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                 La 
              villa si trova al n°13 di via Monti (ex via della Torre) lato est oltre il posteggio dell'Hotel villa Parisi, ed è irriconoscibile perchè 
              trasformata in pochi appartamenti ed interamente circondata da 
              piante alte. Solo la targa verde del nome al cancello la 
              identifica.  
              Nel 1905 risulta la vendita 
              di una villa "Il Ginepro" in via della Torre da Giorgio Rabitti a 
              Lara Comparetti Milani.
              Gli eredi Milani vivono ancora nella villa "Il bel verde". Da
              generazioni, i Milani, producevano cattedratici fatti in casa e si
              dedicavano a raffinati interessi culturali vivendo tranquillamente
              di rendita. La tenuta di Gigliola a Montespertoli, composta da 25
              poderi, aveva mantenuto intere generazioni di signori e letterati 
              della famiglia.
              D'estate, la famiglia Milani, trascorreva le vacanze nella villa
              “Il Ginepro” sul mare di Castiglioncello. Essendo una tribù
              numerosissima, si trascinavano dietro una fila di automobili e di
              aiutanti: cuoco, cameriera, servitore, autista, balia e
              istitutrice. Alla famiglia Milani apparteneva Luigi Milani 
              sovrintendente alle ricerche archeologiche, che aveva seguito gli 
              scavi durante la costruzione della ferrovia e quelli nel parco del 
              castello. Aveva, nei primi anni del '900 costruito il piccolo 
              Museo Nazionale di Castiglioncello e acquistato la villa in via Monti nella 
              quale la famiglia passava l'estate, compreso il nipote Lorenzo che 
              poi raggiunti i 20 anni da "signorino", rinuncerà ad 
              ogni ricchezza e sarà per la Chiesa, lo 
              scomodo "prete di Barbiana" impegnato nella scuola di 
              base per insegnare l'uso corretto della parola ai giovani 
              analfabeti della campagna, come strumento essenziale per il 
              riscatto dai 
              secolari soprusi perpetrati a loro danno e nemmeno percepiti a causa della ignoranza totale. Luigi 
				Filippo d’Amico su quella stagione a Castiglioncello
 “Sono di un anno più giovane rispetto a Lorenzo Milani, sono 
				nato nel 1924. Lui non stava molto con me e con un gruppetto di 
				romani che venivamo solo in villeggiatura. Era più 
				castiglioncellese di noi perché aveva la casa di proprietà 
				quando pochi ce l’avevano e per questo ci passava lunghi 
				periodi. Anche i Pavolini, che sono stati fra i pionieri di 
				Castiglioncello con il nonno di Luca, il papà di Marcella Hannau, 
				affittavano un villino di proprietà dei Gualandi di Bologna. 
				Solo l’avvocato Di Rienzo aveva una casa propria e i Trapani 
				perché il nonno Ciuti aveva una bella villetta che poi divise 
				fra le due figlie.
 Il gruppetto di cui facevo parte era composto da Luca Pavolini, 
				Carlo Ungaro, Giorgio Menicatti, Renato Di Rienzo, Vincenzo de 
				Persiis Vona, Franco Fontana e Gianfranco Dadolino Gilardini, 
				tutti ragazzini dagli Otto ai quindici-sedici anni. Lorenzo non 
				stava molto con noi perché eravamo irrequieti, rubavamo le 
				pesche, facevamo scherzi, insomma combinavamo dei guai.
 Fin da allora era più serio, non giocava a carte e stava molto 
				con i cugini nei giardini delle loro ville oppure andava sul suo 
				barchino. Oltre a noi c’erano i nostri coetanei Spadolini, i 
				Fanciulli, gli eredi Fucini, i Valori, i Castelnuovo Tedesco. Al 
				Quercetano si andava poco, stavamo quasi esclusivamente 
				all’interno del promontorio che inizialmente era tutto del 
				barone Patrone. Fu lui che cominciò a regalare dei lotti di 
				terreno a condizione che vi fossero costruite delle ville. Anche 
				per quanto riguarda i Milani credo che sia andata così benché io 
				sia arrivato solo nel 1932 quando il barone aveva già venduto ai 
				Birindelli che poi cedettero ai Pasquini.
