivano innalzate le pareti portanti costruite con 
			"conci" in arenaria di dimensioni abbastanza omogenee, e materiale 
			laterizio. Questi conci venivano murati su due file, perfettamente 
			allineate e distanti tra loro circa due piedi (60 cm), in modo tale 
			che tra una fila e l' altra, rimanesse internamente un certo spazio. 
			Il vuoto interno che ne risultava veniva riempito con materiale 
			minuto, pietre, frammenti di laterizio, scarti di fornace, inclusi 
			pezzi di anfore. Questa tecnica prendeva il nome di "opus quadratum". 
			Ogni quattro o cinque file di conci, per ritrovare l' allineamento 
			orizzontale del manufatto, si provvedeva inserendo due o tre file di 
			laterizi. La copertura poteva essere ad "arco a tutto sesto", oppure 
			a "sesto ribassato" o a "doppio spiovente", ma più probabilmente, a 
			"spiovente unico", la cosiddetta "copertura a capanna", molto più 
			facile da costruire e più veloce da realizzare. In questi locali, al 
			momento dello scavo, non fu rinvenuta alcuna pavimentazione, se si 
			eccettuano piccoli settori negli angoli o vicino alle pareti, dove 
			ancora si conservavano residui del pavimento originario in 
			cocciopesto, (una tecnica consistente nel "gettare" malta mischiata 
			a laterizio frantumato e poi spianato e lisciato con arenaria). 
			Questo ci persuase che, nel momento di maggiore frequentazione della 
			zona, questi locali fossero, non solo tutti pavimentati, ma 
			probabilmente intonacati e forniti di tutte le comodità, per 
			renderli più accoglienti. A quale attività fossero realmente adibiti 
			i locali, lo possiamo soltanto immaginare, partendo però da un dato 
			concreto, il rinvenimento di un cospicuo numero di oggetti dello 
			stesso tipo, interi o frammentati, in certi ambienti, piuttosto che 
			in altri. Uno di questi locali, per esempio, ci fa pensare ad un 
			emporio, dove si poteva trovare di tutto. "Dall' ago al milione", si 
			direbbe oggi. E proprio in questo locale si sono ritrovati aghi in 
			osso e in bronzo, in quantità esagerata, sia per cucire che per 
			capelli, i cosiddetti "aghi crinali"; oppure dadi per gioco; 120 
			lucerne, intere o frammentate; chiodi in bronzo di varie fogge e 
			dimensioni. Oltre a questo, nello stesso stanzone, si rinvennero 
			frammenti di alcune decine, o meglio, di alcune centinaia di coppe, 
			piatti, ciotole, in "terra sigillata"; frammenti di calici e ampolle 
			in vetro; vasetti in ceramica grigia, uniforme, sottile, insieme a 
			centinaia di monete in bronzo e decine di monete in argento. Abbiamo 
			accennato alla "terra sigillata", e riteniamo indispensabile, dare 
			un piccolo chiarimento di questo termine. Con il vocabolo "terra 
			sigillata", termine che abbraccia tutta la ceramica sigillata 
			prodotta in Italia per il periodo che va più o meno, dalla fine del 
			I sec. a.C., alla fine del I d.C. (età flavia), si voleva 
			inizialmente indicare la ceramica ricavata da matrici decorate all' 
			interno per mezzo di punzoni. La sigillata infatti veniva prodotta 
			in serie per mezzo di matrici, la cui decorazione era ovviamente in 
			negativo, e alle cui pareti l' argilla veniva fatta aderire per 
			mezzo del tornio, mentre il piede e, spesso anche l' orlo, venivano 
			modellati a parte. Attualmente, per convenzione, col termine 
			"sigillata italica" si intende anche la produzione cosiddetta 
			liscia, che non veniva cioè, prodotta per mezzo di matrici, ma 
			semplicemente lavorata al tornio senza figure in rilievo. A volte a 
			questa ceramica così lavorata, venivano aggiunte delle decorazioni a 
			rilievo, lavorate a mano o ottenute con uno stampo e poi applicate 
			con una mistura di argilla fluida-liquida, con tecnica definita "a 
