Il Comune di
Rosignano Marittimo, attraverso il Centro per l’Arte Diego Martelli, ha
il piacere di presentare un nuovo appuntamento espositivo che si terrà,
dal 15 luglio al 4 novembre 2007 presso il Castello Pasquini di
Castiglioncello, organizzato sotto l’Alto Patronato del Presidente della
Repubblica e con il Patrocinio del Ministero per i Beni e le Attività
Culturali e della Regione Toscana. La mostra presenta la più ampia
esplorazione sui rapporti tra arte e cinema nel secondo dopoguerra in
Italia, mai proposta finora al pubblico italiano, affrontando i temi
principali di quell’avvincente dialogo negli anni che sono stati per il
cinema italiano quelli di maggior successo di pubblico e di critica: dal
neorealismo, attraverso la commedia, fino al nuovo cinema d’autore degli
anni Sessanta e Settanta. Un percorso che si sviluppa parallelo alla
grande vivacità dell’arte in Italia, dal neorealismo all’astrazione fino
alla pop art, e che vede spesso collaborare i protagonisti dei due
ambiti, per dare vita ad alcuni dei più celebri capolavori del nostro
cinema.
Castiglioncello è una cornice particolarmente adatta ad accogliere
questa mostra, essendo stata negli anni Sessanta una delle capitali dal
cinema italiano, luogo di villeggiatura prediletto da molti dei
protagonisti di quella stagione, ma anche set di alcuni dei capolavori
cinematografici più celebrati (valga per tutti ‘Il sorpasso’ di Dino
Risi).
La mostra intende affrontare il tema delle relazioni tra cinema e arti
visive nella cultura italiana tra la seconda metà degli anni Quaranta e
gli anni Settanta. Il confronto con le arti figurative è sempre stato
per il cinema, specialmente in Italia, una patente di nobilitazione
rispetto alle opinioni che lo relegavano nel limbo dell’intrattenimento
popolare. Semplici, ma originali ed efficaci soluzioni di allestimento
permetteranno di analizzare le ambientazioni di opere d’arte in contesti
cinematografici, di presentare le opere di artisti che sono stati
coinvolti nella lavorazione di film, nonché di apprezzare i disegni, i
bozzetti e i dipinti di alcuni registi. La mostra - che si avvale di
prestiti prestigiosi come, ad esempio, quelli provenienti dalla Galleria
degli Uffizi, Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti, Fondazione
Longhi di Firenze, Fondazione Federico Fellini di Rimini, Museo
Michelangelo Antonioni di Ferrara, Museo Nazionale del Cinema di Torino,
collezioni private e degli stessi artisti - è ordinata in sei sezioni:
1/ La citazione
Le opere d’arte figurativa sono state, per alcuni registi, un importante
laboratorio di ricerca che ha arricchito l’immagine cinematografica. La
sezione espone celebri opere di pittori - Giovanni Fattori, Giuseppe
Pellizza da Volpedo, Ottone Rosai, Renato Guttuso e molti altri - ai
quali si ispirarono Luchino Visconti, Mario Soldati o Pier Paolo
Pasolini, come ben si comprende dal confronto con i fotogrammi dei loro
film.
2/ Artisti nel cinema
La sezione si occupa degli artisti che, in vario modo, sono stati
coinvolti nella lavorazione di film, attraverso opere grafiche e
pittoriche di Corrado Cagli, Duilio Cambellotti, Mario Ceroli, Giorgio
De Chirico, Mario Fallani, Renato Guttuso, Yves Klein, Carlo Levi,
Domenico Purificato, Mario Schifano.
3/ L’opera d’arte come ‘set’
Attraverso particolari accorgimenti espositivi vengono presentate le
ambientazioni di opere d’arte in contesti cinematografici che vanno
dalla ricostruzione storica alla ridefinizione dello spazio entro il
quale si svolge l’azione, come nel caso della ‘Madonna del Parto’ di
Piero della Francesca in ‘La prima notte di quiete’ di Valerio Zurlini.
4/ Il disegno dei registi
La sezione presenta alcuni apici dell’attività grafica di registi per i
quali l’interesse rivolto alle arti visive ha travalicato i confini di
una semplice passione privata: Michelangelo Antonioni, Federico Fellini,
Pier Paolo Pasolini.
5/ Il cinema nella pittura
La sezione espone un’antologia di opere di artisti che, pur non avendo
mai collaborato ad opere cinematografiche, hanno assunto il cinema e
l’immagine-movimento come soggetto determinante
del proprio lavoro: Umberto Bignardi, Fabio Mauri, Mimmo Rotella.
6/ I manifesti di Carlantonio Longi
Una scelta di bozzetti per manifesti cinematografici di Carlantonio
Longi completa il percorso, estendendo il dialogo fra cinema e
figurazione anche all’ambito della grafica pubblicitaria.
Il cinema dei pittori. Immagini dai quadri allo
schermo
Artisti come Umberto Bignardi (esponente italiano della Pop Art del
quale sono in mostra "Donna che corre e salta", "Uomo che sale",
"Scimmia al passo" e "Rotor, cornice con quattro fotografie"), Fabio
Mauri e Mimmo Rotella fanno del cinema e dell' immagine in movimento le
basi della loro ricerca, Carlantonio Longi realizza bozzetti per
manifesti cinematografici mentre registi del calibro di
Michelangelo Antonioni,
Federico Fellini e Pier Paolo Pasolini
si dedicano con ottimi risultati all'attività grafica.
Alcuni artisti hanno partecipato a vario titolo alla realizzazione di
pellicole (tra gli altri di Domenico Purificato in mostra con bozzetti
per i costumi di
Mastroianni in "Giorni d'amore" e Mario
Fallani con "Trittico di Venezia") altri con le loro opere hanno
ispirato sequenze cinematografiche (tra i quali Man Ray presente con "Violon
d'Ingres", Fernando Buonamici con "La caserma di Modena con i volontari
della quinta Batteria Toscana" e Teofilo Patini con il bozzetto "Bestie
da soma"). Muoviamoci nei percorsi che portano dal cinema alla pittura
dalla A alla Z.