 Prima la mia famiglia andava al Forte dei Marmi che allora era 
				molto più caro di Castiglioncello che pure stava già diventando 
				una località alla moda. C’erano i Budini Gattai, i Sanseverino, 
				i Bossi Pucci, i Ginori e anche grossi imprenditori come Romiti 
				che aveva l’appalto per imponenti lavori pubblici a Spalato.
 Nel 1934 o ‘35 comprarono una villa gli Ungaro mentre i nobili 
				Coletti dal 1933 al ‘36 ristrutturarono villa “Godilonda” che 
				nel dopoguerra diventerà di proprietà dei Bulgari, la nota 
				famiglia di gioiellieri. I fratelli Luigi e Eugenio Trapani 
				ebbero degli appalti a Sabaudia e grazie a quelli l’ingegner 
				Luigi, padre del futuro regista televisivo Enzo, riuscì a 
				comprarsi una villetta mentre il fratello Eugenio ebbe dal 
				suocero Ciuti metà di quella di sua proprietà. Uno dei figli di 
				Eugenio, Mimmo, in seguito sposerà Lia Bulgari.
 Corrado Pavolini acquistò un terreno al Quercetano e si fece una 
				casa. Io ero amico dei suoi figli Chicco-Francesco e Luca che 
				per me è stato come un fratello e che il destino, negli anni 
				successivi, ha fatto incontrare nuovamente con Lorenzo Milani in 
				occasione del famoso processo. Corrado Pavolini era di 
				grandissimo talento ma molto pigro. Facilitato dall’importanza 
				del fratello Alessandro, chiamato Buzzino in famiglia, che era 
				ministro della Cultura, passò da una situazione economica molto, 
				molto modesta a una florida che gli consentì di farsi la casa al 
				Quercetano e comprarsi l’automobile.
 Pirandello affittava il villino “Conti” insieme al figlio 
				Stefano, alla nuora Olinda e ai tre nipoti. Meno fisso veniva 
				anche l’altro figlio Fausto con la moglie e i due figli. Nel 
				1934 vinse il Nobel e a Castiglioncello, dove si trovava con 
				Marta Abba, lo raggiunse De Chirico che doveva fare le scene e i 
				costumi per La figlia di Jorio con Pirandello regista e Marta 
				nel ruolo di Mila di Codro.
 Mio zio Silvio d’Amico era stato portato a Castiglioncello dal 
				suocero e lui, a sua volta, ci portò molti personaggi del mondo 
				del teatro.
 C’era Alida Valli, cioè Kitty Altemburger, ospite di Giuliana 
				Gianni nel 1935-36 quando insieme frequentavano i corsi di 
				recitazione del Centro Sperimentale di Cinematografia. E Doris 
				Duranti, la donna pantera come noi la chiamavamo, sempre vestita 
				in modo poco borghese. Al Miramare c’era la figlia di 
				Pirandello, Lietta, con le due figlie Lilietta, che oggi è mia 
				moglie, e Maria che ha sposato mia cugino Sandro, il figlio più 
				piccolo di Silvio d’Amico”.
 Sia fra gli adulti che fra i ragazzi c’era una frequentazione 
				quotidiana ai Bagnetti, in pineta, al circolo del tennis, 
				all’Arena Littorio, al tiro del piccione, alle feste nei 
				giardini delle ville, al Castello Pasquini o a “Villa 
				Celestina”. Sbocciavano i primi flirt, alcuni dei quali 
				destinati a trasformarsi, negli anni seguenti, in matrimoni e, 
				soprattutto, si parlava di musica, di teatro, di cinema, di 
				letteratura. Poco di politica, lasciata in mano ai fascisti 
				troppo rozzi e volgari per essere frequentati. Con la sola 
				eccezione di Teruzzi alle cui feste, a “Villa Celestina”, 
				partecipavano tutti pur ostentando, come nel caso di Pirandello, 
				“un’opposizione snobistica e di maniera” al regime.