			la barbotiné". Non è accertato se in questo locale venisse prodotta 
			questa "terra sigillata", come in un primo momento la scoperta di un 
			pozzo all' interno di un magazzino ce lo aveva fatto supporre, ma 
			sicuramente se ne commerciava. Anche a proposito dei manufatti in 
			vetro, frammentati, rinvenuti nei "magazzini" o "botteghe", c'è da 
			aggiungere che in una zona, unita all' edificio termale, furono 
			rinvenuti molti frammenti di vetro in lastre, messi uno sull' altro, 
			alcuni dei quali sufficientemente grandi da farci ipotizzare l' 
			esistenza nel luogo di una vetreria per la produzione di questo 
			articolo. E' ammissibile che questa lavorazione vi sia stata 
			iniziata in epoca molto tarda, forse anche medioevale, ma rimane il 
			fatto inconfutabile che, durante gli scavi, sia stato trovato vetro 
			in abbondanza. Sarebbe stato auspicabile e anche molto più semplice 
			se i resti fossero stati rinvenuti su terreno vergine, ma purtroppo 
			l' area dei ritrovamenti era stata sconvolta dallo scasso per 
			precedenti colture. Del resto, anche il Targioni Tozzetti che, come 
			abbiamo veduto all' inizio, visitò questa zona verso la prima metà 
			del 1700, osservando la sabbia e:... l' "aliga rammucchiata dal 
			vento sulla spiaggia", suggerì di utilizzare sia la sabbia come 
			materiale siliceo, che la cenere dell' "aliga" come soda, "come 
			fanno in certe marine d' Inghilterra", per fabbricare "vetro da 
			bicchieri". In quel periodo, tra le tante ipotesi che si facevano, 
			ci ritornò alla mente il nome con il quale, secondo la leggenda, era 
			conosciuta Vada: Valdivetro. Ognuno, naturalmente, è libero di fare 
			le considerazioni che vuole, la nostra al momento fu questa: Che 
			fosse una leggenda era fuor di dubbio, ma con una base molto vicina 
			a fatti reali, altrimenti come avrebbero potuto sussistere tante 
			coincidenze? Non avrebbe potuto la storia, che i vecchi raccontavano 
			volentieri, avere subito distorsioni, essere stata gratuitamente 
			esagerata, ingigantita, gonfiata, proprio per farla apparire più 
			fantastica, ma avere avuto all' origine un briciolo, un granello di 
			verità? Anche oggi a dire il vero, se pure siamo certi che non sia 
			andata come ce la raccontano, e che non ci siano né case né 
			tantomeno strade sui fondali del "fanale", ci sono alcuni punti 
			scuri che non siamo riusciti a chiarire, e che ci piacerebbe tanto 
			che qualcuno ci spiegasse. Durante lo scavo, per esempio, a circa 80 
			cm di profondità, vennero alla luce migliaia, decine di migliaia, di 
			conchiglie di un "gasteropode" del genere "Hinia", tipico delle zone 
			sabbiose e di bassofondo, comuni anche in acque salmastre. Era uno 
			strato compatto, continuo di conchiglie, e si estendeva sicuramente 
			per tutta la zona; noi lo trovammo intatto in piccole aree non 
			manomesse o sconvolte da scassi precedenti, negli ambienti dei 
			magazzini, nelle terme e fuori di queste, come se questi animali 
			avessero vissuto in una zona, sommersa dall' acqua, per decine e 
			decine di anni. E Leandro Alberti, nella sua "Descritione dei luoghi 
			di Toscana appresso alla marina" non afferma: ..."e più avanti i 
			Vadi volaterrani da Catone, Plinio, e da Antonino Vada 
			nominati...onde essendo cheto il mare, alquanti edifici d' esso 
			nell' acqua marina si vedono"? Non pensiamo che gli "edifici" 
			citati, l' Alberti li abbia osservati in mare presso il fanale, ma 
			certamente saranno state le stesse rovine, ora interrate e da noi 
			riportate alla luce, che in quel tempo egli scorse sommerse nelle 
			acque dei "vada". E l' acqua che sommergeva quelle rovine, era 
			sicuramente una parte dell' acqua della laguna che si era formata 
