UNA GIORNATA AL MARE (fine anni ‘40)
Capocavallo era la balneazione di quelli di Collemezzano.
Subito dopo la guerra, si andava al mare tra Mulino a Fuoco e le
Gorette, dove c’erano ancora le gore pericolose. Era una festa rarissima
e bella da ricordare, con tutti i preparativi di giorni.
Il contadino attaccava il carro di buon’ora, caricava il mangiare e
quanto occorreva alla balneazione e si partiva. Giù per la discesa, dopo
avere salutato i restanti, i cerchi delle ruote schiacciavano i sassi
più piccoli, risalivano su quelli più grandi sormontandoli lentamente,
per poi ridiscenderne velocemente in modo alterno, ora su una ruota, ora
sull’altra.
Un traballio continuo, seduti sul fondo, aggrappati alla sponda. Eppure
era festa. Lentamente, attraverso gli stradoni che portavano alla
pineta; appena oltrepassata quella, si era sulla spiaggia.
Lunga, deserta, con un mare limpido e la sabbia pulita. La pineta
bellissima e larga, con le dune alte a barriera dal mare, popolate di
lentisco e di poseidonie nella parte più bassa, lambite dalle onde che
vi arrivavano leggere anche quando soffiava forte il libeccio.
Un centinaio di metri dalle dune all’acqua; una grande spianata, quasi
un deserto di sabbia.
C’erano ancora i fortini tedeschi in acciaio grigio e gialli
all’interno, ricordi di una fortificazione litoranea inutilizzata. In
mare, affiorante, i resti di un velivolo semisommerso.
Riccardo scaricava ogni cosa e conduceva le vacche col carro più
lontano, dove l’acqua era più profonda. Lì si metteva a pulire con
brusca e striglia le vacche e poi, con la granata di saggina, il carro.
Intanto si montava la tenda: un lenzuolo fermato ad una canna su un
lato, appoggiata al centro e alla sommità di un’altra canna infissa
nella sabbia; a mò di vela latina, mentre il venticello la faceva
volare. L’ultima fermatura era costituita dal parziale insabbiamento del
lembo libero. La brezza gonfiando la tenda rendeva più ampio lo spazio
in ombra, quanto bastava per le cose da mangiare e qualche testa.
Il bagno era un sogno; l’acqua tiepida e bassa consentiva di andare
lontani senza pericolo, almeno cento metri prima che l’acqua ci
raggiungesse i ginocchi.
Si cominciava appena ad immergerci fingendo di nuotare, mentre le mani
toccavano il fondo.
Il fondale pulito, in trasparenza, si vedeva ondulato con piccoli rialzi
e tenui ombre cui si aggiungevano i riflessi serpeggianti d’oro
abbagliante.
Appena usciti, si era accolti con asciugamani caldi di sole, pane,
prosciutto ed una pesca.
Si mangiava seduti attorno alla tovaglia distesa, coi piatti cinesi del
servito di nonna. I fagioli in umido col sugo di cipolla e il pane del
forno di pochi giorni mandavano un profumo invitante. Il vino buono con
un pò d’acqua del pozzo era concesso anche ai ragazzi.
Era un mondo semplice ma bello. Appena mangiato si andava in pineta dove
i pini erano incisi con ferite a lisca di pesce rovescio per la raccolta
in un vasetto di cotto. Il profumo era esaltato dalla resina che colava.
Il caldo era più afoso per la mancanza del venticello di mare e poi
c’erano le cicale1 Frinivano, frinivano insieme finché qualcuna cessava.
Allora l’interruzione diventava più molesta tanto da non poter dormire
in attesa che si ricostituisse quell’armonia interrotta; finché non
erano trascorse le tre ore della digestione.
Finito il bagno del pomeriggio, subito i preparativi rapidi del rientro.
Il carro aspettava. Lungo la strada, pochi viandanti mentre il sole si
avviava al tramonto. Si arrivava, stanchi morti, ma contenti
all’imbrunire. (Da: "Quaderni vadesi 10" a cura di Gianfranco
Vallini) |