A come Antonioni. “…Ho cominciato con delle cose astratte, che a
poco a poco si sono definite, sono diventate delle montagne…” così il
regista ferrarese Michelangelo Antonioni ricorda la genesi delle sue
opere pittoriche “Le montagne incantate”. Si tratta di un ciclo iniziato
nel 1978 e che simboleggia l’immobilità, condizione cui Antonioni allude
in molti film in cui il movimento sembra solo un mezzo per nascondere la
insuperabile impossibilità di progredire, moralmente e socialmente, che
colpisce l’uomo moderno.
La carriera di Michelangelo Antonioni comincia con la realizzazione di
importanti documentari quali “Gente del Po” “N.U.” e “L’amorosa
menzogna”. Nel 1949 scrive il soggetto del film di Federico Fellini “Lo
sceicco bianco” e nel 1950 dirige il suo primo lungometraggio “Cronaca
di un amore”, per poi realizzare l’episodio italiano del film “I vinti”.
Nel 1953 gira “La signora senza camelie” storia di ascesa e caduta di
una stella e poi una pellicola di ispirazione letteraria “Le amiche”,
tratta dal racconto di Cesare Pavese “Tra donne sole”. La disperazione
dell’operaio protagonista, immerso nel nebbioso paesaggio della Pianura
Padana, e il vuoto della sua anima sono i motivi guida de “Il grido”
(1957). Nel 1959 realizza la prima opera della famosa tetralogia
dell’incomunicabilità “L’avventura” film che riceve il Premio della
Giuria a Cannes e che la più importante rivista di cinema in lingua
inglese “Sight
and Sound” ha inserito nelle classifiche dei migliori film di sempre
nel 1962 (secondo posto), nel 1972 (quinto posto), nel 1982 (settimo
posto) e nel 2002 (diciannovesimo posto). Il ciclo comprende anche“La
notte” (1960) opera in cui, attraverso la rappresentazione dell’agonia
di una coppia, Antonioni mette in scena la crisi di un’intera società,
nel 1962 “L’eclissi” e nel 1964 “Deserto rosso”, primo film a colori
del regista (che gli vale il Leone d’oro per la regia), opera che è un
grido di allarme nei confronti di un mondo avviato ad una completa
disumanizzazione. Altro lavoro capitale nella filmografia di Antonioni è
“Blow up” (1966), pellicola vincitrice del Gran Premio della Giuria a
Cannes, cui fa seguito nel 1970 “Zabriskie point” il film più
esplicitamente politico del regista ferrarese. Attraverso la struttura
del giallo di spionaggio “Professione reporter” (1974) dipinge una
storia di crisi esistenziale tipica dei tempi moderni mentre con “Il
mistero di Oberwald” (1980) Antonioni sperimenta l’innovativo impiego
del colore elettronico.“Identificazione di una donna” (1982) affronta
nuovamente la tematica della crisi di coppia (simbolo della crisi
dell’uomo in genere) vista come impossibilità di comunicazione dovuta a
differenze di età, classe ed educazione.
B come Bocklin. E’ un universo visionario ed immaginario quello
che il pittore svizzero Arnold Bocklin porta sui suoi dipinti, che
sono innervati da un’inquietudine sottile e da un profondo senso di
angoscia. Il suo intento è quello di svelare la sensazione di spaventoso
e terribile che si nasconde dietro la rassicurante apparenza della
realtà esteriore. Ad alimentare la sua vocazione per un’arte inquietante
e straniante erano stati i sette anni di formazione trascorsi a Roma
(1850-57) tra le vestigia cittadine di un passato irrecuperabile e
lontano. I paesaggi e le vedute romane sono i soggetti di opere che lo
rendono famoso come paesaggista e gli permettono di superare
brillantemente un periodo di ristrettezze economiche. Dopo il 1871
diventa evidente la sua aspirazione a rendere nei suoi dipinti gli stati
d’animo: esemplare in tal senso è “L’autoritratto con la morte che suona
il violino” (1872) in cui rappresenta la condizione umana attraverso
un’immagine angosciante e sarcastica che lo vede raffigurato con la
morte situata alle spalle che ride beffardamente e suona il violino. Suo
capolavoro assoluto è “L’isola dei morti”, dipinto ipnotico e
visionario, dall’esasperata atmosfera mistica ed onirica, che esprime un
profondo senso di ambiguità ed enigmaticità. A Bocklin si ispira il
de Chirico della stagione che anticipa quella Metafisica: la figura
in primo piano ne “L’enigma dell’oracolo” richiama la figura sulla barca
de “L’isola dei morti” mentre la dechirichiana “Lotta di centauri”
si rifà apertamente alla “Battaglia di centauri” del maestro svizzero.