			mille anni prima. In un altro ambiente, da noi definito "la fucina", 
			si rinvennero appoggiate in bell' ordine, accanto a una parete, 5 
			barre di ferro a sezione quadrata, di circa 7 cm di lato e lunghe un 
			metro. Quasi nel centro del locale, spostato un po' verso la parete 
			di fondo, i resti di un focolare con accanto un anello di ferro a 
			sezione quadrata di circa 2 cm di lato. Altri frammenti di ferro 
			erano sparsi li accanto, e si presentavano come manufatti 
			semilavorati. In questo locale le monete rinvenute furono un numero 
			piuttosto esiguo se si eccettuano le oltre 200 recuperate tutte 
			nello stesso punto, fra resti di cenere e frammenti di un recipiente 
			di impasto carbonizzati dal fuoco.                                                          
			LE MONETE 
			Un discorso a parte merita 
			il rinvenimento, delle monete, nella zona oggetto delle nostre 
			indagini. In un' area ampia poco meno di due ettari, sono state 
			recuperate, sia durante i primi lavori di scasso del 193036, che 
			nel corso delle dello scavo archeologico, oltre ventimila monete in 
			bronzo di epoca romana. La zona sottoposta alle indagini prima e 
			allo scavo poi, era, in quel periodo, coltivata a vigneto e olivi, 
			salvo una piccola striscia di circa 600 metri quadrati (15x4045 
			circa) che veniva seminata a rotazione a grano, erbaio o prato, ma 
			anche in questa parte, era stata tentata tempo prima la coltura a 
			vigneto poi abbandonata per le difficoltà incontrate nello scasso. 
			Di monete antiche, nell' area di cui si tratta, ne venivano 
			rinvenute anche nei tempi passati, ne parla addirittura anche il 
			Targioni Tozzetti, quando dice: "Da Vada, andando verso il fiume 
			Fine, si rinvengono nei campi, vestigia di vecchie muraglie, e tra 
			queste, medaglie di bronzo e anche d' oro". Un signore, persona 
			degna di fede, dotata di onestà a tutta prova, ora purtroppo 
			scomparso, il quale all' epoca della trasformazione della zona da 
			seminativa in vigneto, era contadino a S. Gaetano, ci dichiarò di 
			avere raccolto, insieme al fratello, nell' arco di sei anni, dal 
			1930 al 36, oltre "quindicimila" monete, e di averle cedute per 
			"qualche spicciolo" a un "cenciaio" di Livorno. Ci raccontava delle 
			cose incredibili, come per esempio di quando suo padre chiedeva a 
			lui e a suo fratello, dopo una pioggia,di "andare per i campi a 
			raccattare monete". Anche se "raccattare" o "raccogliere", vuol dire 
			tirar su da terra, e le monete stavano per terra, in quel caso si 
			riferiva a raccogliere qualcosa che stava per terra in gran copia, e 
			non si doveva chiaramente perdere tempo a cercare. E perché dopo una 
			pioggia? Perché le monete, dopo una pioggia, neppure molto violenta, 
			(e noi lo possiamo confermare), rimangono alla sommità di 
			piccolissimi coni di terra che si formano sul terreno, sotto di 
			esse, e si possono individuare con facilità. Noi, per quanto ci 
			riguarda, nelle cinque campagne di scavo, dal 1975 al 79, durante le 
			quali abbiamo esplorato circa 2000 metri quadrati di terreno, (1/5 
			di ettaro), di monete ne abbiamo rinvenute oltre cinquemila, delle 
			quali leggibili e attribuibili con sicurezza, solo un 1012%, un 
			altro 20% ancora abbastanza leggibili ma di attribuzione incerta, il 
			rimanente illeggibili o quasi. Un attento studio di queste monete, 
			prendendo in considerazione soltanto quelle rinvenute durante lo 
			scavo, decifrate e assegnabili con sicurezza, non potendo 
			controllare per ovvie ragioni le altre ormai perdute, ci permette di 
			ipotizzare quale sia stato il periodo di maggiore frequentazione 
			della zona. Le monete rinvenute abbracciano un periodo di circa56 
