LA DIFESA DAL MARE DELLE
COSTE TOSCANE
Nel 1537 appena diciottenne Cosimo I de' Medici, figlio di
Giovanni delle Bande Nere e di Maria Salviati, assunse il titolo
di Duca di Firenze. Egli iniziò una politica estera avente lo
scopo di aumentare i propri domini ed incrementare il prestigio
internazionale e, fra le varie direttrici che Cosimo I seguì, vi
fu quella di potenziare la Marina da guerra ducale e di creare un Ordine cavalleresco
dotato di proprie navi.
Cosimo I pertanto fece iniziare nel 1541 i lavori per la
costruzione di un Arsenale a Pisa lungo la riva settentrionale
dell'Arno, utilizzando le strutture di preesistenti scali dove,
sei anni dopo, fu varata la galera Pisana, prima unità costruita
di nuovo interamente nei territori appartenenti allo Stato
fiorentino.
In poco tempo vennero allestite altre navi da guerra che Cosimo
I, il quale con l'annessione di Siena del 1557 era divenuto duca
di Firenze e Siena, poté dare in concessione più volte al re di
Spagna Filippo II. Cosimo I, grazie ai buoni rapporti con il
Papato, nel 1569 fu nominato granduca di Toscana e, per
sdebitarsi con il pontefice Pio V in occasione della Lega Santa
che portò alla famosa battaglia di Lepanto del 7 ottobre 1571,
Cosimo I concesse anche al papa le proprie galere.
Nel
frattempo il 15 marzo 1562 Cosimo I, con una sontuosa cerimonia
nel Duomo di Pisa, era stato insignito del titolo di gran
maestro del nuovo Sacro Militare Ordine dei cavalieri di Santo
Stefano papa e martire. Questa Milizia, per la cui creazione
Cosimo I aveva speso molte energie e della quale gran maestri
dopo di lui sarebbero stati i suoi successori, fu composta nella
quasi totalità da nobili non solo toscani, ma provenienti anche
dagli altri Stati della penisola italiana e addirittura da Paesi
europei. Come insegna per questo nuovo Ordine fu scelta una
croce rossa ad
otto
punte in campo bianco e come principale scopo militare esso ebbe
quello di contenere l'espansionismo islamico nel Mediterraneo,
motivo per il quale Cosimo I gli donò all'inizio due galere
appartenenti alla Marina da guerra granducale. In seguito, per
vari motivi, i successori di Cosimo I cederanno sempre più navi
alla Milizia stefaniana, che di fatto rimase l'unica Marina a
disposizione dei Medici.
Le navi della flotta stefaniana cominciarono così ad operare
congiuntamente a quelle toscane per compiere ardite incursioni
nelle acque prospicienti le coste dell'Africa settentrionale,
dei Balcani, del Vicino Oriente ed addirittura della penisola
anatolica.
L'Ordine rossocrociato ebbe il suo "Convento" a Pisa, in Piazza
dei Cavalieri, dove Cosimo I fece costruire e ristrutturare
alcuni edifici, fra cui la bella Chiesa di Santo Stefano (che
tuttora contiene numerose bandiere e fanali di navi musulmane
catturate in battaglia) e il Palazzo della Carovana o dei
cavalieri carovanisti, che attualmente ospita la Scuola Normale
Superiore.
Come base operativa delle navi stefaniane e granducali fu scelto
il porto di Livorno, città che era particolarmente cara ai
Medici, i quali desideravano che divenisse il più importante
scalo del Granducato di Toscana. Infatti Cosimo I, allorché
pensò di rafforzare la Marina da guerra e di costituire un
Ordine fornito di proprie navi, oltre alla necessità di
avvalersi di queste unità per darle in concessione alla Spagna e
al Papato al fine di poter mantenere dei buoni rapporti con
questi Stati, aveva pure intenzione di impiegarle per difendere
le coste toscane dagli attacchi dei corsari islamici e per
proteggere le navi mercantili che partivano oppure erano dirette
nel porto labronico. In questo modo le torri di avvistamento che
sorgevano lungo le rive e le unità da guerra granducali e
stefaniane che sostavano a Livorno e qualche volta a
Portoferraio (considerata una base avanzata) rappresentavano un
sistema di difesa che si potrebbe definire "integrato". Esso
funzionava in questo modo: se i soldati che stavano di vedetta
sulle torri avessero avvistato qualche bastimento di corsari
islamici, avrebbero provveduto a segnalare la loro presenza,
oltre che alle guarnigioni delle altre torri e alle truppe,
anche alle navi da guerra di Santo Stefano e del Granducato.
