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		«La versione Solvay? Danni limitati» 
		Il mare davanti allo scarico Solvay, il mare delle Spiagge Bianche per 
		capirsi, per circa un chilometro dalla costa copre un fondale pressoché 
		morto. La prateria di posidonia che c’era, è stata completamente 
		annientata da novant’anni di sedimentazione dei reflui dello 
		stabilimento composti in prevalenza da carbonato di calcio. 
		Nel sedimento, specialmente intorno alla metà del Novecento, si sono 
		accumulati anche mercurio, metalli pesanti e altri inquinanti. Oggi su 
		quel fondale non vive ormai quasi niente: solo poche specie di alghe e 
		organismi detritivori particolarmente adattabili e resistenti; pesci e 
		forme di flora più complesse rifuggono da tale zona, interessata 
		peraltro a una forte torbidità dell’acqua che ostacola la fotosintesi. 
		Una situazione di gravissimo degrado che però appare sostanzialmente 
		limitata a questa ridotta porzione di mare. Subito oltre questo raggio 
		di un migliaio di metri, anzi, lo stato del mare e dei fondali riserva 
		caratteristiche del tutto assimilabili a quelle di veri paradisi 
		ecologici. In particolare la vastissima prateria di posidonia delle 
		Secche di Vada, confine sud dell’area degradata dallo scarico. 
		Questi gli esiti - per certi versi riscontrabili, seppure in modo 
		superficiale, anche sulla base di un po’ di esperienza del nostro mare - 
		emersi da uno studio commissionato dalla società Solvay e che nel corso 
		di quasi tre anni ha coinvolto una cinquantina di ricercatori di varie 
		Università, coordinati dai professori Eugenio Fresi e Michele Scardi 
		dell’Università Tor Vergata di Roma. Proprio i due docenti sono 
		intervenuti ieri nella foresteria della stabilimento per illustrare tale 
		lavoro, che fa del tratto fra Punta Righini e Punta Tesorino - come 
		hanno detto - la finestra di mare meglio conosciuta d’Europa e forse del 
		mondo. 
		I numeri alla base dello studio sono impressionanti per dettagliatezza: 
		566 campioni biologici prelevati e analizzati, 137 campioni di 
		sedimento, 200 di acqua; 569 siti diversi visitati in un rettangolo di 4 
		miglia per 6 per una profondità da zero a 50 metri; e ancora 230 
		immersioni di sub, 350 chilometri di sviluppo di rotta scandagliata col 
		sonar... 
		Una massa di dati che sarà messa a disposizione di tutti sul sito della 
		multinazionale della chimica: www.solvay.com. 
		Un lavoro capillare che ha fornito un dato forse inatteso sulla 
		compatibilità ambientale fra scarico Solvay ed ecosistema marino: una 
		situazione che, secondo gli studiosi, si trova ora in stato di 
		equilibrio. Il danno ambientale causato dalle attività industriali - 
		come si legge nelle conclusioni dello studio - si è compiuto in epoche 
		ormai lontane. «In tempi più recenti l’impatto è perdurato, ma ha 
		interessato soltanto una fascia di modesta estensione e che era già 
		irreversibilmente compromessa in passato. Ciò implica che le attuali 
		attività - si legge ancora - anche grazie all’introduzione di tecnologie 
		più avanzate per la protezione dell’ambiente, sono in equilibrio con la 
		normale dinamica dell’ecosistema marino costiero». 
		E in futuro? Le previsioni, nello studio affidate a modelli matematici, 
		affermano che tale equilibrio permarrà, tanto più se Solvay ridurrà gli 
		scarichi. E viene indicata anche una soluzione immediata e definitiva al 
		problema delle sedimentazioni e dell’intorbidamento sotto costa: una 
		condotta che porti gli scarichi della fabbrica oltre tre chilometri al 
		largo a una profondità di 25 metri. Da qui non tornerebbero mai verso la 
		costa. (25 giugno 2003)  |