			secoli, dal I secolo a.C., al V inizio VI d.C. I rinvenimenti di 
			monete di età repubblicana I sec. a.C., tra le circa 600 leggibili, 
			sono una ventina (3%), le monete del III sec. d.C. un centinaio, 
			con prevalenza di quelle del II sec. (1516%), circa ottanta quelle 
			del III sec. (13%). La parte del leone con circa il 60% tocca però 
			alle monete della prima metà del IV secolo, particolarmente numerose 
			quelle di Costantino Magno e dei suoi discendenti. Il rimanente 89% 
			va assegnata al V sec. comprese quattro o cinque dell' inizio VI. 
			Questo considerando solamente le monete leggibili. Se poi, 
			confrontando le misure e i pesi, si prendono in esame, azzardando 
			magari un po', tutte le monete rinvenute, prevalgono quelle del V 
			secolo. Immaginando una inflazione (rilevata particolarmente dalla 
			misura piuttosto piccola e dal peso molto ridotto delle monete) ed 
			essendo conseguentemente diminuito il potere di acquisto, di moneta 
			in quel periodo ne doveva circolare molta. Ma qualsiasi 
			giustificazione si voglia cercare, rimane sempre incomprensibile, 
			non tanto il rinvenimento di monete appartenenti ad epoche diverse, 
			quanto il motivo del loro rilevante numero. Accettando l' ipotesi 
			dell' inflazione e perciò di una grande quantità denaro liquido 
			circolante e, presupponendo per la stessa ragione, lo scarso valore 
			dato agli "spiccioli", era pur sempre denaro e, non si capisce la 
			causa o la ragione che sembrerebbe avere spinto i cittadini a 
			gettarlo, perché tale era l' impressione che se ne ricavava, nelle 
			ricognizioni effettuate nella zona durante lo scavo. Sembrava 
			proprio che gli abitanti di Vada, non avessero altro passatempo che 
			quello di buttare i soldi al vento. Ma probabilmente l' abbandono 
			dei beni è da ricercarsi in un allontanamento in massa dalla città, 
			in una rotta precipitosa e improvvisa, tanto da costringerli a 
			lasciare tutto per cercare di salvare almeno la vita. Forse un 
			improvviso attacco di pirati al porto e alle difese portuali? 
			oppure, vista la coincidenza del periodo del probabile abbandono 
			della zona, (VVI sec d.C.), l' avanzata di orde barbariche dal 
			Nord, (Goti, Visigoti, Ostrogoti, Longobardi). All' inizio del V 
			secolo i Visigoti guidati da Alarico, assediarono Roma, e la presero 
			per fame saccheggiandola. E non è che il primo dei tanti tristi 
			episodi in questo secolo. Verso la metà del V secolo, per fermare le 
			orde dei Goti che marciavano alla conquista di Roma, una grande 
			battaglia si scatenò nella pianura di fronte a Rosignano, tanto che 
			Pietro Vigo, parafrasando Dante, vuole "il Fine colorato di rosso". 
			E Vada si trovò sicuramente coinvolta in questa battaglia. La via 
			Aurelia, quella via di penetrazione verso l' occidente, costruita 
			secoli prima, quella via lungo la quale erano transitate immense 
			ricchezze e preziose merci verso Roma, quella via percorsa dagli 
			eserciti romani, guidati alla conquista del mondo, diventava ora un 
			"boomerang", una strada già pronta per "barbari" per riprendersi 
			quanto i legionari di Roma avevano conquistato. E lungo questa 
			strada, si trovava Vada. Gli invasori, da qualsiasi parte 
			provenissero, dal mare o dal centro Europa, davano poca importanza 
			alle monete, se queste non erano d' oro o d' argento. Non si 
			curavano affatto dei "tesori" rappresentati da monete di bronzo che 
			gli sventurati fuggiaschi erano stati costretti ad abbandonare. Del 
			resto anche i consoli romani, al ritorno da guerre di conquista, 
			alla testa delle loro legioni, durante la celebrazione del 
			"trionfo", esibivano per le vie imperiali carri colmi d' oro e d' 