Queste ultime sarebbero così salpate per dare la caccia alle
unità avversarie e se fossero state già in mare, avrebbero avuto
ugualmente la notizia grazie a qualche natante partito da
Livorno o da qualche altro scalo per metterle al corrente che
nelle acque antistanti la Toscana vi erano navi musulmane. Anche
le unità granducali e stefaniane, se durante le loro crociere
avessero scoperto dei legni islamici, oltre a dare loro la
caccia, si sarebbero avvicinate alla costa per mettere al
corrente del loro avvistamento i soldati delle torri di guardia,
i quali sarebbero stati così più vigili.
Con il trascorrere degli anni il porto di Livorno divenne sempre
più importante e il numero dei bastimenti mercantili che lo
frequentavano aumentò continuamente, cosicché le navi corsare
musulmane spesso cercarono di compiere delle incursioni nelle
acque fra la Toscana e la Corsica, imbattendosi sovente nelle
galere medicee con le quali ingaggiavano scontri epici.
Questi combattimenti quasi sempre terminavano con la vittoria
delle navi granducali e stefaniane, cosicché numerosi bastimenti
musulmani furono affondati o catturati e ai loro marinai toccò
la stessa sorte che essi avrebbero riservato agli equipaggi
delle unità mercantili cristiane e agli abitanti dei centri
costieri che avrebbero voluto predare, cioè andare a remare
sulle galere medicee oppure essere venduti come schiavi.
UNA CROCIERA SFORTUNATA
Fra le numerose navigazioni compiute dalle galere di Santo Stefano
nell'Alto Tirreno ve ne fu una che merita di essere ricordata per
l'incredibile sfortuna che perseguitò la squadra dell'Ordine e che si
risolse in un grave smacco al suo prestigio.
Francesco I, che aveva preso le redini del governo del Granducato di Toscana
e della Milizia di Santo Stefano dopo la morte del padre Cosimo I, nel
settembre del 1583 ordinò alle galere stefaniane di portare del materiale da
costruzione alla Gorgona per riparare le locale torre di avvistamento,
rimasta danneggiata in seguito ad un attacco dei corsari musulmani e poi di
compiere una crociera nelle acque fra Livorno e la Corsica per intercettare
alcune navi islamiche segnalate.
La squadra dell'Ordine era comandata dal viceammiraglio di origine pisana
Marc'Antonio Calefati, esperto sia nell'arte nautica sia in quella militare,
il quale tuttavia nel corso della propria esistenza ebbe ben poche volte il
vantaggio di avere dalla sua la sorte benigna, come durante la crociera che
iniziò da Livorno il 10 settembre 1583. Quel giorno Calefati, dopo aver
ricevuto le disposizioni del granduca Francesco I, lasciò il porto labronico
con quattro galere: la "Capitana" (nave ammiraglia), la "Padrona" (nave
viceammiraglia), la San Giovanni e la Santa Maria, ognuna delle quali
rimorchiava un natante carico di mattoni, calcina, travi ed altro destinati
alla torre della Gorgona.
Dopo aver raggiunto quest'ultima isola ed avervi lasciato le barche con i
materiali da costruzione, le quattro galere proseguirono il loro viaggio,
toccando dapprima Portoferraio per imbarcare un centinaio di soldati e poi
si diressero verso la Corsica.
