L'ACQUA E L'IGIENE
Bella cosa l’igiene, senza dubbio. La predico sempre anch’io
al mio signor figliolo e ai miei scolari, ma se ripenso la
mia infanzia, mi vien da ridere! Igiene? E chi la conosceva?
Da noi non c’era acqua. Tre avare fontanelle ne
centellinavano un esile filo a chilometri di distanza ed
erano la nostra croce e quella di mamma, povera donna,
perché dovevamo noi ragazzi, a forza di brocche e fiaschi,
rifornire la casa. Non si poteva quindi scialare: l’acqua
doveva servire per le cose indispensabili: bere, far da
mangiare e allungare un pò il latte! «Un po’ ci vuole,
sennò, al fuoco, trabocca!» diceva sorridendo mia madre. Per
il resto c’era l’acqua piovana, quando c’era, e quella
sporca e limacciosa del pèlago, finché ce n’era. E il
bagno?! I bagni si facevano di sudore: babbo e mamma per
lavorare; noi per giocare. Mio padre, ch’io sappia, in vita
sua, proprio completo, ne fece uno solo: quando nacque! (E
visse oltre novanta anni!). Mia madre e noi ne facevamo uno
all’anno, in estate, dopo la mietitura e la trebbiatura che
erano i lavori più polverosi del podere.
Che festa! Aurelio metteva di traverso al barroccio una
tavola, attaccava la Brenna, vi caricava quante persone
poteva contenere, e via tutti felici a San Michele, un
bagnetto termale, solfureo, infilato in una stretta valle a
una decina di chilometri dal paese, la cui acqua odorava
soavemente di uova marce! Era una gita attesa e memorabile.
Le donne facevano il bagno in camicia nelle vasche, ed i
ragazzi, tutti insieme, nudi, nel bagnone, una larga vasca a
gradini, dove succedeva il finimondo! Poi ricca merenda al
fresco, e allegro ritorno, e botte alla Brenna perché
corresse! Quando pioveva, era la manna.
Mia madre aspettava che la pioggia avesse lavato il tetto,
poi metteva la conca sotto il tubo della doccia del tetto.
Ed allora c’era acqua per tutto: per la cucina, per la
stalla, per i polli ed anche.., per lavarsi!
Per una fossetta l’acqua piovana andava a finire nel
“pèlago”. Paradiso dei ranocchi e di noi ragazzi che ne
facevamo bersaglio di tutto ciò che ci capitava sottomano.
In autunno l’acqua era gialla di mota; in inverno ghiacciata
(ed allora diventava pista ideale); in primavera verdastra e
tutta una rete di lunghe collane vischiose di girini; in
estate quasi nera, finché, piano piano, per il consumo e per
l’evaporazione, non rimaneva nel fondo che l’ammasso sporco
e maleodorante dei sassi, dei ferri, dei vetri, dei legni
che vi avevamo gettato.
E quest’acqua doveva servire a tutto, meno che per bere e
cucinare! Perciò se penso che mai, in tanti anni, non
prendemmo né tifo, né colera e nemmeno una colica, delle due
una:
o il Signore ci teneva davvero le sue sante mani sul capo;
o l’igiene non è poi quella gran cosa che si vorrebbe far
credere!!
(Sintesi da: "Il Formicaio"
di Vittoria Bibbiani Salvestrini) |