			argento, d' avorio e di sete, e di tutto ciò che ritenevano prezioso 
			e di cui si erano impadroniti, soprattutto prigionieri che potevano 
			rivendere come schiavi. Qualche volta mostravano anche armi in 
			bronzo, o scudi, ma il loro amore per questo metallo o lega che 
			fosse, si fermava qui. Le monete in bronzo dei popoli sottomessi, se 
			mai le avessero possedute, erano considerate di nessun valore. E' 
			probabile, che dopo l' invasione o le invasioni, perché potrebbero 
			essere state più di una, e le distruzioni che certamente ne 
			seguirono, sia accaduto quanto raccontato, in maniera più o meno 
			fantastica, dalla leggenda. Si sa che le disgrazie non vengono mai 
			sole. E, se ammettiamo per ipotesi, che le cose siano andate come le 
			abbiamo immaginate e appena descritte, e che si siano succedute a 
			distanza di poco tempo l' una dall' altra e, le ipotiziamo accadute 
			nell' ordine accennato, ben poco rimaneva da fare ai pochi 
			superstiti, se non fuggire ritirandosi sulle colline vicine in 
			attesa di tempi migliori per poter ritornare e riprendere le proprie 
			fatiche. Ma come sempre, i tempi migliori sono lunghi a venire. La 
			città distrutta e ormai quasi inghiottita dalle acque che non 
			accennavano a ritirarsi, i campi divenuti improduttivi, la malaria 
			che incombeva sempre più dappresso. E più il tempo passava e più i 
			ricordi si affievolivano, fino a scomparire, e della città e della 
			sua storia, non rimase traccia se non nella "leggenda".                                             
			LENTA RIPRESA DELLE ATTIVITA' 
			Forse, fu soltanto all' 
			inizio del VII secolo, quando i Longobardi che già occupavano gran 
			parte della pianura Padana, dell' Umbria e della Toscana estesero la 
			loro influenza lungo la costa tirrenica che la vita attiva riprese 
			nuovamente a pulsare in quelle zone. Con il dominio e l' egemonia 
			longobarda, si prospettava un periodo di calma ed una organizzazione 
			militare stabile, che ispirava una certa fiducia, perciò vi fu una 
			timida ripresa dei commerci, uno sviluppo dell' agricoltura e dell' 
			allevamento del bestiame, specialmente quello suino. Lentamente, 
			faticosamente, con estrema prudenza, anche a Vada, i primi coloni, 
			ricominciarono a coltivare queste terre, come veri e propri 
			"pionieri", trascinandosi dietro i primi mercanti che diventarono 
			per necessità anche marinai. Molto contribuì alla ripresa dei 
			commerci, anche la vicinanza di un' importante arteria come l' 
			Aurelia. La città stava riprendendo nuovo vigore, con la costruzione 
			di nuovi edifici, ed è forse in questo periodo e in questo contesto 
			che si deve inquadrare la preparazione della "calcara" che abbiamo 
			visto scavata nell' edificio termale, e che molto probabilmente 
			venne impiegata per produrre calce utilizzando i marmi delle terme 
			stesse, ormai inutili avanzi di una dimenticata, passata opulenza. 
			Come sottofondo per il selciato di nuove strade, si impiegarono vari 
			materiali reperibili sul posto, dai laterizi ai ciotoli di fiume, 
			dai pezzi di marmo delle terme ai frammenti di anfore e vasi. Di 
			questa pavimentazione, ottenuta con l' utilizzazione di materiale di 
			ogni specie, ne abbiamo riportati alla luce diversi tratti, 
			specialmente nella zona delle terme. E' probabile che in quel tempo, 
			l' economia cittadina si indirizzasse anche verso nuove attività, e 
			che una di queste, fosse la produzione del vetro. Non crediamo sia 
			del tutto sbagliato pensare che le lastre di vetro, rinvenute 
			durante lo scavo dell' edificio termale, appartengano al periodo di 
			questa nuova utilizzazione dell' edificio stesso. Ne abbiamo già 