Il 4 ottobre le vedette delle navi stefaniane avvistarono quattro galeotte
islamiche e Calefati avrebbe potuto facilmente catturarle tutte se un
assetto eccessivamente appruato della sua "Capitana" (causato da una errata
ripartizione dei carichi nelle stive) non le avesse impedito di procedere a
piena velocità.
Il viceammiraglio, che nell'occasione aveva assistito al primo manifestarsi
durante quella crociera della sua solita malasorte, riuscì comunque a
catturare una galeotta e, durante l'interrogatorio del comandante musulmano
fatto prigioniero, venne a sapere che la nave presa apparteneva ad una
formazione di undici navi che pochi giorni prima aveva attaccato
infruttuosamente un veliero di Ragusa (oggi Dubrovnik) vicino a Montecristo
e poi si era frazionata per dare la caccia ai piccoli natanti da pesca e da
trasporto.
Calefati, appreso che una nave corsara isolata si era diretta verso l'Elba,
decise di intercettarla per cui la mattina del 13 ottobre, dopo aver
ripianato le scorte di acqua dolce vicino ad Aleria, salpò con rotta
nord-est.
Nel frattempo le condizioni meteorologiche, buone all'inizio della giornata,
andarono rapidamente peggiorando. Nonostante ciò le quattro galere
stefaniane insieme alla galeotta catturata proseguirono ugualmente la
navigazione verso l'Elba e la notte, giunte in prossimità di Montecristo, a
causa della tempesta e del buio, le vedette non si accorsero degli scogli
delle Formiche, che furono investiti dalla "Capitana" e dalla San Giovanni.
Da questo momento la sfortuna che perseguitava Calefati sembrò voler fare
gli straordinari, in quanto nessuno degli equipaggi della "Padrona", della
Santa Maria e della galeotta si accorsero di quanto era accaduto alle altre
due galere, per cui proseguirono la navigazione e quando all'alba giunsero a
Port'Ercole, ritennero che la "Capitana" e la San Giovanni fossero affondate
durante la tempesta senza alcun superstite. Invece quasi tutto il personale
imbarcato sopra le due galere (circa settecentocinquanta uomini fra
cavalieri, ufficiali, marinai, soldati e rematori) si era salvato e, senza
perdersi d'animo, si dette da fare per portare più materiale possibile sopra
gli scogli, dove si sistemò in attesa dei soccorsi. Calefati infatti, che
era fra i naufraghi, sperava che le altre navi dell'Ordine, dopo aver
raggiunto un porto amico, accorgendosi dell'assenza della "Capitana" e della
San Giovanni sarebbero salpate nuovamente per venire a cercarle.
Sebbene il tempo fosse migliorato, gli scampati delle due galere non
avvistarono alcuna nave né durante la giornata del 14 ottobre né la mattina
successiva, per cui Calefati decise di inviare il nipote Cosimo Angelini e
altri tredici uomini con l'unica scialuppa che si era salvata dal naufragio
dapprima a Montecristo per lasciarvi delle vedette e poi di raggiungere
l'Elba per informare i capitani delle altre navi stefaniane di andare con
urgenza alle Formiche per imbarcare i superstiti e i materiali recuperati.
Purtroppo durante la navigazione verso Montecristo la scialuppa di Angelini
fu scoperta da un brigantino islamico che immediatamente si mise al suo
inseguimento. Pochi minuti dopo comparvero all'orizzonte altri due natanti
musulmani, per cui agli occupanti della scialuppa non rimase altra
possibilità di evitare la cattura che sbarcare sull'isola e nascondersi
nella macchia. I corsari però si accorsero della mossa dei toscani, cosicché
a loro volta scesero a terra dove catturarono uno degli uomini di Angelini
il quale, sottoposto a torture, li mise al corrente del naufragio della
"Capitana" e della San Giovanni e che i superstiti si erano rifugiati sulle
Formiche. Appresa tale notizia, i musulmani smisero di cercare gli altri
cristiani scesi su Montecristo e subito si reimbarcarono per dirigersi verso
gli scogli dove erano affondate le due galere di Santo Stefano con la
speranza di imprigionare i naufraghi e, per evitare che Angelini e i suoi
uomini potessero lasciare Montecristo, presero a rimorchio la loro
scialuppa.