				(Testimonianza di Luigi Filippo d’Amico per "Lorenzo Milani e 
				gli anni del privilegio" di Fabrizio Borghini)
 
				Lo squilibrato della Chiesa amato dal Papa-Da esiliato della Curia a 
				modello-Barbiana oggi è il centro del mondo 
				All'incirca un anno prima di morire, il 26 giugno 1967, don 
				Lorenzo Milani ricevette a Barbiana la visita del cardinale di 
				Firenze Ermenegildo Florit. Era il 22 marzo 1966 e il priore era 
				molto malato. L'incontro fu tempestoso, teso, come racconta il 
				cardinale nel suo diario: «È stata una conversazione concitata 
				di oltre un'ora. Momenti angosciosi. È un dialettico affetto da 
				mania di persecuzione. Egocentrismo pazzo; tipo orgoglioso e 
				squilibrato», è il ritratto impietoso di Florit. Tra il 
				cardinale e il priore di Barbiana fu rottura. Definitiva. «Sa 
				quale è la differenza, eminenza, tra me e lei? Io sono avanti di 
				cinquant'anni...», sbottò don Milani. Cinquant'anni dopo Papa 
				Francesco pareggia i conti. E nel suo gesto sorprendente di 
				visitare il luogo dell'eresia milaniana riconosce le buone 
				ragioni del priore e gli errori e i ritardi della Chiesa. C'è 
				semmai da chiedersi fino a che punto dietro l'azzardo profetico 
				di Bergoglio ci sia, se non tutta, almeno parte consistente 
				della Chiesa. È legittimo dubitarlo. D'altra parte è stato il 
				cardinale Carlo Maria Martini, leader dei cattolici 
				progressisti, a sostenere, poco prima di morire, che la Chiesa è 
				in ritardo con la storia e il vangelo almeno di due secoli. Ma 
				questo, come dire? È il cuore dei ragionamenti del dopo visita. 
				Oggi l'attenzione di credenti e laici è rivolta alla preghiera 
				di papa Francesco sulla tomba di don Primo Mazzolari e don 
				Milani. Prima Bozzolo, in provincia di Mantova, ma diocesi di 
				Cremona e poi Barbiana, sperduta nel Mugello, comune di Vicchio, 
				patria natale di due geni della pittura, Giotto e il Beato 
				Angelico. Due località simbolo del cattolicesimo popolare e 
				antifascista. Lì i due preti non in linea con la Chiesa di papa 
				Pacelli e la Dc centrista di De Gasperi anticiparono il vento 
				del concilio Vaticano II. Per cui un primo significato della 
				visita di papa Francesco sta sì nella riabilitazione solenne di 
				due preti in odore di eresia, ma anche nella riproposizione 
				delle radici del Concilio. Ma c'è dell'altro e di più nella 
				visita di Bergoglio che ha a che vedere specificatamente con 
				Barbiana: come era nel 1954 quando la Curia fiorentina vi esiliò 
				il giovane don Milani e che cosa è diventata grazie a lui e ai 
				suoi giovani montanari. Va sottolineato che il 1954 fu un anno 
				cruciale per il cattolicesimo italiano. I vertici dell'Azione 
				cattolica furono "rottamati" da Luigi Gedda, che perorava una 
				svolta a destra della Chiesa e della Dc. Un dirigente dei 
				giovani di Azione cattolica, il lucchese Arturo Paoli, fu 
				costretto ad emigrare in sud America. Anche l'esilio di don 
				Milani a Barbiana si inquadra in questa normalizzazione vaticana 
				e democristiana dei cattolici inquieti. Nel mirino del 
				cosiddetto partito romano c'era in realtà l'allora sindaco di 
				Firenze Giorgio La Pira che, con Giuseppe Dossetti, sosteneva 
				posizioni di neutralità tra Usa e Urss, di apertura a sinistra e 
				di netta ostilità del liberismo. Intorno a La Pira si formò a 
				Firenze un cenacolo di religiosi e intellettuali di valore 
				nazionale invisi alla Chiesa e alla Dc: Ernesto Balducci, David 
				Turoldo, Mario Gozzini, don Milani e molti altri. Quasi tutti 
				furono trasferiti e emarginati. Nel 1954 Barbiana era una 
				piccola chiesetta, qualche podere, poche anime. Ignorato dalle 
				cartine geografiche. Persino la Curia decise di chiudere la 
				chiesa, salvo poi ripensarci per mandarci don Milani. Una sorta 
				di Siberia ecclesiastica. Appena arrivò lassù da Calenzano, il 7 
				dicembre 1954, don Lorenzo andò subito in chiesa e si mise a 
				pregare e piangere. Poi l'indomani scese a Vicchio per comprare 
				la tomba. A Barbiana era stato esiliato, a Barbiana decise di 
				morire. E alla mamma, preoccupata per la destinazione, scrisse 
				che «la grandezza di una vita non si misura dalla grandezza del 
				luogo in cui si è svolta ma da tutt'altre cose». Dal 1954 alla 
				morte, don Milani ha trasformato Barbiana da Non Luogo a luogo 
				di una rivoluzione religiosa e civile unica nell'Italia del 
				dopoguerra. Basti passare in rassegna le sue tre opere 
				principali, le quali nell'arco breve di vent'anni, tanto è 
				durato il suo sacerdozio, fanno di don Milani un prete "avanti 
				di cinquant'anni" ma anche un intellettuale di prima grandezza 
				(non a caso c'è chi lo accosta a Pier Paolo Pasolini). Con 
				Esperienze pastorali, uscite nel 1958 e subito messe all'indice, 
				don Milani anticipò infatti la riforma religiosa realizzata poi 
				dal Concilio Vaticano II. Con" L'obbedienza non è più una virtù" 
				(1965) affrontò invece con i suoi ragazzi i temi della pace, del 
				no alla guerra, della disobbedienza civile e del primato della 
				coscienza. Infine con "Lettera ad una professoressa" (1967) 
				colse il clima che sfociò nel'68 denunciando il carattere 
				classista della scuola e la funzione centrale della cultura e 
				della formazione per la costruzione di una società più giusta. 