C come Cagli. Per dare un senso della sua grandezza e
dell’importanza che il pittore Corrado Cagli ha avuto nell’arte italiana
del Novecento basta citare ciò che di lui scriveva nel 1951 un grande
della cultura e dell'arte italiana come
Renato Guttuso: “…Cagli svegliò i morti
in questi anni…” Cagli aveva avuto un ruolo importante per
l’affermazione dell’arte murale nella penisola sia con l’articolo sulla
rivista Quadrante “Muri ai pittori” in cui, ispirandosi ai grandi cicli
pittorici del Trecento e del Quattrocento, incitava gli artisti a
riscoprire il gusto della pittura monumentale e dell’affresco, sia con
opere come il mosaico per la fontana di Piazza Tacito a Terni e gli
affreschi “Preludi della guerra” alla Triennale di Milano del 1933 e
“Orfeo incanta le belve” per la Biennale di Venezia del 1938. Il suo
grande interesse per gli artisti del Quattrocento è evidente nel dipinto
“La battaglia di San Martino” che rinvia ai capolavori di Paolo Uccello
e Piero della Francesca. Costretto ad abbandonare l’Italia a causa delle
leggi razziali si trasferisce negli Stati Uniti e nel 1941 diviene
cittadino americano. Intorno al 1950 rientra in Italia e, confermando il
suo grande eclettismo, si dedica all'astrattismo prima di virare la
propria pittura verso uno stile neorealista. Nel corso della sua
carriera artistica Cagli si è dedicato anche alla ceramica, alla
scultura, al disegno ed alla scenografia teatrale.
C come Ceroli. La ricerca sulla materia di Mario Ceroli
è, insieme a quelle di
Alberto Burri, Enrico Prampolini e
Ettore Colla, una delle più importanti del XX° secolo. Il legno ed il
vetro sono i materiali più spesso utilizzati dallo scultore di
Castelfrentano che però non disdegna di adottare per i propri lavori la
terra, il bronzo, il grano, il ghiaccio. Nel legno Ceroli intaglia
“silhouettes” di esseri umani e cose lasciando a vista le giunture delle
tavole e volgendosi, spesso, verso una dimensione scenografica ed
ambientale come si nota in lavori quali la “Cassa Sistina”, il cui
interno è popolato da una serie di ritratti incisi nel legno, o “Cina”
in cui è rappresentato un esercito con decine di persone in marcia. Dal
1968 affianca alla scultura un importante lavoro di scenografo che
comincia con il “Riccardo III” di William Shakespeare, con la regia di
Luca Ronconi, al Teatro Stabile di Torino, prosegue con “Orgia”
di Pier Paolo Pasolini nel 1969 sempre allo Stabile di Torino per la
regia di Pier Paolo Pasolini, con la “Norma” di Vincenzo Bellini al
Teatro della Scala di Milano nel 1972 per la regia di Mauro Bolognini e
sempre con la regia di Bolognini “La fanciulla del West” di
Giacomo Puccini al teatro dell’Opera di
Roma nel 1980 e la “Tosca” di Giacomo Puccini sempre al teatro
dell’Opera di Roma nel 1990-1991. Il vetro è portato al massimo delle
sue potenzialità poetiche in capolavori quali “L’albero della vita”
(1990) e “Maestrale” (1992) mentre l’utilizzo delle terre colorate
raggiunge vertici espressivi in “I colori del sole” (1993). La
formazione di Ceroli si svolge nella Capitale presso l’Istituto d’Arte
di Roma. Nell’Urbe ha anche la possibilità di lavorare con Leoncillo,
Ettore Colla e Pericle Fazzini. Nel 1959 inizia il suo straordinaria
viaggio nel legno grezzo, materiale che diventa caratteristico della sua
produzione e che piega a risultati artistici eccezionali. Le sue
silhouettes in legno sono presentate in mostre alla Galleria La
Tartaruga di Roma nel 1964, 1965 e 1966, anno in cui partecipa alla
mostra itinerante “Aspetti dell’Arte Italiana Contemporanea” che si
tiene a Roma, Dortmund, Bergen, Colonia, Oslo Belfast ed Edimburgo. Allo
stesso anno risale la prima partecipazione alla Biennale di Venezia cui
fanno seguito le presenze alle edizioni del 1968, 1976,1982, 1984, 1988
e 1993. Prende parte alle prime mostre dell’arte povera “Arte povera.
Im-Spazio” alla galleria La Bertesca di Genova nel 1967 curata da
Germano Celant e “Fuoco, Immagine, Acqua, Terra” alla galleria l’Attico
di Roma , curata da Maurizio Calvesi. Tiene importanti personali alla
Galleria Civica d’Arte Moderna di Torino (1968), al Folkwang Museum di
Essen (1970), all’ Hakone Museum di Osaka (1971), al Museum Am Ostwall
di Dortmund (1971), al Neuberger Museum di New York (1975), alla
Fundacion Eugenio Mendo di Caracas (1976), allo Studio Marconi di Milano
(1982), al Museum of art di Fukuyama (1996), alla Galleria Sprovieri di
Roma (1996) e al Museo Nacional de Bellas Artes di Buenos Aires (2000).
Tra le importanti collettive ricordiamo anche “Vitalità del negativo” al
Palazzo delle Esposizioni di Roma (1970), “Minimalia da Giacomo Balla
a…” che da Palazzo Guerrini Dubois(1997) viene portata a Palazzo delle
Esposizioni a Roma (1998) e “Novecento. Arte e Storia in Italia” (2000)
alle Scuderie del Quirinale a Roma.
D come de Chirico. Giorgio de Chirico è un pittore
dalla formazione molto complessa e dalla notevole curiosità
intellettuale: tra i suoi tanti interessi vi sono, oltre alla pittura,
la musica e la letteratura (di grande valore è il suo romanzo
surrealista del 1929 "Hebdomeros").
La sua opera è inizialmente influenzata da Arnold Bocklin, dal quale
ricava un grande amore per l'antico e la mitologia. Il rapporto tra i
due artisti è testimoniato dalla consonanza stilistica e tematica delle
prime opere del pittore di Volos (innegabile la parentela tra la
dechirichiana "Lotta di centauri" e la “Battaglia di centauri” del
maestro svizzero) mentre un’altra importante fonte d’ispirazione è
fornita dall’opera di Max Klinger, del quale lo colpisce
l'imprevedibilità negli accostamenti.