Calefati, quando vide apparire i tre brigantini corsari, non essendo
assolutamente disposto ad arrendersi, fece aprire il fuoco con gli archibugi
che si erano salvati dal naufragio, cosicché i musulmani furono costretti a
ritirarsi per cercare rinforzi verso la Corsica, nelle cui acque si trovava
il resto della loro squadra.
Il viceammiraglio stefaniano fu assai contento di aver respinto gli
islamici, però la sua gioia fu di breve durata in quanto allorché gli
avversari accostarono per allontanarsi, egli si accorse che un brigantino
stava rimorchiando la scialuppa di Angelini e quindi credette che il nipote
e i suoi uomini fossero stati catturati senza aver potuto informare i
soccorsi della presenza dei naufraghi sulle Formiche.
Calefati però non si scoraggiò e, con i pezzi di legno recuperati dalle due
galere affondate, fece costruire una zattera sopra la quale salì un
cavaliere di Santo Stefano e quattro marinai, che però il giorno seguente
affondò senza alcun superstite.
Il viceammiraglio fece costruire un'altra zattera che, per le correnti,
invece di raggiungere l'Elba, finì in Corsica e quando i cinque uomini che
vi erano imbarcati poterono informare il governatore di Bastia di quanto era
successo alla "Capitana" e alla San Giovanni - come fra breve sarà
illustrato - era ormai troppo tardi per salvare gli altri membri dei loro
equipaggi rimasti sulle Formiche.
Nel frattempo Calefati, temendo che anche la seconda zattera avesse
raggiunto l'Elba, il 17 ottobre ne fece costruire un'altra, che arrivò
felicemente vicino a Capoliveri due giorni dopo, ma i suoi occupanti, come
quelli della zattera giunta in Corsica, non poterono fare niente per gli
altri uomini della "Capitana" e della San Giovanni.
A testimonianza della sfortuna che continuava a perseguitare Calefati
accadde pure che un veliero di Ragusa, che passò a tre miglia dalle
Formiche, sicuramente si accorse della presenza dei naufraghi, ma il suo
capitano, credendo che fossero musulmani, li ignorò e proseguì la
navigazione e parimenti non si curò dei segnali di fumo fatti dagli uomini
di Angelini rimasti a Montecristo.
Intanto il cavaliere Pier Luigi Rossi di Parma, capitano della "Padrona", il
quale in assenza del viceammiraglio Calefati era divenuto automaticamente
comandante della squadra navale di Santo Stefano, fu talmente sicuro della
perdita della "Capitana" e della Santa Maria che inviò un messaggero a
Firenze per informare Francesco I dell'accaduto.
L'unico che pensava che potessero esserci dei superstiti fu Battista del
Crespina, il capitano al quale era stata affidata la galeotta catturata, che
tentò più volte di andare a controllare le acque a sud dell'Elba per
rintracciare eventuali scampati, ma ciò gli fu sempre negato.
La sera del 15 ottobre la "Padrona", la Santa Maria e la galeotta catturata
partirono da Port'Ercole facendo rotta verso l'Elba e, durante la
navigazione, notarono i segnali fatti dal cavaliere Angelini che ancora si
trovava a Montecristo. Nonostante le pressanti richieste di del Crespina di
andare a vedere chi era che faceva questi segnali e perché, il capitano
Rossi preferì proseguire il viaggio fino a Portoferraio. Giunto nello scalo
elbano del Crespina, continuò ad insistere sino a che fu autorizzato ad
andare a Montecristo, cosa che fece il 17 ottobre.
La sera di quel giorno egli arrivò sull'isola e vi trovò Angelini con i suoi
uomini, i quali lo misero al corrente di quanto era accaduto, per cui del
Crespina la mattina seguente ripartì alla volta di Portoferraio per
allestire una spedizione di soccorso ed andare a recuperare i naufraghi
rimasti sulle Formiche.
