Nel 1795 una sola strada
scende da Nibbiaia verso il Chioma ed è denominata: “strada che da
Nibbiaia conduce a Livorno”; la stessa la ritroviamo circa trent’anni
più tardi indicata nel catasto Leopoldino con il nome di: “Strada che va
a Montenero” ed ancora: “Via delle Corazze” nel Nuovo Catasto Toscano
del 1941. Questa strada esiste ancora oggi, ma, per lo stato in cui
versa, appare difficile immaginarla carrabile anche nel periodo del suo
pieno utilizzo. In alcuni tratti (loc. Debbione) mantiene un buon
acciottolato mentre più a valle, in epoca recente, è stata deviata per
passare davanti a casa Ciambelli e quindi ritornare, negli ultimi 50
metri prima del guado, nel tracciato originario. Testimonianze raccolte
in zona ci dicono che fino ai primi anni del secolo questa strada era
abitualmente percorsa, “a piedi”, dalle donne di Castelnuovo della M.dia
e Gabbro per recarsi a Livorno a vendere i prodotti dei campi.
(Da "La
Valle del Chioma" scaricabile dal sito).
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Mamma Isolina, la gabbrigiana coraggiosa.
Per raggiungere Livorno dalla frazione collinare del Gabbro oggi, in
auto, s'impiega poco più di un quarto d'ora: strade asfaltate, seppur
piene di curve. Sono appena diciassette chilometri. Però, oltre un
secolo fa - parliamo degli anni precedenti la Grande Guerra - non era
così e farli a piedi, andata e ritorno, ogni mattina, col sole o la
pioggia, il freddo od il caldo era un'impresa. Eppure per Isolina,
analfabeta, madre di cinque figli, il marito rinchiuso a vita
nell'Ospedale psichiatrico di Volterra per aver litigato con un
carabiniere, la sveglia suonava alle tre e mezzo
del mattino. Alle sei, puntuale, era al Mercato proprio per sistemarsi
nel posto migliore e vendere i suoi polli. Già i polli. Erano il
sostentamento dell'intera famiglia. Ma per vincere la concorrenza, non
bastava mettersi in prima fila. E lei, l'aveva capito subito. Alla gente
garbava comprarli già spennati e non fare alcuna fatica. Così, nel
pomeriggio precedente, li spennava uno ad uno, li sistemava in tre
grosse ceste, una per ciascun braccio e l'altra sulla testa e via per la
strada ch'era ancora buio.Poi, venduta l'intera mercanzia, di nuovo -
stavolta in salita - per arrivare a casa, mettere a tavola i ragazzi e
cominciare a spennare altri polli. In silenzio, sempre, senza mai
lamentarsi. Lei era una Franceschi, la famiglia veniva dalla Corsica,
gente tosta, che non si piegava certo per la stanchezza e comunque, per
i figli, avrebbe fatto ben altro. Questa è stata un'altra storia. Quella
più dolorosa cominciò, invece, qualche mese prima dell'entrata in guerra
da parte dell'Italia. La "cartolina" dell'Ufficio di Leva, una tragedia
per tanti giovani, giunse puntuale. Primo e Secondo, i figli più grandi
( per non sbagliare, i successivi li aveva chiamati Terzo, Quarto e
Quinto)sarebbero dovuti partire di lì a breve per arruolarsi e
combattere. Come avrebbe fatto la famiglia ad andare avanti? Isolina ne
parlò, angosciata, dal vinaio, il ritrovo un po' dell'intero paese. Si
conoscevano tutti. Gente contadina, semplice. I più anziani avevano
fatto il soldato e conoscevano il mondo. "L'unico modo per non partire -
le disse l'oste - è che si tolgano i denti davanti. Senza denti, non si
fa il soldato". La donna rimase di stucco. Non se l'aspettava, non
poteva credere alle proprie orecchie. Non sapeva se fosse un bene od un
male. Uscì subito, ancora più confusa di quanto era entrata. A casa
chiamò i due giovani e raccontò del suggerimento dell'oste. I due la
guardarono sbigottiti. Con uno sguardo, cercò di rassicurarli. D'altra
parte non esistevano alternative. "Mamma - risposero decisi - meglio
senza denti, ma vivi, piuttosto che con i denti, però morti sotto le
cannonate". Erano giovani tutti d'un pezzo, che sapevano affrontare le
difficoltà ed ogni giorno si spaccavano la schiena allo scopo di sfamare
i loro fratelli. Dunque, fu deciso così, senza tentennamenti. Isolina li
vide andar via. Non riuscì a dire nulla, una scelta drammatica. Poi,
silenzio. Ma l'attesa non si protrasse a lungo. Passò un'ora e li vide
tornare. Da lontano, comprese cosa erano stati costretti a fare. Se li
trovò davanti, irriconoscibili. I volti tumefatti dai colpi del badile,
due maschere di sangue ed ancora quelle bocche orrende senza più i
denti. Cercò d'abbracciarli, si trattenne, non voleva umiliarli.
