La
trasformazione del paesaggio: bonifiche, allivellazioni, interventi sul
territorio
nella pianura costiera tra Vada e Bibbona (1738-1850)
LA
DIVISIONE DELLA PROPRIETA’ E IL PAESAGGIO DELLA PIANURA ALLA META’ DEL XVIII
SECOLO
La pianura tra Vada e Bibbona all’inizio del periodo qui considerato si
presentava divisa in grandi proprietà fondiarie: da nord verso sud si
trovavano la Tenuta di Vada (2000 ettari circa) appartenente alla Mensa
Arcivescovile di Pisa, la Tenuta di Cecina, 5780 ettari di proprietà dello
Scrittoio delle Regie Possessioni (proprietà granducali) e la Tenuta di
Bibbona, divisa in una parte di proprietà e uso degli “uomini di Bibbona”,
la Banditella, ed una parte divisa tra privati e Scrittoio.
“Il nome di Maremma indica abbastanza qual esser possa l’aspetto di un paese
inselvatichito, ingombro di paludi, e destinato a confine di delinquenti”;
“Questa regione fino al 1833 era quasi tutta in uno stato selvaggio”; due
brevissime citazioni di personalità del tempo per evidenziare quale fosse la
percezione di questo territorio. La pianura costiera che il
Targioni-Tozzetti definisce “più bella ancora” della pianura pisana e dalla
suggestiva forma “simile a quella della luna falcata”, iniziava
indubbiamente ad interessare i contemporanei non tanto per le suggestioni
paesaggistiche che suscitava, quanto per interessi economici ed agrari. Il
paesaggio di questa porzione della Maremma Settentrionale era caratterizzato
essenzialmente da due elementi: i boschi e le paludi.
Il degrado agrario dei secoli precedenti aveva contribuito al mantenimento
dell’area boschiva, tanto che lo Zuccagni-Orlandini parla, ancora in pieno
ottocento, di “vaste boscaglie ingombranti gran parte del territorio”; la
vegetazione era prevalentemente di querce, cerri, lecci, aceri, ginestre e
tamerici e l’estensione di questi boschi era consistente: oltre ai declivi e
alle colline, coprivano gran parte della pianura, approssimativamente fino
al tracciato della via Emilia, l’attuale Aurelia ss n° 1.
Le zone palustri, che il prof. Giorgini in una sua visita del 1829 definiva
“numerose” (4), erano poste lungo la costa immediatamente a ridosso dei
Tomboli: nella Tenuta di Vada vi erano gli Stagnoli e il Padule, in quella
di Cecina le paludi delle Gorette, dello Stajo e delle Saline. Queste zone
palustri erano originate dalla mancanza di una regolamentazione dei fossi
che scendevano dalle colline e che trovavano il loro principale impedimento
a sfociare in mare nei Tomboli di sabbia e negli ammassi di alghe portate
dal mare.
La rete di fossi e botri all’inizio del periodo considerato comprendeva il
Torrente Tripesce, che attraversava la tenuta di Vada, il botro delle
Mandiole, quelli delle Tane, della Madonna e Grande nella Tenuta di Cecina;
si trattava di fossi provenienti dalle immediate colline e che convogliavano
verso il mare acque piovane e naturali, ma che nel loro tratto terminale si
impaludavano costantemente (2)
I caratteri naturali di questo paesaggio erano strettamente collegati alla
natura economica, sociale e colturale delle grandi proprietà fondiarie e già
negli intellettuali del tempo era diffusa questa opinione: Casimiro
Giusteschi, un redattore del Giornale Agrario Toscano, imputava infatti alla
grande proprietà i mali della Maremma, sostenendo che “le mal divise
proprietà son cause immediate del maggior danno, mentre poche possiedono
molto, i più ne son privi”. Sui latifondi maremmani infatti si operava
estensivamente, con uno sfruttamento basato sulla rendita, sulla concessione
di pascoli e boschi, su una gestione agricola quindi a bassissimo
investimento di capitali. I terreni erano lavorati da braccianti stagionali
che stanziavano in queste zone solo pochi mesi all’anno, evitando così di
esporsi al contagio della malaria; i sistemi colturali erano antichi e poco
produttivi ed il più diffuso era la “terzeria” che consisteva nel coltivare
a grano un appezzamento e lasciarlo a pascolo per i due anni successivi.