Così la mattina del 19 ottobre Calefati e gli altri naufraghi videro le navi
stefaniane venute finalmente a prenderli, ma la sfortuna, che aveva
perseguitato il viceammiraglio dal momento in cui aveva urtato gli scogli,
continuò ad accanirsi inesorabilmente contro di lui. Infatti, poco dopo aver
avvistato le unità di Santo Stefano che si stavano avvicinando da nord, gli
uomini della "Capitana" e della San Giovanni scoprirono provenienti da sud i
tre brigantini musulmani che li avevano attaccati il 15 ottobre, i quali
questa volta erano accompagnati da quattro galeotte che avevano incontrato
vicino alla Corsica.
I corsari, avvistati a loro volta le navi rossocrociate, lasciarono una loro
unità a controllare a distanza i naufraghi della "Capitana" e della San
Giovanni affinché non provassero a fuggire con qualche zattera e con le
restanti sei navi si diressero a tutta forza contro i bastimenti di Rossi il
quale fuggì verso nord cercando rifugio non a Portoferraio, ma addirittura a
Livorno.
I musulmani per un po' inseguirono le navi stefaniane ma poi, rendendosi
conto che non le avrebbero raggiunte, invertirono la rotta e si diressero
verso le Formiche per catturare i superstiti della "Capitana" e della San
Giovanni.
Gli equipaggi di queste due galere, dopo aver assistito alla fuga dei
bastimenti di Rossi quando già credevano di poter essere salvati, avevano
perso qualsiasi volontà di combattere contro le sopraggiungenti navi corsare
e così, quando venne loro intimata la resa, non opposero resistenza.
Soltanto il viceammiraglio Calefati, imbracciato un archibugio, sparò un
colpo contro le unità avversarie sperando che i naufraghi avrebbero seguito
il suo esempio. Costoro però, stanchi, affamati e demoralizzati dalla
ignominiosa fuga dei bastimenti di Rossi, invece di combattere provvidero
essi stessi a disarmare Calefati temendo rappresaglie da parte degli
islamici.
Furono così catturati diversi cavalieri ed ufficiali, centodieci marinai,
centocinquanta soldati, duecentoquaranta forzati cristiani e ottennero la
libertà più di duecento rematori musulmani, facendo sì che questo episodio
risultasse uno dei più gravi smacchi subiti dalla Marina di Santo Stefano
nella sua storia plurisecolare.
TIPICO COMBATTIMENTO FRA UNITA' DELL'ORDINE DI SANTO STEFANO E LEGNI
MUSULMANI
E' abbastanza facile trovare delle immagini che illustrano le battaglie
navali della prima e della seconda guerra mondiale, mentre assai più
difficile è reperire delle immagini che riguardino i numerosi scontri
sostenuti dalle navi medicee contro i corsari islamici.
Uno di questi combattimenti, fu lo scontro che avvenne nel tratto di mare
fra l'Elba, la Capraia e la Corsica la mattina del 24 novembre 1617 che
viene descritto sotto.
La squadra di Santo Stefano, comandata all'epoca dall'ammiraglio volterrano
Iacopo Inghirami, all'inizio dell'autunno del 1617 compì una crociera nel
Mediterraneo centrale, nel corso della quale catturò un particolare tipo di
grosso veliero musulmano, chiamato caramussale.
Il 4 novembre, durante la navigazione per tornare a Livorno, allorché la
formazione navale stefaniana si trovava nei pressi dell'Isola di Montecristo,
a causa di una tempesta il caramussale catturato ruppe le gomene con le
quali le galere lo stavano rimorchiando per cui andò alla deriva.
L'ammiraglio Inghirami, per evitare ulteriori pericoli alle sue unità, dette
ordine di continuare la rotta per il porto labronico, che fu raggiunto senza
altri incidenti, con la speranza di potere in seguito rintracciare e
recuperare il caramussale.