A Firenze de Chirico pone le basi della pittura metafisica realizzando
"Enigma di un pomeriggio d'autunno" (1910), capostipite dei suoi quadri
metafisici, e "L'enigma dell'oracolo" (1910). Attraverso spiazzanti
accostamenti di oggetti e rappresentazioni cariche di mistero e
inquietudine de Chirico provoca nel riguardante una sorta di “effetto di
straniamento” che mira ad esprimere la realtà che si nasconde dietro
l’apparenza sensibile. Nel periodo che va dal 1910 al 1913 vedono la
luce le famose “piazze d’Italia” opere percorse da incongruenze
prospettiche e abitate da figure inquietanti che denotano un senso di
solitudine sospesa, di angosciante attesa. Con il suo lavoro De Chirico
riesce a dare voce allo smarrimento dell’uomo del Novecento di fronte
alla modernità ed al progresso avanzante. La dimensione del sogno,
testimoniata dalla compresenza di elementi classici e moderni nei suoi
lavori, ed il senso di mistero che innervano la sua opera anticipano la
poetica dei surrealisti i quali in molti casi non nasconderanno
l’ascendenza dechirichiana delle loro opere. Nel periodo in cui
collabora con "Valori plastici", de Chirico abbandona le atmosfere
metafisiche a favore di una pittura figurativa di impianto più
tradizionale segnata da un classicismo che rinvia a Raffaello,
Tiziano, Lorenzo Lotto ed Arnold
Bocklin. Ultima misteriosa serie del maestro di Volos è quella dei
“bagni misteriosi” alla quale l’artista lavora negli anni Quaranta ,
Cinquanta e Sessanta, creando paesaggi balneari contrappuntati da
misteriose cabine sospese e piscine con l’acqua formata da una sorta di
pavimento a parquet.
F come Fattori. Giovanni Fattori è tra i massimi macchiaioli ed
è forse uno dei maggiori pittori italiani di tutto l’Ottocento. Pur
partecipando al movimento di pittori della “macchia” riesce a mantenersi
autonomo rispetto a qualsiasi inquadramento in correnti specifiche e a
programmi rigidamente vincolanti in nome di un eclettismo che lo guida
anche nella scelta delle tematiche. Di grande importanza sono per
Fattori i soggiorni presso la tenuta di Diego Martelli a Castiglioncello
durante i quali approfondisce la conoscenza di Giuseppe Abbati, con il
quale effettua studi sia sugli animali da lavoro che sui toni del
bianco.
La storia ha una parte importante all’interno della sua produzione come
dimostra un capolavoro come “Il campo italiano dopo la battaglia di
Magenta”, lavoro del 1861 con il quale vince il concorso Ricasoli,
bandito dal Governo provvisorio della Toscana. Il quadro, evitando la
scelta scontata di raffigurare i momenti decisivi dell’assalto della
guardia di Napoleone III contro le forze austriache al ponte di Magenta,
ritrae, sfuggendo magniloquenti accenti eroici, il movimento confuso dei
soldati nelle retrovie. Nel 1866 Fattori realizza una delle più famose
opere macchiaiole “La rotonda di Palmieri” in cui raffigura un gruppo di
donne al sole, ritratte in uno dei più conosciuti stabilimenti balneari
di Livorno, con macchie sintetiche che costruiscono le varie figure e
determinano l’andamento ritmico del dipinto.
Tra il 1876 ed il 1880 dipinge “La battaglia di Custoza”, opera
caratterizzata da un realismo freddo e aspro. La resa della realtà
connota anche uno dei massimi capolavori di Giovanni Fattori “In
vedetta” (1872), dipinto occupato quasi completamente dalla massa chiara
del muro su cui risalta un soldato a cavallo in un lavoro dominata dalla
abbagliante intensità del bianco della parete in muratura e del terreno.
Fattori non è insensibile alla dura fatica quotidiana dei butteri e a
quella degli animali da lavoro che pone al centro di una serie di opere
in cui tra l'altro esalta la vita dei contadini maremmani ed a cui
appartengono capolavori quali “La marcatura dei puledri in Maremma”
(1887) e “Il riposo” (1887).
Dopo il 1880 anche la sua pittura dei paesaggi toscani viene percorsa da
un nuovo accento drammatico come dimostra “La libecciata” (1880-1885),
in cui a dominare su tutto è la violenza con cui il vento scuote gli
alberi in primo piano.
Non mancano i dolenti pensieri sulla vita e sulla morte che si
sostanziano nel mare agitato e nel tramonto plumbeo di “Marina al
tramonto” (1890-95) o in lavori quali “Scoppio del cassone” (1880) e
“Staffato” (1879).
F come Fellini. Il disegno ha sempre avuto un ruolo
preponderante nella carriera di Federico Fellini. La passione per la
grafica è assai precoce: già a nove anni Fellini dava prova della
propria capacità disegnando donne procaci ed eroi dei fumetti. In
seguito si specializza nel realizzare caricature che invia al
supplemento del “Corriere della Sera” e che gli permettono di
soggiornare a Firenze nel 1937 (grazie ai soldi che riceve dal periodico
satirico “420”). Una buona notorietà gli viene garantita, poi, dal suo
lavoro come vignettista per il giornale satirico “Il Marc’Aurelio”, con
cui comincia a collaborare dal 1939, anno del suo trasferimento a Roma.
I tre anni di collaborazione con la rivista sono molto intensi: Fellini
crea rubriche e personaggi, scrive racconti ed intervista attori e
registi. Anche quando è oramai un regista affermato continua a disegnare
poiché la sua creatività passa sempre attraverso l’opera grafica :
realizza schizzi per fermare sulla carta un’idea che ha avuto o per
lasciare direttive ai collaboratori o anche anche per tornare con la
mente ad un film già realizzato o rielaborare vecchie sensazioni.
