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    Il rivoluzionario dal volto umano «Io, al 
    fianco di Ilio Barontini» 
  
    
    Nell’aprile 1945, in testa ai 
    partigiani che sfilano per le strade di Bologna, c’è “Dario”, il capo del 
    comando unico militare Emilia-Romagna. “Dario” è livornese, anzi cecinese. 
    Si chiama Ilio Barontini. Una figura maiuscola dell’antifascismo. Barontini 
    si è fatto le ossa nell’Unione Sovietica. Ha operato in Cina. È entrato 
    nella storia in Spagna e in Etiopia. Al generale inglese Alexander, 
    comandante degli eserciti alleati in Italia, che appuntandogli a Bologna, 
    sull’uniforme, la “bronze star”, esclama: «Ci siamo già trovati in Africa: 
    voi comunisti siete dappertutto», risponde che ai suoi ordini hanno lottato 
    valorosamente uomini di ogni estrazione politica. Il suo vice, capitano 
    Leonillo Cavazzuti, un cattolico, ha detto: «Ricordo Dario, maestro 
    incomparabile che a tutti insegnò cosa voleva dire cospirare e come si 
    doveva fare la guerra clandestina. Per tutti fu amico e consigliere. Non gli 
    sfuggì mai l’importanza di dare al movimento partigiano una compattezza 
    unitaria. Il nostro modo d’intendere la vita, per filosofia e religione, era 
    completamente opposto, ma nella lotta eravamo vicinissimi. È dolce e bello 
    ricordarlo...».  A Milano parlo di Barontini con Giovanni Pesce, la medaglia 
    d’oro dei Gap (Gruppi di azione partigiana) e autore di due libri tradotti 
    negli Stati Uniti, “Senza tregua” e “Quando cessarono gli spari”: si 
    considera suo allievo. Anche per lui è dolce e bello ricordarlo. Quando lo 
    hai incontrato?  «In Spagna, nel novembre 1936. Ero volontario nei 
    battaglioni repubblicani, avevo 18 anni. Ci trasferirono a La Rodda per 
    l’addestramento. Fu lì che conobbi Barontini. Non avevamo ancora l’uniforme. 
    Pioveva. Io mi riparavo con l’ombrello. “Non ti vergogni?”, mi disse. 
    “Chiudilo e cantiamo insieme”. Mi appoggiò il braccio sulle spalle. Era 
    molto umano. Il più umano di tutti i nostri capi. E il più modesto. Mangiava 
    con noi reclute. Ci raccontava delle sue esperienze in Russia. Della sua 
    giovinezza dura...»  E di Livorno?  «Sì, della sua famiglia anarchica. Del 
    suo lavoro nel cantiere Orlando, a 15 anni. Era nato a Cecina. Poi passò 
    alla Breda di Sesto San Giovanni. Dopo la Grande Guerra torna a Livorno. 
    Entra nelle Ferrovie, tornitore. Nel ’21, al congresso del Psi nel teatro 
    Goldoni è tra i fondatori del partito comunista. Nel ’22 è già in carcere. 
    Lo buttano fuori dalle Ferrovie e nel ’28 eccolo davanti al tribunale 
    speciale. Per fortuna lo assolvono». E andò in Russia. «Lui raccontava che 
    lasciò l’Italia nel ’31 per evitare un altro mandato di cattura. Prese una 
    barca e raggiunse la Corsica. Poi passò in Francia, al “centro esteri” del 
    Pci. Si occupava dei collegamenti con l’Italia, insieme all’ultimo sindaco 
    antifascista di Bologna, Enio Gnudi, ferroviere anche lui, Andò in Russia 
    nel ’33, credo».  E a Mosca incontrò Togliatti... «Non so. Di Togliatti non 
    parlava. So che ebbe ruoli importanti. L’uomo era in gamba. Un 
    organizzatore. Un capo. Fu segretario dell’emigrazione italiana. Diresse gli 
    istruttori dei marinai nei porti del Mar Nero e del Baltico. Studiava molto. 
    Si qualificò sul piano professionale. In pratica divenne un ingegnere. Tanto 
    che dirigeva un reparto in un’officina, in Russia. E prima della Spagna era 
    stato in Cina per una missione. In Spagna era giunto prima di me, nel luglio 
    mi pare». Lo fecero commissario politico del battaglione Garibaldi. «Vice 
    commissario. Il commissario era Antonio Roasio e comandante Randolfo 
    Pacciardi. Un altro toscanaccio».  Hemingway usò Pacciardi e il battaglione 
    Garibaldi per un documentario. Ma Pacciardi non era comunista. «Era 
    repubblicano. Però aveva il berretto rosso con la falce e il martello. 