Infatti pochi giorni dopo giunse a Livorno la notizia che il veliero,
trascinato dalla corrente, era andato ad incagliarsi in Corsica, in un luogo
non molto lontano da Bastia. Subito furono allestite quattro galere per
andarlo a recuperare e la direzione della formazione fu affidata
temporaneamente al cavaliere stefaniano Alfonso Sozzifanti in quanto
l'ammiraglio Inghirami era stato colto da un attacco di gotta che l'aveva
immobilizzato a letto.
La formazione, composta dalla "Padrona", comandata dallo stesso Sozzifanti,
dalla Santa Maria Maddalena diretta dal cavaliere Giovanni Paolo Borbone dei
marchesi del Monte, dalla San Francesco, posta agli ordini di Ferdinando
Suarez e dalla Santo Stefano condotta da Tommaso Fedra Inghirami (nipote
dell'ammiraglio), salpò da Livorno il 17 novembre e fece scalo a Bastia per
sapere dal locale governatore il luogo esatto dove il caramussale aveva
toccato terra.
Sozzifanti, lasciato il porto corso, fece rotta verso nord e, dopo essere
stato costretto per circa tre giorni a rimanere ancorato a ridosso della
costa a causa di una tempesta, all'alba del 24 novembre riprese la
navigazione cercando di guadagnare il largo. Trascorse alcune ore il
comandante stefaniano, mentre si trovava nelle acque fra la Corsica, l'Elba
e la Capraia, avvistò due velieri che furono ben presto riconosciuti per
musulmani. Questi erano infatti un bertone e un petaccio armati da un certo
Issuf, capo dei giannizzeri (truppe scelte) di stanza a Tunisi.
Il bertone, di maggiori dimensioni, era dotato di dieci cannoni di grosso
calibro, numerosi pezzi minori ed aveva un equipaggio di centoventicinque
persone, mentre il più piccolo petaccio aveva sei pezzi di artiglieria
pesante, diversi di medio e piccolo calibro e novantaquattro uomini.
Sozzifanti, essendo ben consapevole del danno che questi due velieri
avrebbero potuto fare alle navi mercantili che navigavano nel Tirreno
settentrionale, decise di serrare le distanze e di attaccare risolutamente
l'avversario. Lo svolgimento della battaglia può essere facilmente
ssintetizzato: Sozzifanti con le sue quattro galere all'inizio puntò contro
il bertone e, diramate le opportune disposizioni, iniziò a bersagliarlo con
l'artiglieria e con il fuoco dei moschettieri che aveva a bordo delle sue
navi, mentre il petaccio continuò la rotta seguita inizialmente dai due
velieri; l'equipaggio del bertone però, non rimase passivo e a sua volta
cominciò a cannoneggiare le galere stefaniane che riportarono avarie al
palamento e agli scafi. Il duello proseguì a distanza per parecchi minuti e
alla fine Sozzifanti, giudicando che fosse giunto il momento adatto, ordinò
a tutte le sue unità di abbordare il veliero avversario. Rapidamente gli
uomini delle galere riuscirono a salire sul ponte del veliero islamico, dove
la lotta si fece aspra per l'ostinata resistenza di un reparto di
giannizzeri che vi era imbarcato. Nel frattempo il petaccio aveva invertito
la rotta per andare a soccorrere il bertone.
Sozzifanti, avendo visto il petaccio che si stava avvicinando per dare
manforte al bertone, per impedire che ciò accadesse, ordinò alla Santa Maria
Maddalena e alla Santo Stefano di andare ad impegnare il nuovo arrivato.