Federico Fellini è uno dei registi italiani più apprezzati all’estero
con cinque oscar vinti ( “La strada” nel 1957, “Le notti di Cabiria” nel
1958, “8 e ½” nel 1964, “Amarcord” nel 1975 e un oscar alla carriera nel
1993) e con la rivista “Sight and Sound” che inserisce “8 e ½” e “La
strada” tra i migliori film di sempre. Dopo aver diretto insieme ad
Alberto Lattuada il film “Luci del varietà” firma il suo vero e proprio
esordio dietro la macchina da presa con “Lo sceicco bianco” (1952)
mentre l’anno seguente dirige “I vitelloni”, film che ottiene il Leone
d’argento a Venezia. Nel 1954 realizza la commovente favola realistica
“La strada”, film “on the road” che racconta la vita vagabonda di
Gelsomina, ingenua fanciulla venduta dalla propria famiglia al violento
Zampanò, artista circense che si esibisce in numeri di forza seguito
l’anno seguente dall’amara riflessione su una società che schiaccia i
più deboli de “Il bidone”. Grande successo ottiene anche “Le notti di
Cabiria” (1957) in cui realizza un toccante ritratto di una prostituta
dal cuore d’oro e due anni dopo realizza un’opera che segna la storia
del cinema mondiale “La dolce vita”, affresco della amata ed odiata alta
borghesia romana declinato attraverso lo sguardo di un giornalista di
cronaca rosa. Con “8 e ½”, attraverso il racconto della storia di un
regista in crisi, analizza le ossessioni e la crisi di un artista. Dopo
il suo primo film a colori, “Giulietta degli spiriti”, realizza il
visionario “Fellini satyricon” condito da un ideale di liberazione di
ispirazione hippy. Altro grande successo lo ottiene con il nostalgico
viaggio nei ricordi “Amarcord” (1973) in cui ripercorre un anno di vita
in una cittadina che è chiaramente la Rimini della sua infanzia. Seguono
“Casanova” (1976), “La città delle donne” (1979), opera in cui
attraverso una struttura onirica cerca di penetrare la psiche femminile,
“E la nave va” (1983), “Ginger e Fred” (1986) fino alla poesia finale
affidata ai due grandi comici
Roberto Benigni e
Paolo Villaggio ne “La voce della luna”
(1990).
I come Impegno. La critica ha spesso sottolineato la
consonanza tra la ceramica policroma di Leoncillo Leonardi “Madre romana
uccisa dai tedeschi” e le struggenti immagini del capolavoro del
neorealismo “Roma città aperta” di
Roberto Rossellini. Scultura e film
condividono lo stesso senso del dramma, lo stesso dolore e la stessa
rabbia per una violenza atroce e gratuita che schiaccia ed avvilisce
qualsiasi traccia di umanità. L’arte di Leoncillo è sempre stata
contrassegnata da un forte impegno politico, spesso declinato in ambito
resistenziale, come dimostra un’altra delle sue opere più importanti il
monumento alla “partigiana veneta” di Venezia, distrutto da un attentato
nel 1962. La carriera artistica di Leoncillo Leonardi è inizialmente
segnata dall’utilizzo della ceramica, tecnica alla quale rimase legato
per gran parte della carriera, che era stata la materia fondamentale nel
periodo in cui era stato direttore di una manifattura di ceramiche ad
Umbertide tra il 1939 ed il 1942. Dopo un’iniziale adesione alla scuola
romana, in cui esibisce una scultura di ascendenza espressionista, vive
un’importante stagione “neocubista” prima di approdare ad una ricerca di
tipo “informale”. Prende parte al “Fronte nuovo delle arti”, corrente
formata da artisti per lo più vicini al Partito Comunista che
intendevano fare di pittura e scultura un mezzo di rinnovamento sociale
in grado di partecipare alla ricostruzione politico-sociale dell’Italia.
In seguito la sua esigenza di liberarsi da qualsiasi schema figurativo
per dar espressione agli strati più profondi dell’anima lo porta a
vivere un’importante periodo plastico-scultoreo in ambito informale.
L come Levi. Uomo di vastissima cultura, Carlo Levi è
medico (si laurea in medicina nel 1924 ma esercita solo per pochi anni),
pittore e scrittore. La sua opera letteraria ha la sua punta più alta
nel romanzo “Cristo si è fermato a Eboli” racconto del periodo passato,
da confinato politico, in Lucania tra il 1935 ed il 1936. L'opera
descrive il mondo arcaico di una regione dell’Italia che dal progresso è
stata tenuta fuori: come dice ironicamente la popolazione di quei luoghi
abbandonati da Dio “Cristo si è fermato a Eboli”. Visita Parigi e
conosce
Amedeo Modigliani e nel 1929 aderisce al Gruppo dei Sei di Torino.
Nel 1935 per la sua partecipazione a “Giustizia e libertà” viene
condannato al confino da scontarsi in Lucania. La permanenza coatta in
Lucania gli offre l’occasione per eseguire magistrali ritratti della
povera gente del luogo. Nel periodo successivo si trasferisce in Francia
dove rimane fino al 1941. Nel 1954 alla Biennale di Venezia gli viene
dedicata una sala personale. Nel 1965 prende parte alla mostra “I sei di
Torino 1929-1932” tenutasi presso la Galleria Civica d’Arte Moderna di
Torino. Nel 1973 subisce un distacco della retina che gli procura una
temporanea cecità. Nella parte finale della sua attività realizza una
serie di ritratti di rilevanti personalità della cultura e dell’arte.
M come Mauri. L’arte di Fabio Mauri si caratterizza per
un continuo trapasso da un mezzo espressivo ad un altro, dalla scrittura
alla performance, dal dipinto all’opera d’arte ambientale, in un
eclettico ed errante discorso artistico che registra i fatti e la realtà
del Novecento restituendoli attraverso il filtro di un rigoroso occhio
critico. L’esperienza artistica è intesa quale mezzo di confronto con il
mondo contemporaneo e di affermazione di un ideale politico che
all’occorrenza diventa esplicita protesta morale.