				Eccoci così giunti al senso profondo della visita di papa 
				Francesco. Che con il suo omaggio alla tomba di don Milani 
				trasforma Barbiana da chiesa destinata alla chiusura in uno dei 
				centri simbolo della spiritualità del papa che ama le periferie. 
				In definitiva, per usare un linguaggio evangelico, da pietra 
				scartata dai costruttori, Francesco trasforma Barbiana e il suo 
				priore in una "testata d'angolo" della Chiesa del futuro.
				Di MARIO LANCISI 
				scrittore e a lungo giornalista del Tirreno, autore di numerosi 
				libri su don Lorenzo Milani, fra cui "Processo all'obbedienza. 
				La vera storia di don Milani" (Laterza, 2016).
 
 
						
						«Verrò in Toscana per don 
						Milani»Il 
						Papa il 20 giugno 2017 a Barbiana per pregare sulla 
						tomba del prete. Poi andrà a Mantova per rendere omaggio 
						a don Mazzolari.
 
						
						Un Papa in 
						preghiera sulle tombe di due preti "scomodi", 
						"cattocomunisti", non amati da parte delle gerarchie 
						cattoliche dei loro tempi, messi persino all'indice per 
						poi essere riabilitati solo dopo la morte. Si tratta del 
						fiorentino don Lorenzo Milani (1923-1967) e del 
						cremonese don Primo Mazzolari (1890-1959), due sacerdoti 
						che, per le loro scelte pastorali, andarono incontro 
						anche a dolorose forme di emarginazione ecclesiale, che 
						entrambi, però, accettarono senza battere ciglio, in 
						totale obbedienza alle direttive ecclesiastiche, per il 
						grande amore che ebbero per la Chiesa cattolica. Due 
						sacerdoti che, dopo decenni di oblio da parte delle alte 
						sfere vaticane saranno omaggiati il 20 giugno prossimo 
						non da un pontefice italiano e, tantomeno europeo, ma da 
						un vescovo di Roma proveniente dal lontano Sudamerica, 
						l'argentino Jorge Mario Bergoglio, asceso al soglio di 
						Pietro nel 2013 col nome di papa Francesco. Quasi a 
						voler significare che è stato necessario attendere 
						l'avvento di un pontefice figlio di una terra lontana 
						dai bizantinismi italiani ed europei per sanare due 
						ingiustizie consumate all'interno della Chiesa ai danni 
						di due sacerdoti che ebbero il solo "torto" di essersi 
						schierati concretamente per i poveri e contro ogni forma 
						di potere politico totalitario. Scelte che portarono due 
						sacerdoti a farsi carico delle fasce sociali più povere 
						ed emarginate: da una parte don Milani con la formazione 
						scolastica dei figli dei contadini di Calenzano e di 
						Barbiana, dove istituì la storica scuola popolare, detta 
						appunto Scuola di Barbiana; e dall'altra don Mazzolari 
						con la sua vocazione partigiana e i suoi interventi 
						"politici" di chiara impostazione antifascista accanto 
						ai movimenti operai, che gli crearono non pochi problemi 
						presso i suoi superiori. Martedì 20 giugno - 6 giorni 
						prima il cinquantesimo anniversario della morte di don 
						Milani - papa Francesco, con una scelta senza 
						precedenti, sanerà simbolicamente le ferite che ancora 
						non sono state cicatrizzate sulla memoria dei due 
						sacerdoti, recandosi in pellegrinaggio a Bozzolo 
						(Mantova) sulla tomba di don Primo e a Barbiana 
						(Firenze), su quella di don Lorenzo. La visita, 
						comunque, - puntualizza la Sala stampa della Santa Sede, 
						«si svolgerà in forma privata e non ufficiale». Tutto 
						avverrà nella mattinata del 20 giugno partendo in 
						elicottero dal Vaticano. Prima sosta nella parrocchia di 
						S. Pietro di Bozzolo dove riposa don Mazzolari, e dopo a 
						Barbiana, alla presenza del cardinale di Firenze 
						Giuseppe Betori. Il Papa sosterà in preghiera sulla 
						tomba di don Milani, collocata in un prato adiacente 
						alla chiesetta e alla Scuola di Barbiana, rimasta ancora 
						intatta dai tempi in cui vi studiavano i piccoli alunni 
						provenienti dalle famiglie dei contadini della zona. 