Sputavano bava rossa, ma lo sguardo era fermo, nessun lamento. Erano
Franceschi, erano còrsi. Una notte tremenda, angosciante, poi il giorno
seguente nei campi. Non c'era tempo per pensare. Fu il giorno dopo che
cominciarono ad avere febbre. Dovettero tornare a casa, si sentivano
deboli. Isolina preparò degli sciacqui con acqua e malva per
disinfettare le ferite. Però la temperatura saliva. Erano sdraiati sui
letti. Mise loro delle bende d'acqua fredda in fronte, tentando di far
calare la febbre. Niente. Ed il giorno dopo ancora, la situazione
cominciò a peggiorare, scottavano entrambi, gli occhi cominciarono a
perdere lucidità, parlavano a fatica. Cercò di farli bere con la brocca
dell'acqua, pochi sorsi, esausti. Iniziarono a tremare, sembravano
convulsioni, li tenne al caldo con le coperte di lana. L'agonia andò
avanti qualche giorno, poi il respiro si fece flebile e nell'arco di
alcune ore chiusero gli occhi per sempre. Isolina non versò una lacrima.
Rimase composta. Doveva mandare avanti la vita di casa e c'erano altre
bocche da sfamare. Li seppellì in fretta. Perché il giorno successivo
doveva andare al mercato. Cominciò a spennare i polli, per non pensare.
Quando ritornò al Gabbro, andò come sempre dal prete. Era lui che
l'aiutava a scrivere le lettere al marito, che rispondeva grazie
all'aiuto del capo delle guardie. Così, fino alla sua morte. I familiari
oggi hanno un carteggio di cinquecento lettere, un amore infinito che
qualcuno ha riportato in uno struggente lavoro teatrale. Gente d'altri
tempi. Erano còrsi. Questo sì.
Gian Ugo Berti - Il Tirreno
1/3/2020.
Da una ricerca molto
capillare, dal 1592 al 1926 (anagrafico Gabbro): le donne appartenenti
alle famiglie Franceschi nate a Gabbro, non possono essere madri dei due
ragazzi, in quanto decedute tutte in tenera età. Questo fa supporre che
la citata Isola Franceschi avesse residenza a Nibbiaia e fosse nata in
Corsica. (Grazie a
Corrado Palomba per la ricerca).
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LA SPAGNOLA AL GABBRO
La mia bisnonna si chiamava Alessandra Banti, detta 'la vizza' per
l'estrema magrezza. Donna energica, probabilmente non proprio bella, si
sposò in tarda età con Giovanni Martelloni, detto 'Nanni'. Non si arrese
quando lei e tutta la famiglia contrassero la 'spagnola' dell'estate
1918. Sostenevano che a salvarli fosse stata una dieta sana a base di
Pomodori, vino ed aglio. In realtà la spagnola mieteva vittime nelle
persone di mezza età, quelli che allora avevano una trentina d'anni o
poco più. Né la vizza ed il marito Nanni, né le figlie Fenisia e Assunta
erano troppo o poco giovani per rimanere colpiti in modo fatale dalla
grande mietitrice. Tutti e quattro si ammalarono senza grandi
complicazioni polmonari. Assunta, la più giovane e intraprendente, una
volta guarita si precipitò al Lazzaretto del Gabbro (probabilmente villa
Mirabella) dove prestò assistenza agli sfortunati degenti: ".... come
stai?", mia nonna assunta mi raccontava, "bene", rispose lui "ho
mangiato e bevuto e in corpo segano e, segano ancora". ".. poi morì.."
era la frase che ogni volta, con angoscia ed incredulità, ci raccontava
mia nonna per descrivere l'improvvisa morte che sopraggiungeva,
silenziosa, nascosta, traditrice ed inattesa in quegli sventurati
ammalati di spagnola. Alessandro Lenzi aprile 2019.
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Le donne quando andavano a Livorno a vendere polli e uova indossavano le
sciarpe per proteggere la bocca e il naso. La grande guerra e la
"spagnola" Gabbro pioniere nelle mascherine.