L’artista romano sviluppa una ricerca sempre innovativa ed
all’avanguardia che tocca vertici di originalità nei famosi “schermi”,
fatti di tela, legno e smalto, che rinviano a schermi cinematografici,
e possono essere dei semplici monocromi completamente bianchi o dei
monocromi bianchi recanti la scritta “The end”.
Lo schermo candido ed intonso non invia messaggi allo spettatore ma è
pronto a riceverne, è preparato ad accogliere le immagini che vengono
proiettate, ma questa attesa sembra vana, l’incomunicabilità che
attanaglia la vita moderna non può che produrre un film privo di
immagini ed una tela sconsolatamente bianca. Il suo impegno
intellettuale lo porta a contatto con una delle più importanti
personalità della cultura italiana del Novecento come quella di Pier
Paolo Pasolini con il quale fonda le riviste “Il setaccio”, “Quindici” e
“La città di Riga”. Altra opera di straordinaria originalità è “Muro
occidentale o del pianto” del 1993 un’installazione formata da un “muro”
di valigie che rinvia sia ai tanti muri che hanno diviso il mondo
(ultimo in ordine di tempo quello di Berlino) sia al dramma di chi è
costretto ad abbandonare il proprio paese ed a vivere errando. A livello
di “performance” tra le più importanti vi è sicuramente “Ebrea” con la
protagonista che si taglia i capelli e compone sullo specchio la stella
di David. Altra opera dotata di notevole valore di protesta etica è la
corrosiva “Arierwaage” (“macchina per misurare ariani”) che presenta
alla mostra “After Auschwitz” a Londra, Edimburgo, Berlino e Potsdam.
Tra i suoi libri d’artista ricordiamo “Linguaggio è guerra” (1975).
O come Ottone. E’ una Firenze dimessa e minore quella
campeggia nei quadri di Ottone Rosai: squarci cittadini dove si
svolge una vita umile e quotidiana ed in cui sono inseriti uomini
semplici. I paesaggi toscani dominano i quadri del pittore fiorentino e
trasmettono allo spettatore l’atmosfera che si respirava nelle strade di
Firenze. Sono opere realizzate in uno stile arcaico che riconducono la
pittura ad una dimensione fondata su forme elementari e che dietro i
paesaggi poveri esprimono un’idea di vita intesa come dolore e
conflitto. La fortuna critica di queste opere di Rosai è stata nel corso
degli anni oscillante: alcuni hanno tentato di restringerne la portata
entro i limiti della definizione di quadri naif mentre altri hanno
esaltato il pittore come erede dei grandi pittori fiorentini del
Quattrocento facendo i nomi di Giotto e Masaccio. La prima parte della
sua carriera artistica era stata contrassegnata da una breve ma
importante stagione futurista, in cui fa suoi procedimenti tipici delle
avanguardie come nel famoso “collage” “Bar San Marco” del 1914.
P come Pasolini. Che Pier Paolo Pasolini fosse un
artista eclettico (capace di realizzare opere epocali tanto al cinema
che in letteratura e teatro) lo si sapeva ma che fosse anche un valido
disegnatore forse era noto a pochi. La mostra “Il cinema dei pittori. Le
arti e il cinema italiano 1940-1980” al castello Pasquini di
Castiglioncello presenta ora l’ importante produzione grafica del
regista di Bologna formata da autoritratti e ritratti (tra i quali
quelli di Franco Citti, Ninetto Davoli e Roberto Longhi). Il disegno
dunque rappresenta l’ennesima forma espressiva che dà voce al mondo
interiore di un intellettuale ed artista che ha percorso
entusiasticamente le ideologie, le sperimentazioni e le sollecitazioni
culturali dell’epoca in cui è vissuto. La sua fama è inizialmente legata
al lavoro letterario per via del successo che riscuotono al loro
apparire “Ragazzi di vita” (1955) e “Una vita violenta” (1959) che
seguono la raccolta di poesie in dialetto friulano (era anche uno
studioso delle tradizioni e della poesia popolare) “La meglio gioventù”
uscita nel 1954. La sua attività cinematografica comincia nel 1961 anno
in cui dirige “Accattone”, inizio della sua epopea del sottoproletariato
romano di cui mette in risalto la “disperata vitalità”. Nella classe dei
disperati che sono stati tenuti al di fuori del progresso Pasolini
identifica quei valori sani del mondo contadino precedente all’avvento
del capitalismo che contrappone alla violenza del mondo
industrializzato.
Nel 1962 dirige “Mamma Roma”, film reso memorabile dalla presenza di una
straordinaria Anna Magnani mentre nel 1964 realizza “Il vangelo secondo
Matteo”. Un grande
Totò
contribuisce con la sua amara comicità al tono leggero e
fantastico-ironico di “Uccellacci e uccellini” (1966) pellicola che
affronta la crisi del marxismo e la questione del ruolo degli
intellettuali. Seguono “Edipo re” (1967), “Teorema” (1968) e
“Porcile”(1969). Negli anni Settanta realizza la “trilogia della vita”
adattando classici della letteratura in pellicole quali “Decameron”
(1971), “I racconti di Canterbury” (1972) e “Il fiore delle mille e una
notte” (1974) prima di chiudere la sua carriera cinematografica, poco
prima della morte, con l’inquietante “Salò o le 120 giornate di Sodoma”.
Tra le sue opere teatrali ricordiamo “Bestia da stile”, “Porcile”,
“Orgia”, “Il Pilade” e “Affabulazione”.