Queste due galere, dopo aver cannoneggiato brevemente il petaccio, lo
investirono mandandovi sopra le proprie truppe e Sozzifanti, ritenendo che
queste potessero aver bisogno di rinforzi, si diresse a sua volta con la
"Padrona" verso il veliero islamico più piccolo; ben presto il petaccio
venne costretto alla resa e fu preso a rimorchio dalla Santa Maria Maddalena
e dalla Santo Stefano e la "Padrona" stefaniana tornò verso il bertone, al
momento impegnato solo dagli uomini della San Francesco che stavano ancora
combattendo duramente. I musulmani infatti si erano barricati nei ponti
inferiori del veliero e soltanto con l'arrivo dei soldati imbarcati sulla
"Padrona" di Sozzifanti decisero di deporre le armi. Complessivamente gli
islamici catturati assommarono a centocinquantanove, di cui più della metà
feriti, mentre i morti furono una sessantina. Sopra le galere stefaniane i
deceduti furono diciotto e i feriti ottantasei, alcuni dei quali passarono a
miglior vita nei giorni successivi. Poiché oltre ai due velieri catturati
anche le navi rossocrociate avevano riportato delle avarie nel combattimento
e c'era il pericolo di una nuova tempesta, Sozzifanti ordinò di rientrare a
Livorno rimorchiando le prede. Riguardo il caramussale che doveva
recuperare, il cavaliere stefaniano decise di lasciarlo dove si trovava, in
quanto lo scafo era rimasto gravemente danneggiato al momento in cui aveva
toccato terra e il carico era già stato tratto in salvo da alcuni emissari
del granduca Cosimo II.
L'ATTACCO ALLA TORRE DELLA GORGONA NEL GIUGNO 1583
La torre della Gorgona rappresentava una "sentinella avanzata" del
sistema difensivo costiero toscano ed aveva il compito di segnalare a
Portoferraio e a Livorno l'eventuale presenza al largo di navi di corsari
musulmani, in modo da sospendere le partenze dei bastimenti mercantili per
evitare che potessero essere catturati e fare invece salpare le navi da
guerra medicee per dare loro la caccia.
La torre della Gorgona, per questa sua importante funzione e per il fatto di
trovarsi sopra un'isola e quindi non immediatamente soccorribile in caso di
attacco, subì diversi assalti da parte delle navi islamiche, come accadde
nel 1583.
Nel giugno di quell'anno infatti il castellano della Gorgona, insieme ad un
soldato, partì dalla Gorgona per venire a Livorno a sbrigare alcune faccende
ed affidò la custodia della torre ad un soldato di origine veneziana, che
avrebbe dovuto aver cura anche di un garzone e della figlia e della moglie
del castellano, rimaste sull'isola.
Questo militare però si era invaghito di una delle due donne e,
approfittando della lontananza del castellano, volle farla sua. Temendo però
che al ritorno il castellano si sarebbe vendicato e non avendo modo di
lasciare l'isola, pensò di chiedere aiuto all'equipaggio di qualche nave
musulmana che in quel periodo infestavano il tratto di mare davanti al
Granducato di Toscana, approfittando della lontananza delle unità
dell'Ordine di Santo Stefano, impegnate a compiere una lunga crociera nel
Mediterraneo orientale.
Il soldato infatti, avvistate due galeotte di corsari islamici, segnalò loro
di avvicinarsi alla Gorgona perché voleva parlamentare. Durante il colloquio
con i musulmani, il militare di origine veneziana affermò che desiderava
abbracciare la fede di Allah e lasciare l'isola e che in cambio era disposto
a consegnare la torre della Gorgona agli islamici. Stretto l'accordo, il
veneziano andò alla torre insieme ad un gruppo di corsari, che lo seguivano
da vicino tenendosi però nascosti per non essere scoperti anzitempo dal
garzone e dalla moglie e la figlia del castellano, che erano rimaste di
guardia nella torre.
Le due donne e il garzone, allorché videro il soldato e non sospettando
niente, gli aprirono il portone per farlo entrare ma insieme a lui
penetrarono nella torre anche i musulmani, che cominciarono a portare via
tutto l'asportabile e a danneggiare la costruzione.
Nel frattempo il castellano, desiderando ritornare sull'isola, da Livorno
fece dei segnali alla Gorgona per sapere se vi erano nelle vicinanze delle
navi musulmane e il soldato veneziano, d'accordo con i corsari, gli rispose
che poteva partire senza alcun timore.
Il castellano, rassicurato da questa informazione, lasciò Livorno con una
barca insieme al suo soldato e a quattro marinai nel tardo pomeriggio del 16
giugno, ma appena arrivato sulla Gorgona fu catturato insieme agli altri
cinque uomini dai musulmani. Terminato il saccheggio, questi ultimi
partirono dall'isola e fecero rotta verso la Corsica.