Per chi giungeva in questo territorio alla metà del ‘700 il primo dato che
risaltava all’attenzione era sicuramente lo stato di desolazione e di
abbandono: i boschi occupavano spesso anche le zone palustri e le paludi si
estendevano lungo tutta la costa, i terreni lavorativi erano coltivati a
cereali con rotazioni spesso biennali, lasciando così pascolare su gran
parte di essi il bestiame (bovino, equino ed ovino). Gli insediamenti erano
scarsissimi ed il paesaggio agrario era caratterizzato da campi aperti.
LE BONIFICHE E LE LORO INFRASTRUTTURE
La necessità di un intervento territoriale globale nella Maremma Pisana
divenne evidente durante il periodo dei primi granduchi lorenesi che
riportarono il territorio all’attenzione del potere statale trovando con
Pietro Leopoldo una prima concreta azione riformatrice. Dalle stesse memorie
del granduca emerge questa consapevolezza e, dopo aver affermato che “... i
mali della Maremma Pisana sono la depopolazione, la povertà, la non
proprietà e l’abuso delle fide (...) che i terreni sono divisi in tenute
troppo vaste le quali appartengono a un padrone solo (...) che le macchie
sono piene di paduli e i fiumi lungo il mare sono abbondanti e non tenuti in
regola, che le fide dei grandi tenutari ed il jus pascendi che hanno le
comunità sopra i terreni di tutti i particolari fanno che i possessori non
li possono circondare di siepi né coltivarli”. indicando quindi nel dissesto
territoriale le cause prime del degrado socio-economico della regione,
sostiene la necessità di intervenire abolendo i residui degli usi
comunitari, distribuendo la proprietà a piccoli e medi possessori
obbligandoli a costruirvi le abitazioni e a risanarli idraulicamente.
E’ evidente come in un progetto così ampio e globale, il risanamento dei
terreni palustri e malsani costituisse la premessa su cui concretizzare le
riforme: per la Maremma Pisana, nella seconda metà del XVIII secolo, le
principali opere di bonifica riguardarono le paludi situate nella Tenuta di
Vada e nella Tenuta di Cecina.
LE BONIFICHE NELLA TENUTA DI VADA ALLA FINE DEL ‘700.
Nella Tenuta di Vada si trovavano gli Stagnoli e il Padule, situati, i
primi, lungo il litorale nei pressi della Torre di Vada e distinti in
Stagnoli di Levante e Stagnoli di Ponente, il secondo, molto più vasto,
nella pianura retrostante il litorale di Capo Cavallo, all’altezza del quale
sfociava il Torrente Tripesce.
Gli Stagnoli erano delle sorgenti di acqua dolce che, a causa della loro
estrema vicinanza al mare, ricevevano spesso le acque “salse” del mare,
nonché grandi quantità di alghe ed era proprio da questa miscela che,
secondo la convinzione del tempo, nasceva la “insalubrità dell’aria” di
questa zona. Numerose sono le testimonianze di questa convinzione: in una
memoria del 1828 si parla dell'”aria cattiva che infetta quella parte della
provincia pisana” e nella relazione del Prof. Giorgini del 1829 si afferma
che le “emanazioni sono pestifere e si diffondono in maniera considerevole”.
Il Padule, di maggiore estensione ma di minore profondità, non subiva
l’effetto della miscela con le acque marine: la sua origine era causata
dalla mancanza di un regime delle acque provenienti dalle colline ed era
coperto da una folta macchia. Il risanamento di questa palude iniziò con la
costruzione di un fosso parallelo al mare che obbligava le acque a sfociare
passando per la foce del Tripesce: questa operazione, a causa della mancanza
di una opportuna e regolare manutenzione, risultò poco soddisfacente.
Tentativi per sanare gli Stagnoli furono effettuati cercando di riempirli
con materiale terroso, ma tale metodo risultò molto costoso, lento e non
efficiente, tanto che fu abbandonato.
La maggiore opera idraulica di questo periodo nei terreni palustri di Vada
fu la costruzione di un canale deviante il Tripesce attraverso le paludi e
sfociante in mare all’altezza dello Stagnolo di Levante: su questa
operazione ci fu un dibattito che vide protagonisti vari ingegneri
idraulici. Nel 1778 l’Ing. Zocchi disapprovò le colmate delle paludi di Vada
con il Tripesce in quanto il suo apporto sedimentario era ritenuto scarso;
altrettanto giudizio negativo veniva espresso relativamente ad alcuni
progetti di colmate tramite fossi derivati dai fiumi Fine e Cecina, in
quanto non adatti alla natura dei terreni e metodi troppo costosi. Per lo
Zocchi la scelta ricadeva sull’abbandono del sistema delle colmate e sul
mantenimento e miglioramento del sistema dei fossi esistenti. Nel 1791 “per
ordine dell’Augusto Sovrano” venne commesso all’Ingegnere dell’Uffizio dei
Fossi di Pisa, prof. Bombici, di esaminare la situazione; fu proposto, in
collaborazione ed accordo con l’Ing. Piazzini, di colmare gli Stagnoli con
le torbe del fosso Tripesce decretando quindi la costruzione del fosso
deviante che, sulle carte allegate alla memoria, è segnato come “Fosso
Piazzini” e “Fosso fatto di nuovo dal Piazzini”.