    All’inizio, nel battaglione, c’era molto entusiasmo, molta unità. Le 
    differenze politiche non contavano. Eravamo antifascisti e basta». Perché 
    Pacciardi andò a Parigi? Sì, era ferito. Ma Barontini parlò di una frattura 
    politica. Disse che non sarebbe più tornato. «La frattura ci fu. Peccato, 
    perché Pacciardi era un valoroso. Ma posso dire la mia? Pacciardi andò a 
    Parigi per far ritirare il battaglione in Francia. Voleva salvare gli 
    uomini. All’entusiasmo era subentrato lo scoramento. La difesa di Madrid era 
    costata molto. E l’offensiva di Franco, aiutato da Berlino e da Roma, poteva 
    significare la nostra sconfitta. Invece ci fu Guadalajara. E al comando del 
    battaglione fu Barontini a sostituire Pacciardi, rivelandosi uno stratega e 
    un galvanizzatore eccezionale».  Gli italiani combatterono contro gli 
    italiani.  «Per Mussolini la battaglia di Guadalajara doveva essere un 
    campanello d’allarme. Invece non capì il suo significato. La verità è che 
    gli italiani di parte fascista, arruolati per forza e presentati come 
    volontari, non credevano a quella guerra. Non avevano un ideale per cui 
    combattere. Molti, partendo dall’Italia, avevano creduto di andare in 
    Etiopia. Barontini capì tutto e ordinò di rispettare i prigionieri. “Li 
    hanno ingannati, con loro bisogna parlare”, diceva».  Durante la battaglia 
    lo hai veduto?  «La battaglia fu lunghissima, dall’8 al 24 marzo del ’37. 
    Con una mitragliatrice feci prigioniera tutta l’intendenza di Roatta. Due 
    camion pieni di ogni bendiddio. Se vidi Barontini? Certo. Non era un capo 
    che stava seduto al quartier generale. S’informava. Spiegava la situazione 
    per renderci più consapevoli. Ci incoraggiava. Sempre tranquillo, sempre 
    umano».  E dopo la Spagna, hai incontrato Barontini in Francia?  «Prima 
    della Francia, per lui, c’è stata l’Etiopia. Il capitolo avventuroso, e 
    anche misterioso, della sua vita. Pensa: nel ’38 fu deciso di aiutare la 
    resistenza in Etiopia governata da Graziani. Di Vittorio chiama Barontini e 
    forma un terzetto con lo spezzino Bruno Rolla e il triestino Anton Ukmar. Il 
    loro compito è di saldare le forze abissine. I ras che non si erano piegati 
    al fascismo erano molto divisi. Malgrado il pugno di ferro di Graziani, 
    l’Etiopia era ben lontana dall’essere sottomessa. Barontini, Rolla e Ukmar 
    avevano un lasciapassare del Negus e lettere di accompagnamento per gli 
    alleati dell’imperatore».  Sbaglio o li chiamavano i “tre apostoli?” 
     «Esatto. Barontini era “Paulus”, Rolla era “Petrus” e Ukmar “Johannes”. C’è 
    di più. Il Negus dette a Barontini il ruolo di consulente del governo 
    provvisorio alla macchia e il titolo di vice imperatore. Barontini e gli 
    altri due “apostoli”, che agivano in zone diverse, predicavano l’unità delle 
    razze e delle coscienze. Riuscirono ad infondere il senso del nazionalismo. 
    Non era mai accaduto nell’Africa tribale. C’era una fame terribile anche 
    allora, in Etiopia. Per non pesare sulle tribù, Barontini faceva mangiare ai 
    partigiani i coccodrilli. Mi disse che erano abbastanza buoni».  La polizia 
    italiana seppe di Barontini?  «Presto si sparse la voce di questo capo 
    bianco che dirigeva la resistenza. Misero una taglia sopra la sua testa. 
    Seppero che era Barontini e fecero circolare la sua foto. Ma “Paulus” aveva 
    una gran barba. Era irriconoscibile. Comunque andarono vicini alla sua 
    cattura. Un capo tribù arrivò al comando di “Paulus” con i suoi uomini e 
    chiese di entrare fra i partigiani. Poche ore dopo tentò di saltare addosso 
    a “Paulus”, ma “Paulus”, che stava sempre in guardia e non dormiva due notti 
    di seguito nel medesimo posto, evitò la tagliola e le suonò al traditore». 
     Anche qui ci sono degli italiani che combatterono contro gli italiani. 
     «Era la lotta del fascismo. Graziani non scherzava. Oggi è chiaro che la 
    spedizione in Etiopia fu un errore, un dispendio inutile di vite, di 
    capitali. Che poi gli italiani agli ordini di Graziani e quelli che scesero 
    laggiù per lavorare, fossero quasi tutta brava gente, è un altro discorso. 