R come Rotella. Al cinema Mimmo Rotella ha dedicato
alcune delle sue opere migliori da “La dolce vita”, alla serie dedicata
a Marilyn Monroe, al ciclo “Felliniana”. Il legame con la settima arte è
per il pittore di Catanzaro inevitabile per via della sua tecnica del “decollage”,
consistente nello strappare manifesti in strada, portarli nel suo
studio, sottoporli ad una nuova serie di strappi e ricomporli sulla
tela: in questa maniera il brandello di poster che un tempo era
interessante perché attuale riacquista una sua dignità nell’essere
elevato al rango di opera d’arte. E’ quella di Rotella un’operazione che
mira al recupero di quel mondo magico e mitico che riempiva la fantasia
dei nostri avi ma che con il passare del tempo è andato perduto. Come
sostiene lo stesso artista: “…Strappare manifesti dai muri è la sola
compensazione, l’unico modo di protestare contro una società che ha
perduto il gusto del cambiamento e delle trasformazioni favolose…” La
sua innovativa opera fa di Mimmo Rotella uno degli “affichistes” più
famosi a livello internazionale, apprezzatissimo per le valenze pop e
dada che la sua operazione comporta. Anche nel campo della poesia
concreta sono famosi i suoi “poemi epistaltici”, vere e proprie liriche
fonetiche. La tecnica del "decollage" nasce nel 1953 dopo un periodo
trascorso negli Stati Uniti durante il quale realizza un'opera murale
nell'aula di geologia e fisica dell'università di Kansas City. Partecipa
alla mostra dedicata al "Nouveau rèalisme" che si tiene alla Sidney
Janis Gallery di New York nel 1961 (anno in cui è presente anche a "The
art of assemblage" al Museum of Modern art di New York) e nel 1964
partecipa alla Biennale di Venezia (dove torna nel 2001 con sala
personale). E' presente anche all'importante mostra "Vitalità del
negativo nell'arte italiana 1960/70" curata da Achille Bonito Oliva e
tenutasi al Palazzo delle Esposizioni nel 1970. Nel 1972 esce il suo
libro "autorotella" e nel 1975 incide un disco con i suoi poemi
fonetici. Realizza una nuova serie di opere chiamate "coperture"
costituite da manifesti pubblicitari occultati da fogli bianchi che nel
1980 espone a Milano alla Galleria Marconi e alla Galleria Denise Renè
di Parigi. Tiene importanti personali al Museo Ludwig di Colonia (1994),
al Kunstverein di Stoccarda (1998), al Museo d'arte moderna e
contemporanea di Nizza (1999), alla Galleria Binz Kramer di Colonia
(2001). Tra le collettive a cui ha partecipato ricordiamo "Arte italiana
del XX secolo" alla Royal Academy di Londra (1989),"Pop art" sempre alla
Royal Academy di Londra (1991), "The italian metamorphosis 1943-1968" al
Solomon Guggenheim Museum di New York (1994) e "Art e film" al Museum of
contemporary art di Los Angeles (1996).
S come Schifano. I rapporti di Mario Schifano con il
cinema erano strettissimi. Come lo erano i suoi rapporti con la
televisione. Ma si può dire che tutto ciò che produce immagini abbia
avuto un ruolo fondamentale per l’artista di Homs, che dalle immagini si
faceva bombardare: aveva televisori (che rimanevano accesi ventiquattro
ore su ventiquattro) in tutte le stanze. Lui era lì pronto a catturare
l’immagine, la sequenza che più lo colpiva per poi renderla nei suoi
quadri, per restituirci ciò che i massmedia ci scaricano addosso a getto
continuo attraverso il filtro di una coscienza critica intrisa di valori
spirituali e impegno sociale. Non si può parlare di Mario Schifano e del
cinema senza tener conto di questa sua, quasi fideistica, devozione
all’immagine (cinematografica, televisiva, pittorica che sia), e
dell’influenza che i filmati e le riprese cinematografiche e televisive
avevano sul suo fare artistico. Era sempre nel disordinato magma della
vita contemporanea e si immergeva dentro ogni avvenimento, senza
mediazioni né distanze, per cercare di dare un ordine alle cose, di
raggiungere il senso dei fatti e della vita attraverso le immagini
catturate. Così, ad esempio, durante la guerra del Golfo del 1991 nasce
la serie di dipinti di case in fiamme, evidentemente ispirata alle
immagini delle case irachene dopo i bombardamenti, che il suo occhio
sapiente aveva innalzato a simbolo del dolore e della disperazione
portati dalla guerra. Come ricorda la moglie Monica De Bei Schifano
“…Scattava foto in continuazione, a me, alla televisione, agli amici.
Per me è stato conoscere e imparare un nuovo modo di guardare…” (“Mario
Schifano Tutto”, Electa, Milano, 2001). Le immagini filmiche avevano per
lui il pregio di parlare un linguaggio più diretto, più esplicito di
quelle pittoriche e gli permettevano di raggiungere un tipo di pubblico
che non sarebbe stato altrimenti raggiunto da un messaggio che
necessitava di essere codificato. Dal 1964 Schifano comincia a dedicarsi
a lavori cinematografici, con la realizzazione del primo importante
lungometraggio, “Anna Carini vista in agosto dalle farfalle”, che
presenta allo Studio Marconi di Milano nel 1967. In seguito realizza
un’importante trilogia di film composta da “Satellite”, “Umano non
umano” e “Trapianto, consunzione e morte di Franco Brocani”. Negli anni
Settanta sviluppa una tecnica pittorica consistente nel riportare
immagini televisive su tela emulsionata per poi sottoporle a ritocchi
con colori alla nitro, producendo un effetto di straniamento. Nato in
Libia, ad Homs, Mario Schifano si trasferisce presto a Roma, dove lascia
la scuola per aiutare il padre, archeologo restauratore presso il Museo
Etrusco di Valle Giulia. Nel 1959 tiene la sua prima personale alla
Galleria Appia Antica di Roma, mentre nel 1960 espone alla Galleria La
Salita insieme a Franco Angeli, Tano Festa, Francesco Lo Savio e
Giuseppe Uncini. E’ il periodo in cui realizza dipinti caratterizzati da
un notevole spessore materico e dalle sue tipiche “sgocciolature”.