Gli effetti idraulici di questo intervento non sono esattamente valutabili,
almeno nel breve periodo; sembra possibile infatti ipotizzare che alla fine
del secolo le condizioni di questi terreni non fossero mutate sensibilmente.
Sicuramente con il dominio francese l’amministrazione ecclesiastica pisana
allentò l’impegno, sia politico che finanziario, timorosa di possibili
espropri ad opera della Prefettura del Mediterraneo.
LE BONIFICHE OTTOCENTESCHE
La condizione di questo territorio all’inizio del secondo periodo lorenese
non differiva granché da quella del ‘700: le bonifiche avevano avuto
successo solo nel piano di Cecina e di Bibbona e restava ancora il grave
problema idraulico della pianura di Vada, la popolazione era ancora molto
scarsa e in definitiva il paesaggio era ancora ad uno stadio di degrado e
abbandono.
Questa situazione divenne oggetto dell’azione politica di Leopoldo Il che
intraprese un grande progetto di risanamento della Maremma. L’elaborazione
della struttura territoriale e dell’architettura del paesaggio furono in
questo caso frutto di precise e determinate scelte politiche prese al
vertice dell’organizzazione statale. In effetti più che di una politica
collegiale a livello governativo, siamo in presenza dell’azione politica di
un “monarca illuminato” che agisce sull’evoluzione del paesaggio.
Appena salito al trono il granduca Leopoldo 11 intraprese la difficile
operazione del risanamento delle Maremme e per predisporre tale progetto
“chiamò a se il Professore Gaetano Giorgini e gli commise di visitare tutto
il Littorale Toscano e di riferire se era possibile di risanare l’aria di
quello” (‘). Il Giorgini visitò le coste toscane nel febbraio del 1827 e
stese una relazione (2) nella quale descrive lo stato fisico delle coste
toscane e prospetta ipotesi di risanamento: il tratto di litorale posto tra
la Torre di Vada e il fiume Cecina era occupato per un miglio e mezzo circa
da un ammasso di “alighe” che copriva interamente la spiaggia: questo tratto
corrispondeva all’insenatura dove era ubicato il porto di Vada. La
possibilità di offrire un riparo sicuro ai bestiami era data in questo porto
naturale dalla presenza di un banco di sabbia (le secche di Vada) posto a
largo della riva e funzionante da barriera contro le correnti e le
mareggiate. Probabilmente, secondo il Giorgini, era proprio questa quiete
del mare che favoriva lo sviluppo delle alghe.
Separati dal mare da un “arginello formato naturalmente dai rigetti di
aliga” vi erano gli Stagnoli che, ancora nel 1827, non avevano registrato
nessun miglioramento: per questi il Giorgini non approvava la colmata
tramite riporto di materiale terroso in quanto dispendiosa e dannosa per i
terreni da cui il materiale sarebbe stato estratto. La soluzione prospettata
era quella invece di continuare a colmarli tramite il Nuovo Tripesce e un
nuovo canale di colmata derivato dal fiume Fine: proponeva inoltre “per
limitare poi dalla parte del mare il recipiente della colmata e trattenere
le torbide” la costruzione di una cateratta
posta sui depositi algosi che formavano la riva. Riguardo al padule il
Giorgini notava che in tempo di “flusso e di marette” le acque marine
entravano attraverso la foce del Pozzuolo: il rimedio proposto era di
chiudere questa foce e di costruire un breve canale che portasse a scolare
le acque del Padule nella colmata degli Stagnoli. Il Giorgini proponeva
inoltre la costruzione di un canale derivato dal fiume Cecina e diretto a
colmare il Padule stesso: reputava questo progetto facile ed efficace,
diretto a colmare anche le
Gorette di Cecina. Queste piccole paludi non avevano effetti negativi in
quanto “essendo il loro fondo di pura arena e disseccandosi essi quasi
completamente ogni qua! volta le acque del mare e della Cecina si abbassano
alloro ordinario livello”. La gravità della situazione della pianura a nord
della foce del Cecina è documentata anche da altre fonti: è datata 15
novembre 1815 una Memoria sul Padule di Vada
indirizzata al Provveditore dell’Ufficio dei Fossi di Pisa nella quale
l’autore, l'aiuto Residente della Comunità di Rosignano, afferma che “una
prodigiosa estensione di terreno, reso palustre per l’incuria dei
proprietari, si trova compresa nel Padule suddetto” e che, in seguito ai
lavori intrapresi sotto Leopoldo I dall’Arcivescovo Franceschi “una gran
parte dei terreni si ridusse a pascolo, e molti altri formano delle belle ed
estese praterie”. Evidentemente il disinteresse della Mensa Arcivescovile
aveva compromesso
ulteriormente il degrado della zona, ed infatti “i fossi di scolo (...) non
agiscono essendo totalmente ripieni: Le canne palustri, ed i Giunchi Marini
(...) impediscono il corso delle acque. Addirittura risulta dalla carta
allegata che terreni nel ‘700 lavorativi, nel 1815 sono “resi palustri” (è
il caso della Tenuta La Bezzuca che rendeva alla Mensa “ragguardevoli
rendite”).