    Tanto è vero che Barontini non volle mai che fosse torto un capello ai 
    soldati italiani caduti prigionieri. E tu non hai idea di quanti italiani 
    sono rimasti insabbiati nelle tribù, di loro volontà, dopo essere stati 
    fatti prigionieri».  E in Francia hai operato con Barontini?  «Dopo la 
    Spagna tornai in Italia, ma fui arrestato e spedito a Ventotene. Mi 
    liberarono dopo il 25 luglio. La sera dell’8 settembre ero con i partigiani. 
    Pietro Secchia mi affidò il comando del Gap a Torino. Barontini, invece, che 
    sulla via del ritorno conobbe Alexander a Kartum, nel Sudan, rientrò in 
    Francia. E lo internarono. Quando esce organizza i “franc tireurs”. Diviene 
    membro del comando centrale Francia-Sud. Dal ’40 al ’43 è un capo della 
    resistenza francese. Ne dà di filo da torcere, ai nazisti...»  Sai di 
    qualche sua impresa?  «E’ lui che fa saltare l’hotel Terminus a Marsiglia 
    durante un banchetto degli ufficiali nazisti che lo occupavano. E sarà lui, 
    con la medesima tecnica, a far saltare l’hotel Baglioni a Bologna, sede 
    della Kommandantur. Nel novembre ’43 io ero a Torino preoccupato di non 
    avere mezzi per agire, quando mi annunciano l’arrivo di un ispettore. “È uno 
    che ti conosce bene”. Vado all’appuntamento ed eccoti Barontini. Gli dico 
    dei miei guai. E lui mi fa: “O Boccia”, Boccia era il soprannome che mi 
    aveva dato in Spagna, “per essere un buon gappista ci vuole spirito 
    d’iniziativa. L’importante è avere degli obiettivi da colpire”. “Tu nei 
    hai?”. “Ne ho cinquanta. Ma non bombe, armi sufficienti”. “Le armi si 
    prendono ai tedeschi. Le bombe ti dimostro come si fanno”. Andiamo nel mio 
    covo, prende un tubo di ferro, lo riempie di tritolo, lo chiude, colloca la 
    miccia, calcola la sua lunghezza e dice: “Questa è regolata a tre minuti”. 
    “Ma sei pazzo? Con questa saltiamo tutti”. Prova dice. Io vado nel comando 
    tedesco di fronte alla stazione di Porta Nuova, colloco la bomba e mi 
    allontano in bicicletta. Dopo tre minuti esatti scoppia. “Hai visto come si 
    fanno le cose?”, mi dice». E a Torino hai compiuto l’azione più temeraria. 
    «Ti riferisci a quella in corso Vittorio Emanuele, quando all’uscita di un 
    bar affrontai due ufficiali superiori tedeschi, due feroci torturatori, e a 
    meno di mezzo metro, faccia a faccia, perché io non sparavo mai alle spalle, 
    volevo essere sicuro del fatto mio, gli scaricai i caricatori delle mie due 
    pistole. Li fulminai. Altri due ufficiali uscirono dal bar e mi rincorsero. 
    Voltai l’angolo e mi gettai a terra, cambiai i caricatori. Feci appena in 
    tempo. I due ufficiali apparvero con le armi spianate. Da terra li 
    precedetti e li feci secchi. Era questione di decimi di secondo. O io o 
    loro».  E poi Barontini dove andò?  «Fu assegnato all’Emilia Romagna. 
    Diresse la resistenza. La organizzò come sapeva fare soltanto lui. Unì gli 
    uomini più disparati. Mi raccontò, in seguito, che si rivolgeva agli 
    ufficiali arruolati nelle sue file e diceva: “Io sono un comunista, vengo 
    dalla Spagna dove ho combattuto per la Repubblica. Tu eri in Spagna dalla 
    parte di Franco. E ora siamo qui insieme, patrioti italiani, uniti nello 
    stesso fronte, e combattiamo insieme perché l’Italia cambi. E tu eri in 
    Africa volontario, e anch’io ero in Africa, dall’altra parte, con il popolo 
    africano, e oggi siamo insieme. E tu eri in Russia, hai vissuto quella 
    tragedia. È questa ritrovata unità fra tutti noi il fatto più importante che 
    ci assicurerà la vittoria...”». Questo era Barontini, un rivoluzionario 
    umano.  Ma era destinato ad essere accantonato, osservò. Gli uomini d’azione 
    divennero ingombranti, per il partito. Pensa a Vittorio Vidali, triestino, 
    il leggendario “Carlos” del 5º Reggimento di Spagna. «Ilio Barontini morì 
    troppo presto, comunque, in quell’incidente automobilsitico del ’51. Ai 
    funerali, a Livorno, c’ero anch’io, il suo carissimo allievo Boccia...». 
    
     (Da: Il Tirreno del 10-09-05)  |