La carbonaia dimostrativa per illustrarne il funzionamento da parte dei Mei, carbonai di Sassetta

  La Carbonaia è il metodo più antico di produrre il carbone di legno. Sintetizzando, la catasta di legname costruita attorno ad alcuni tronchi ben piantati al suolo era ricoperta di foglie secche, di erba e da uno strato di terra. Alla base della catasta le aperture servivano ad iniziare la combustione ed a garantire un modesto tiraggio iniziale. Appena la combustione era propagata a tutta la catasta i fori venivano chiusi e per ventiquattro ore si lasciava procedere la distillazione secca del legno che perdeva così tutte le frazioni volatili. A carbonizzazione completa si lasciava raffreddare e quindi si smontava la catasta. In realtà l'operazione era assai più complessa in quanto il "capofuoco" doveva seguire attentamente l'intera operazione per evitare che la catasta prendesse fuoco per ingressi d'aria non chiusi vanificando tutto il lavoro. Il colore e la quantità di fumo erano la spia utile per gestire l'operazione.

                                             I carbonai

C’era anche l’industria del carbone di legna. Fioriva un grosso commercio in quel settore, che arricchiva molte persone dando solidità e benessere anche a famiglie dell’alta borghesia.

Le macchie ne fornivano molto. I macchiaioli di mestiere, nella stagione adatta e cioè nell’autunno-inverno, vivevano addirittura nel bosco finché il carbone non era pronto. Dovevano tagliare tutti i rami occorrenti, ammassarli in cataste ben proporzionate, ricoprirle di terra e farli ardere piano piano fino a cottura compiuta. La macchia era piena di colonne di fumo che uscivano da quei cumuli di terra e di legna.

I carbonai vivevano in capanne costruite da loro stessi con pali intrecciati e poi ricoperti di «pellicce» messe una accanto all’altra che, in poco tempo, si assodavano e non lasciavano passare né acqua né freddo.

Dormivano su rudimentali intelaiature di legno chiamate « rapazzòle » con sopra un materasso di.. rami fronzuti!! Una vita dura, piena di disagi, addirittura da uomini della foresta che soltanto nella poesia del ricordo (specialmente di chi non 1’ha vissuta) può essere rivestita di quel fascino che siamo soliti attribuire, in maniera tutta teorica, alla vita primitiva, elementare, a diretto contatto con la natura.

Il «menù» dei macchiaioli consisteva soltanto in fette di polenta strusciate a turno su un’aringa che pendeva dal soffitto attaccata ad un filo, nel bel mezzo della capanna. Prima era stata aperta e fatta arrostire sul fuoco di legna. Verità o simbolo, significava una cosa sola: la miseria nera nella quale vivevano quei boscaioli.

E poi c’era il pericolo degli incendi. Non erano frequenti, ma ci potevano essere.

Il proprietario del «taglio» del bosco (non del bosco, ma solamente del suo taglio annuale) teneva presso di sé, in qualità di datore di lavoro, tutti gli attrezzi del mestiere. Fra questi anche quelli, molto rudimentali, occorrenti per domare un incendio, con metodi abbastanza di fortuna: pale, accette, secchi per trasportare la terra ecc. E specialmente certi stivaloni molto alti quasi inattaccabili dalle fiamme.

In caso di bisogno partivano tutti in gran numero come per una partita di caccia e si mettevano all’opera con grande sveltezza. Intorno alla zona invasa dalle fiamme ne veniva creata un’altra abbastanza vasta dove non rimanessero né alberi, né arbusti, né ramoscelli. Le fiamme erano costrette a morir... di fame.
 
(Da: “L’ottocento in Maremma e nella Roma Umbertina” di Lina Francesconi Saggini 1962)

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