			parlato nel paragrafo dedicato ai "materiali minuti", riferendoci 
			anche al suggerimento dato dal Targioni Tozzetti sull' impiego della 
			sabbia e della cenere dell' "aliga", pensando che l' autore abbia 
			trattato l' argomento, forse anche per avere rinvenuto nella zona 
			notevoli quantità di vetro. Non dimentichiamoci del leggendario 
			toponimo di Valdivetro. Della presenza dei Longobardi nella zona, ne 
			abbiamo una dimostrazione nelle due "arche" (sarcofagi) in pietra 
			rinvenute nella zona di San Gaetano ed ora conservate nel parco 
			della fattoria "Il pino" di Vada, di proprietà del conte 
			MelzColloredo. Queste "arche", di accertata tipologia longobarda, 
			riteniamo venisero usate per seppellire i morti all' interno di 
			Basiliche, o quanto meno, in terra consacrata nelle immediate 
			adiacenze della Basilica stessa. Questo ci farebbe supporre per quel 
			periodo, siamo verso l' VIII secolo, la presenza a Vada di una 
			comunità abbastanza numerosa e l' esistenza, per lo meno nel 
			territorio, di una Chiesa di una certa importanza. Ai Longobardi 
			succedettero i Franchi. E' in questo periodo di transizione che le 
			scorrerie dei pirati aumentarono di numero (probabilmente l' attuale 
			via delle Saracine, non è che una corruzione del nome antico della 
			zona in ricordo di quei tristi periodi), tanto da consigliare alla 
			popolazione di trovare rifugio in luoghi più sicuri, forse 
			addirittura sul colle di Rosignano o sulle colline circostanti. E 
			poi ha inizio l' avvicendarsi delle dominazioni delle "Repubbliche 
			Marinare" che, alternandosi al potere con i vari principati, hanno 
			caratterizzato l' assetto politico di tutto il periodo medievale. 
			Vada, fino a quel periodo legata probabilmente all' "ager 
			volterranus", passò a poco a poco sotto la giurisdizione di Pisa. 
			Non si sa bene quando questo accadde, ma sicuramente prima del 780, 
			perché un documento, riguardante la donazione di una "Ecclesia SS. 
			Joannis et Pauli de Vada" alla "Badia di S. Savino" del piano di 
			Pisa, fu rogato proprio in quella data. Ancora il Targioni Tozzetti 
			ci informa che nell' anno 1043, vi era una "Chiesa dedicata a S. 
			Giovanni, col titolo di Pieve", di conseguenza si può ipotizzare 
			che, almeno in quel periodo, il luogo era abitato. Nel 1075, o nel 
			1079, gli storici su questo punto non sono molto d' accordo, 
			comunque in quegli anni, vi si accamparono per qualche tempo i 
			genovesi, finché furono costretti dai pisani, i quali avevano 
			assediato Rapallo, a tornarsene a Genova. Ritornarono però con 
			numerose navi e una nuova armata nel 1126 e, distrussero Vada 
			mettendola "a ferro e fuoco". L' Imperatore Corrado II, con un suo 
			Diploma, nell' anno 1138 confermò alla Chiesa pisana "Placitum et 
			fodrum de Vada et ogni terra o ogni cosa di sua pertinenza". Pisa, 
			che in questo periodo stava incrementando la sua influenza nel 
			Mediterraneo, assumendo sempre più importanza come "Repubblica 
			marinara", si servì del porto di Vada sia per spedizioni militari 
			che per quelle mercantili, e verso la fine del XIII secolo, circa 
			1280, iniziò la costruzione di un faro "sulla secca di Val di Vetro, 
			che indicasse di notte ai marinari il pericolo dell' arrenare, e 
			qual' era la bocca del porto". E' molto probabile che questo 
			"fanale" non sia mai stato portato a compimento e, indubbiamente, 
			saranno i resti di questa costruzione, avvistati dai pescatori sulla 
			secca, che hanno contribuito a far nascere la "leggenda di 
			Valdivetro". In diverse "rubriche" dei vari "libri" e "statuti", si 
			parla di Vada e dei lavori fatti per il suo porto e per migliorare 