Comincia poi la serie dei “monocromi” per i quali Maurizo Calvesi scrive
ne “Le due avanguardie”: “…Quadro vuoto da cui partiva Schifano fa
pensare alla classica “tabula rasa”, che gli antichi paragonavano alla
tavoletta di cera su cui i segni della conoscenza dovevano imprimersi…”
In seguito i “monocromi” saranno arricchiti da lettere, numeri e simboli
della società dei consumi. Nel 1962 è negli Stati Uniti dove espone
nella mostra “The New Realist” alla Sidney Janis Gallery e conosce la
Pop Art. Al 1964 risale la sua prima partecipazione alla Biennale di
Venezia. In questo periodo vede la luce il suo famoso ciclo pittorico
dedicato al Futurismo (“il Futurismo rivisitato”) e comincia il suo
importante lavoro sulla comunicazione di massa (cartelloni pubblicitari,
segnaletica stradale, immagini televisive e cinematografiche…). Nel 1968
partecipa alla collettiva “Fuoco, Immagine, Acqua, Terra” alla Galleria
L’Attico di Roma e nel 1971 a “Vitalità del negativo” a Palazzo delle
Esposizioni sempre a Roma. Nel 1978 è presente alla Biennale di Venezia
(dove torna nel 1982 e nel 1984) e nel 1981 partecipa alla mostra
“Identità italienne” al Centre Pompidou di Parigi. Nel 1989 partecipa
alla rassegna “Arte italiana nel XX secolo” alla Royal Academy di Londra
e nel 1990 al Palazzo delle Esposizioni di Roma viene organizzata la sua
mostra intitolata “Divulgare”.
S come Seicento. Frati, mendicanti, lavandaie, zingari,
realizzati con rapide pennellate popolano i paesaggi, spesso realizzati
da collaboratori quali Marco Ricci o Antonio Francesco Peruzzini, dei
dipinti di Alessandro Magnasco (1667-1749). I quadri del pittore
genovese sono intrisi di un’atmosfera drammatica non esente da una
pungente vena satirica. Il romano Orazio Borgianni (1578-1616) mostra
una forte influenza caravaggesca che si esprime in uno stile
contrappuntato da un violento luminismo e da un allungamento delle
figure ispirato all’opera di El Greco, caratteristiche che conferiscono
un tono visionario alle opere.
T come Tonalità. Non si può parlare di Yves Klein senza
parlare del blu, del suo blu, di quella particolare tonalità del colore
da lui scoperta e brevettata con il nome di “International Blue Klein”.
Il colore diviene una costante dei suoi lavori ed è utilizzato anche
nelle “Anthropometries” tracce sulla carta lasciate da modelle che in
precedenza erano state cosparse del colore creato dall’artista di
Nizza. La cultura di Klein è segnata da un forte nomadismo (viaggia in
Italia, Spagna e Inghilterra) e da una profonda conoscenza delle
filosofie orientali (nel 1953 consegue il 4° dan di judo e l’anno dopo
scrive “Les Fondements du judo”). Per lo sviluppo del suo pensiero ha
notevole importanza anche l’accostamento alle teorie del movimento dei “Rosa-croce”.
La sua pittura viene impostata su di una rigorosa eliminazione di
qualsiasi traccia di figurazione in favore di una monocromia assoluta in
cui è la tonalità a conferire messaggi e dimensioni all’opera. Autore di
opere provocatorie ed altamente ironiche come le “sculture d’aria”
(1962) Yves Klein è tra i fondatori del “Nouveau Rèalisme”. La sua
aspirazione alla massima libertà espressiva lo porta a realizzare anche
“happening” di ispirazione New Dada.
V come Volpedo. Con il “Quarto stato” Giuseppe Pellizza
da Volpedo realizza un autentico inno all’ascesa del proletariato,
un’opera segnata da una forte componente politico-sociale e da uno
schietto verismo che innalzano l’ artista ad autentico paladino dei
deboli e degli oppressi. Il dipinto testimonia il suo avvicinamento al
socialismo, attraverso la rappresentazione della marcia travolgente dei
lavoratori verso l' emancipazione ed il riscatto sociale, che è
dichiarato pure in opere quali “Gli ambasciatori della fame” e
“Fiumana”. Fondamentale per la qualità del suo lavoro pittorico è
l’incontro con la tecnica divisionista che lo spinge verso un
trattamento più mentale ed intellettuale del reale: la sua opera,
insomma, da un verismo assoluto vira verso una rappresentazione del
reale più mentale ed intellettuale. Il suo lavoro si contraddistingue
per un moderato simbolismo. Una lettura in senso simbolista della sua
opera, che può venir data anche del suo capolavoro “Il quarto stato”
(1896-1901) in cui la marcia dei lavoratori va intesa nel senso della
rappresentazione emblematica delle rivendicazioni e delle lotte delle
classi povere, diviene indispensabile per lavori come “Lo specchio della
vita. E ciò che fa la prima, e le altre fanno” (1895-1898), in cui il
titolo rinvia al terzo canto del purgatorio di
Dante “…E ciò che fa la prima, e
l’altre fanno,/addossandosi a lei, s’ella s’arresta,/semplici e quete, e
lo ‘mperché non sanno…” e “Speranze deluse” con la contadinella in primo
piano che, intenta a dar da mangiare alle sue pecore volta le spalle ad
un corteo nuziale, forse quello del suo amante che le ha preferito
un’altra donna. Fabio Massimo Penna
per www.fondazioneitaliani.it |