Si propone quindi la ripulitura ed escavazione dei fossi esistenti e il loro
prolungamento fino al mare, il prolungamento del Fosso Piazzini fino alla
Torre di Vada per colmare lo Stagnolo di Ponente e, per il Padule, una
diramazione del Cecina che portasse le proprie acque nel Tripesce.
L’auspicio finale dell’autore della memoria è che “risvegliata l’attività
dei proprietari dalla sicurezza di un enorme guadagno, e posti in esecuzione
tali lavori, dietro la scorta di saggi idraulici, si vedrebbe ben presto
rinascere alla felicità un numero ben grande di famiglie, alle quali non
mancano che i mezzi d’industriarsi in una feconda terra”.
Nella “Memoria sul rifacimento dell’Aria nella Pianura di Vada e nelle
adiacenti colline di Rosignano” redatta nel gennaio 1829 dall’Ing. Bombici,
è evidenziato che delle 24.000 suora di estensione della Tenuta ben 4.000
sono “in gran parte macchiosa, paludosa, frigida, pantanosa, e resa inondata
or più or meno dalle acque piovane anche nelle stagioni estive”; l’Ing.
Bombici esprime a riguardo parere negativo su colmate effettuate con canali
deviati dal corso del Cecina, mentre tende a confermare le scelte
settecentesche, cioè di colmare gli Stagnoli col fosso Tripesce, e propone,
per evitare l’ingresso di acqua marina negli Stagnoli, la costruzione di una
apertura tra lo stagno e il mare, dotata di una cateratta per regolare il
flusso di entrata. La stessa tendenza di scelte emerge dalle “Reminiscenze
delle diverse operazioni avute luogo al miglioramento delle terre palustri
della Maremma Pisana con l’indicazione di quel che rimanga a farsi per il
Totale disseccamento”, dove si propone la costruzione di un nuovo fosso
parallelo al confine della Tenuta nel quale verrebbero richiamate le acque
del Tripesce; i terreni ai lati del fosso sarebbero stati divisi da piccoli
scoli disposti a lisca di pesce. Del 1832 è un progetto, mai realizzato,
relativo a un “Canale da derivarsi dalla Cecina per la bonificazione degli
Stagnoli di Vada” obbedendo ai venerati comandi di S.A.I.G. (Sua Altezza
Imperiale Granducale) l’autore progetta un piccolo canale che partendo
dall’ansa del fiume sopra il Fitto di Cecina sarebbe sceso fino alla
Cinquantina e da qui, con un angolo retto, avrebbe proseguito fino agli
Stagnoli, derivando inoltre dallo stesso canali altri due piccoli colmanti,
uno diretto alle Gorette, l’altro al paduletto di Vada (la parte più vicina
a Capo Cavallo del Padule di Vada). Questo dunque il dibattito e questi i
progetti di bonifica che nei primi decenni dell’800 confermano l’interesse
innanzitutto politico, ma anche territoriale, da parte del potere statale
toscano su queste porzioni della Maremma Settentrionale. Dalle memorie di
Salvagnoli Marchetti sappiamo che i progetti del Giorgini furono realizzati
dal Direttore dei Possessi dello Stato Pietro Municchi e che i risultati
raggiunti furono soddisfacenti; sicuramente, e tutte le piante ottocentesche
della Tenuta di Vada lo confermano, il canale colmante dal Fine non fu
realizzato e neanche quello dal Cecina. Si attuò invece la costruzione della
cateratta all’ingresso degli Stagnoli e si potenziò e ristrutturò il sistema
dei fossi di scolo. L’intervento del Municchi viene esaltato dal
Salvagnoli-Marchetti per evidenti interessi politici e di propaganda ma è
evidente notare come, attraverso una azione politica determinata e
indirizzata da tecnici si fosse riusciti, in tempi accettabili, a risolvere
un problema di assetto territoriale che da decenni procedeva senza trovare
soluzione; volontà politica, consulenza tecnica e, ovviamente, capitali,
riuscirono dove un proprietario poco interessato e assenteista non era
riuscito.