Il sospetto che qualcosa di grave fosse accaduto sulla Gorgona cominciò a
nascere nella mente di Matteo Forestani, provveditore di Livorno, nei giorni
successivi, in quanto egli non ebbe alcuna risposta ai numerosi segnali
diretti alla guarnigione della Gorgona per sapere se vi erano nei paraggi
delle navi corsare. La conferma di quanto era successo sull'isola si ebbe a
Livorno la sera del 26 giugno, quando arrivò dalla Corsica un natante che
riferì che qualcuno aveva parlamentato vicino a Capo Corso con gli equipaggi
delle due galeotte che avevano attaccato la Gorgona, i quali avevano
raccontato come si erano svolti realmente i fatti.
Il provveditore Forestani, ben conoscendo l'importanza della torre della
Gorgona, inviò sull'isola un gruppo di muratori e manovali per riparare i
danni fatti e una nuova guarnigione. Per trasportare i materiali Forestani,
ricevuta l'autorizzazione da parte del granduca Francesco I, si avvalse
anche delle galere stefaniane comandate dal viceammiraglio Marc'Antonio
Calefati il quale, prima di intraprendere una crociera protettiva nelle
acque del Tirreno settentrionale che si concluse con il tragico naufragio
della "Capitana" e della San Giovanni sulle Formiche di Montecristo, l'11
settembre rimorchiò con le sue unità quattro natanti carichi di calcina,
laterizi, travi e viveri alla Gorgona.
Tuttavia il 12 settembre, poco dopo che questo materiale era stato scaricato
sulla spiaggia e non c'era stato tempo di immagazzinarlo in un luogo sicuro,
la Gorgona fu attaccata di nuovo da due galeotte algerine, che distrussero
gran parte delle attrezzature giunte il giorno prima obbligando il
provveditore Forestani ad effettuare una nuova spedizione. Nonostante questo
contrattempo, le riparazioni della torre furono completate entro il novembre
del 1583, cosicché essa poté continuare a svolgere la sua importante
funzione di vedetta. Per quello che riguarda il destino dei principali
protagonisti della vicenda, risulta che il castellano riuscì a riottenere la
libertà grazie al riscatto pagato da alcuni mercanti genovesi e, tornato a
Livorno, si adoperò per far rilasciare anche la moglie e la figlia.
Il soldato di origine veneziana che aveva consegnato ai musulmani la torre,
trasse ben poco guadagno dalla vicenda, in quanto dopo circa un mese dal suo
tradimento, la nave corsara sulla quale era imbarcato insieme ad un'altra,
si imbatterono in un paio di agguerrite galere del duca di Savoia vicino a
Marsiglia. Dopo un breve inseguimento le due unità islamiche furono
costrette a gettarsi in costa e la quasi totalità dei loro occupanti fu
catturata e condotta sopra le due galere sabaude.
Il militare traditore cercò di far credere ai marinai del duca di essere un
cristiano fatto prigioniero dai musulmani durante una precedente scorreria e
il capitano di una delle due galere, originario di Padova, appena seppe che
questi era veneziano, invece di portarlo a terra gli chiese di rimanere al
suo servizio. Il soldato fu ben contento di tale proposta, che gli avrebbe
assicurato un buon stipendio ed un certo prestigio. Tuttavia, per il fatto
di dover stare sempre vicino al capitano, egli era divenuto uno dei
personaggi più in vista della nave e fu quindi facilmente riconosciuto dal
padrone di una barca che era stato fatto prigioniero dai corsari delle due
navi gettatesi in costa presso Marsiglia il quale, come il veneziano, era
stato portato a bordo delle galere sabaude.
Questo marinaio, che ben conosceva la vera storia del soldato veneziano,
informò il capitano di origine padovana della sua reale identità e così,
secondo il vecchio detto che "il diavolo fa le pentole ma non i coperchi",
il traditore fu messo alla catena. |