			la viabilità delle sue strade, e si concedono molte esenzioni e 
			privilegi a chi "anderà ad abitare a Vada". Anche se dal periodo 
			Longobardo in poi si assiste ad una ripresa, questa indubbiamente fu 
			molto lenta. L' economia stentava a decollare per una serie di cose, 
			non ultime le scorribande che pirati saraceni, come abbiamo visto, 
			effettuavano quasi giornalmente lungo tutta la fascia costiera, a 
			dispetto delle "repubbliche marinare" la malaria che imperversava in 
			quelle zone paludose e malsane, i vari mutamenti politici cui erano 
			costretti, loro malgrado, gli abitanti della zona. Il cambiamento di 
			indirizzo politico, cui fu obbligato il governo di Pisa alla morte 
			del Conte Ugolino, e l' allentamento dei controlli sui territori 
			extraurbani, favorì il tentativo del Conte Inghiramo di Biserno per 
			la conquista di Vada, che tuttavia dovette nuovamente restituire ai 
			pisani nel 1287. Tra alterne vicissitudini e vari passaggi diciamo, 
			di proprietà, guerre guerreggiate, scaramucce, saccheggi, beghe 
			varie, sempre fra potenti prepotenti e, chi era prepotente ma non 
			ancora sufficientemente potente, si giunge all' inizio del XV 
			secolo. Nell' anno 1405 Vada fu presa a forza da truppe fiorentine 
			comandate da "Sforza Attendolo da Cutignola", il quale, nel 1431, si 
			"sottomesse a Niccolò Piccinino, generale del Duca di Milano". I 
			fiorentini la riebbero poi, nella pace del 1433. Nel 1452, nel mese 
			di Dicembre, fu assediata dall' armata di Ladislao re di Napoli, che 
			riuscì a conquistarla grazie al tradimento del castellano, il quale 
			si vendette per danaro, ma i fiorentini la riconquistarono il 26 
			Ottobre dell' anno seguente. Prima di lasciare Vada però, le truppe 
			napoletane lasciate dal re di Napoli a guardia del presidio, la 
			misero a ferro e fuoco, così che i fiorentini constatata l' 
			inopportunità di una ricostruzione delle fortificazioni, fecero 
			radere al suolo quanto era rimasto. E' questa, secondo gli storici, 
			la vera causa della desolazione e dell' abbandono definitivo di 
			Vada. Quanto accaduto in seguito, sotto il dominio dei Lorena, dal 
			XVIII secolo ad oggi, dall' inizio delle bonifiche agli 
			appresellamenti, è storia troppo recente e conosciuta, perché se ne 
			debba ulteriormente parlare.                                                              
			BIBLIOGRAFIA 
			Alberti 
			Leandro:Descrizione dei luoghi di Toscana appresso alla maremma. 
			(1550) Agostini Dino: Diari di scavo dell' "Edificio termale di 
			Vada" (Rosignano 1979) Boni Cuaz Gianna: Vita quotidiana a Roma; Vol 
			II Vita sociale. (Loescher editore To 1963) Castorina Emanuele: 
			Claudio Rutilio Namaziano, De redito suo. (Sansoni Fi 1967) Di Capua 
			Francesco: Appunti sull' origine e sviluppo delle terme romane. 
			(Arti Grafiche Na 1940) Fricher Parini Janna: L' Aurelia, più che 
			una strada un fiume d' oro. (Historia, industrie grafiche. Cino Del 
			Duca, Ma Gennaio 1973) De Luca Serena: Sigillata Italica rinvenuta 
			nello scavo di edifici romani a Vada. (Museo Civico di Rosignano 
			M/mo 1980) Levi Mario Attilio: Roma antica. (U.T.E.T. To 1963) 
			Pifferi P. (Abate): Viaggio antiquario per la via Aurelia, da 
			Livorno a Roma. (Roma 1831) Riccioni Giuliana: La ceramica romana da 
			mensa in Italia. La Terra Sigillata: origini e principali 
			produzioni. (Quaderni 1982) Sant' Agostino: Le confessioni. (B.U.R. 
			Mi) Targioni Tozzetti Giovanni: Relazioni d' alcuni viaggi fatti in 
			diverse parti della Toscana. (Stamperia granducale Fi1770) Vigo 
			Pietro: Monografia di Rosignano e dintorni. (1913)  
			                                                                                            GLOSSARI 
			