Per non ammalarsi di "spagnola" (l'epidemia che durante la Grande guerra
provocò oltre 50 milioni di vittime), le donne del Gabbro venendo in
città a vendere polli e uova, usavano indossare solitamente una sciarpa
per ripararsi bocca e naso. Cento e più anni fa, però, la conoscenza dei
virus e del loro modo di trasmissione attraverso il respiro, erano
praticamente nulle fra la popolazione. Eppure, già a quei tempi, la
saggezza popolare aveva percepito come tutta quella gente poteva
sentirsi male attraverso l'unica via di comunicazione, ovvero l'aria che
respirava. Ma per la cronaca, c'è di più. La fatica del viaggio,
ovviamente a piedi con gli sportoni zeppi di mercanzia nelle mani, era
notevole. E loro, per sopravvivere e portare soldi a casa, non potevano
rinunciare a quel poco di guadagno. Dunque, come energetico, mettevano
del tabacco in un sacchetto di tela appositamente costruito con ago filo
ed appeso alla cintura. Trovavano giovamento e forza, prendendone via
via un poco fra le dita ed annusandolo, inspirandone l'odore. Chissà chi
glielo avrà detto. Eppure, al di là dell'indiscutibile saggezza
tramandata da generazioni, l'ipotesi che le malattie fossero legate
all'aria malsana risale a oltre duemila anni fa. Sì, perché questa
sensazione era già conosciuta dalla medicina barbarica. In seguito, i
Norreni (Vichinghi), durante le epidemie che colpirono la Scandinavia,
si difendevano coprendosi il volto, perché secondo la tradizione, il
"Male" giungeva col fiato. Inoltre, si deve a loro il termine
"Quarantena" od isolamento. Essendo infatti navigatori, quando tornavano
dalle spedizioni, venivano isolati per quaranta giorni in quanto il "40"
era un numero sacro per la loro religione. Nemmeno gli antichi Romani lo
sapevano. Fu solo Plinio il Vecchio (circa 23-79 dopo Cristo) a
descrivere l'uso di pelli di vescica animale per proteggere i lavoratori
delle miniere dalla polvere di ossido di piombo rosso. Ne parlava Marco
Polo nel 13° secolo con quelle di seta e filo d'oro quando, in Cina, si
servivano i pasti all'Imperatore. Dal canto suo, Leonardo da Vinci
inventò un panno immerso in acqua. La svolta si ebbe con la peste,
maschere con naso adunco per i medici, riempite d'armi e spezie
(Marsiglia) ed i becchini che trasportavano i corpi con stoffe avvolte
attorno a naso e bocca contro i cattivi odori nell'aria. Nel Medio Evo,
durante il quale la medicina era gestita nei monasteri, le donne delle
erbe o streghe, più a contatto di altri con i malati, usavano coprirsi
bocca e naso. Lo stesso Enrico VIII°, re d'Inghilterra, dovette gestire
per due volte a livello politico un'epidemia, di cui allora non si
conosceva niente, la cosiddetta "febbre anglica o inglese o sudor
anglicus, poiché il malato sudava copiosamente. La morte arrivava
solitamente entro 48 ore. Se superava la fase critica, aveva qualche
speranza di salvezza. In particolare, in occasione della drammatica
"influenza" che dimezzò la popolazione a Londra, per preservare la
monarchia si ritirò in campagna, pensando giustamente che l'aria salubre
avrebbe evitato in qualche modo il peggio. Conosceva la storia? Forse
sì, forse no. Una delle sue mogli, la regina Caterina d'Aragona, con le
sue tradizioni arabo - spagnole ne usò invece una speciale, oggi
paragonabile ad un "chador". Fu alla fine dell'800 che comparvero le
mascherine in sala operatoria, incapaci di bloccare l'emissione del
respiro sui lati. Cosa che avvenne nel 1910 con mascherine respiratorie
a chiusura ermetica. Furono usate per la prima volta durante l'epidemia
di "spagnola". Il modello prevedeva una legatura dietro l'orecchio e
filtro, prendendo spunto dalle maschere anti-gas. Fu invece un cinese
che s'inventò una garza aderente attorno al viso, Lien-Teh Wu. Da lì ad
oggi il passo è stato breve. Oggi sappiamo tutto, anche decidere di non
indossarle. Appare quindi chiaro come l'umanità si sia ingegnata, con i
mezzi e i tempi di ogni generazione. È sempre stata una semplice
intuizione, legata ad attente osservazioni. Ed allora ci chiediamo, ma
al Gabbro chi ha portato la notizia? È più probabile, con pieno merito,
che c'abbiano pensato da sé.
Gian Ugo Berti - Il Tirreno
14/2/2021. |