Gli sviluppi e le infrastrutture delle bonifiche sono ricostruibili dalla
cartografia del tempo:
- Nella “Pianta della Tenuta di Vada” del 1828 possiamo notare che assieme
al sistema dei fossi il territorio presentava un evidente sistema stradale:
le principali arterie erano poste, alcune, parallelamente alla costa (strada
dei Cavalleggeri, Maestra Livornese, Vada-Rosignano), altre
perpendicolarmente (strada Pietra Bianca-Cason Vecchio e Casina-Cason
Nuovo). In questa pianta troviamo segnati con lettere alfabetiche i progetti
della bonifica.
- Dal fondo delle Possessioni dell’Archivio di Stato di Firenze provengono
due piante realizzate da G.M. Piazzini relative alla pianura di Vada, dalle
quali emerge che il Padule Grande è prosciugato ed il terreno bonificato è
privo di macchia; è inoltre attraversato da un fosso “fatto di nuovo”
parallelo alla costa ed alimentato dal sistema di fossi a lisca di pesce. Lo
stesso sistema si presenta nella parte più a monte, ancora paludosa e
coperta di macchia dove è segnato il progetto di un fosso; medesimo schema
per la parte costiera delle paludi (il Paduletto che nel 1815 troviamo
indicato come Lama di Pozzuolo). La piccola Tenuta della Bezzuca, in
prossimità della Torre, che nel 1815 abbiamo trovato impaludata, è in questa
pianta prosciugata e il terreno bonificato è disegnato da un fosso
principale e da fossi secondari: alcuni dei terreni delimitati dai fossi
secondari sono ridotti a semente. Per lo Stagnolo di Levante risulta attuata
la realizzazione della comunicazione con il mare. Più particolareggiata la
seconda pianta dalla quale si può notare che questo stagno era divenuto il
punto di confluenza di numerosi fossi provenienti dalla pianura circostante,
confluenza indirizzata probabilmente alla sua colmata.
- Nel 1845, come emerge dalla “Pianta della Tenuta di Cecina e Vada”, i
terreni costieri tra la Torre e il Tripesce erano amministrati dalla Regia
Azienda di Bonificamento e le zone palustri erano ridotte alla parte
centrale del Padule e la colmata degli Stagnoli era ancora in corso. -
Posteriore e una “Pianta dell’antica Tenuta di Vada” nella quale la Tenuta è
quasi completamente allivellata e il villaggio di Vada già costruito; i
terreni adiacenti agli Stagnoli e la maggior parte di quelli compresi tra il
Nuovo Tripesce, il mare e il Vecchio Tripesce sono ancora sotto
l’amministrazione statale per il bonificamento.
- La situazione particolareggiata di questi terreni è illustrata nella
“Pianta di alcuni terreni della Tenuta di Vada” dalla quale possiamo notare
che alcuni terreni sono stati allivellati e che sul tombolo del mare è stata
progettata una piantagione di pini che avrebbe protetto le future
coltivazioni dai venti marini. La colmata degli Stagnoli è ancora in corso e
la loro superficie è notevolmente ridotta. Rimane ancora il prosciugamento
del Padule di Pozzuolo coperto di macchia, per il quale la pianta indica la
costruzione di alcune “fosse che conducano le acque stagnanti nei fondi del
Pozzuolo ove stabilirsi Maccina a vapore effosoria per traversare quelle
acque nel vicino mare”.
- E’ del 1852 la “Pianta geometrica delle due antiche Tenute di Vada e
Cecina”, dalla quale risulta che gli Stagnoli sono quasi completamente
prosciugati e ora boscosi, mentre la zona di Capo Cavallo rimane ancora
indicata come “palustre”; l’azione degli scoli e della macchina a vapore
sembra però aver dato buoni effetti se la dicitura indica “Antico Padule di
Vada” e le zone segnate ancora in blu sono piuttosto limitate.
(Da: "Macchia e palude domesticheto e podere" di
Arzilli-Massei-Niccolini) |