			ABSIDE: Struttura architettonica 
			a pianta semicircolare o poligonale, fornita di volta a catino. 
			
			APODITERYUM: Locali delle terme 
			romane adibiti a spogliatoio. Erano provvisti di mensole ad altezza 
			d' uomo per riporvi gli indumenti. 
			
			ARCA: Sarcofago in pietra, 
			sepolcro. 
			
			ARENARIA: Roccia sedimentaria 
			costituita da granuli di mica, quarzo, feldspati, cementati entro 
			una matrice argillosa, calcarea o silicea, usata come materiale da 
			costruzione. 
			
			ARETINA: (Ceramica) Argilla di 
			colore rosso con cui venivano fabbricati vasi con decorazioni a 
			rilievo, talvolta applicate. 
			
			BALNEATICUM: Moneta di poco 
			valore usata per ingresso alle terme. 
			
			BALNEAE PENSILES: Letteralmente 
			bagni sospesi: Impianto adottato dai romani per il riscaldamento 
			degli ambienti. Consisteva nel far circolare sotto il pavimento e 
			lungo le pareti aria calda proveniente dal PRAEFURNIUM. 
			
			BARBOTINE: Termine di 
			derivazione francese. Consiste in um miscuglio di argilla molto 
			fluido contenente dal 45 al 55% di acqua, usato per incollare ai 
			vasi lisci figure in rilievo preparate a parte. 
			
			CALDARIUM: Ambiente riscaldato 
			per prendere il bagno caldo e sudare, nelle antiche terme romane. 
			
			CORO: Antico nome del vento di 
			ponente, maestro. 
			
			DEAMBULATORIUM: Ambiente di 
			passaggio posto lateralmente ad uno o più locali di un edificio. 
			
			ESEDRA: Ambiente a forma di 
			emiciclo destinato a luogo di ritrovo e di conversazione, all' 
			interno di edifici pubblici e privati di epoca romana. 
			
			FIGULINA: Arte del vasaio, arte 
			della ceramica. 
			
			FRIGIDARIUM: Locale delle terme 
			provvisto di piscina o vasca con acqua fredda dove il bagnante, con 
			i pori della pelle dilatati dal sudore, si tuffava. 
			
			HYPOCAUSTUM: Letteralmente, che 
			scalda da sotto. Particolare tipo di vespaio formato da un pavimento 
			di mattoni e calcestruzzo, talvolta con mosaico, poggiato su 
			pilastrini di mattoni, per permettere all' aria calda proveniente 
			dal "praefurnium" di circolare sotto di esso. I gas combusti 
			uscivano attraverso canne fumarie poste lungo i muri che così 
			venivano anch' essi riscaldati. 
			
			LACONICUM: Ambiente delle terme 
			riscaldato a temperatura molto elevata. Originariamente il 
			riscaldamento avveniva per mezzo di un braciere, ma dopo l' 
			invenzione del BALNEAE PENSILES, il locale veniva riscaldato con 
			aria calda che circolava sotto il pavimento e lungo le pareti in 
			appositi condotti. 
			
			LABRUM = BACILE: Recipiente 
			adatto a contenere liquidi, per lo più acqua. 
			
			OPUS: Termine usato da Vitruvio 
			per indicare la tipologia costruttiva e strutturale di un edificio: 
			O.INCERTUM formato elementi litici disposti casualmente. 
			O.SQUADRATUM murature formate da pietre tagliate e collegate 
			regolarmente con giunti orizzontali. O.VITTATUM muri formati da 
			fasce di laterizio alternate a fasce di pietra. 
			
			PORTICATO: Luogo aperto a guisa 
			di loggia, posto intorno o davanti agli edifici, sorretto da colonne 
			o pilastri. 
			
			PORTOLANO: Libro che contiene la 
			descrizione delle coste e tutte le notizie idrografiche, 
			meteorologiche, e altri dati utili alla navigazione. 
			
			PRAEFURNIUM: Locale dove si 
			alimentava il fuoco che serviva a riscaldare le terme 
			
			SIGILLATA(CERAMICA): Terra 
			sigillata, caratteristica ceramica prodotta soprattutto nella Gallia 
			meridionale e centrale nei primi secoli dopo Cristo. Fu copiata 
			dalla ceramica aretina e fu essa stessa ampiamente imitata. Era una 
			ceramica rossa con superficie brillante e levigata, decorata 
			semplicemente o in maniera elaborata per mezzo di matrici. Il nome 
			sigillata deriva dal timbro (sigillum) col quale il vasaio 
			frequentemente "firmava" i suoi prodotti. Questa ceramica ha grande 
			valore archeologico ai fini della datazione, spesso superiore alle 
			monete. 
			
			SUSPENSURAE: Colonnette di 
			mattoni (quadrati o circolari) sostenenti un pavimento, poste 
			distanziate tra di loro per permettere la circolazione di aria 
			calda. 
			
			SPHAERISTERIUM: Palestra dove ci 
			si allenava alla lotta o alla scherma o ci si divertiva giocando 
			alla palla. 
			
			TEPIDARIUM: Stanza con 
			temperatura moderata. Qui i clienti provenienti dal CALIDARIUM 
			sostavano per graduare il passaggio di temperatura del corpo prima 
			di tuffarsi nel frigidarium. 
			
			VADUM = GUADO: Tratto di mare o 
			di fiume o di laguna che si può attraversare toccando il fondo con i 
			piedi. 
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