						Nella chiesa ci sarà un incontro con i discepoli di don 
						Milani ancora viventi, che poi lo accompagneranno a 
						visitare la canonica. Nel giardino adiacente, Francesco 
						terrà un discorso commemorativo, che non è azzardato 
						immaginare evocherà il messaggio che lo stesso papa 
						Francesco ha inviato domenica scorsa alla Fondazione don 
						Lorenzo Milani, in occasione della pubblicazione 
						dell'opera omnia del prete di Barbiana. Un messaggio che 
						nei toni e nei contenuti («Educatore appassionato, 
						innamorato della Chiesa», lo definisce Bergoglio) 
						suonano come una totale riabilitazione del prete 
						fiorentino che, non va dimenticato, fu costretto a 
						subire l'affronto da parte delle autorità vaticane del 
						ritiro della vendita dalle librerie cattoliche del 
						famoso libro "Esperienze pastorali", nel quale 
						tracciava, con la collaborazione dei suoi allievi, un 
						severo profilo critico su come veniva insegnato il 
						catechismo nella Chiesa. Un libro, quindi, critico e 
						scomodo, in perfetta sintonia con un altro volume, 
						scritto anch'esso con l'apporto degli studenti di 
						Barbiana, "Lettera ad una professoressa", che mise in 
						fila una lunga serie di appunti al sistema educativo 
						della scuola statale. Scritti che non gli risparmiarono 
						critiche e violente censure "politiche" (non da meno il 
						testo "L'obbedienza non è più una virtù", indirizzato al 
						silenzio dei cappellani militari nei confronti della 
						guerra e dell'obiezione di coscienza al servizio 
						militare) per i quali il suo superiore del tempo, il 
						cardinale Ermenegildo Florit, arcivescovo di Firenze, lo 
						esiliò prima a Calenzano e poi a Barbiana. Don Milani 
						obbedì, ma ebbe la sapienza di far tesoro di quella 
						esperienza tra le montagne toscane condividendo i 
						bisogni e i disagi degli abitanti del posto. La sua 
						scuola, ovviamente del tutto gratuita, diventò un punto 
						di riferimento per decine e decine di ragazzi che guidò 
						fino al conseguimento della maturità e, per molti, fino 
						all'università, al grido del motto "I care!", "mi 
						interessa, mi faccio carico", in opposizione - era 
						solito spiegare - al motto fascista "Me ne frego!". 
						Distinguo politico di non poco conto che non piacque 
						molto ai partiti di destra ed ai conservatori dentro e 
						fuori la Chiesa. Ma non a papa Francesco che proprio 
						quell'"I care" rilancerà nella visita del 20 giugno alla 
						scuola di Barbiana, ridando a don Lorenzo Milani l'onore 
						che gli fu maldestramente tolto dalle gerarchie 
						ecclesiali del suo tempo. 
						(Di Orazio La Rocca 
						per Il Tirreno del 24/4/2017)        
				Francesco e Lorenzo stamani si parlano da soli. Il raccoglimento 
				SULLA TOMBA DEL PRIOREStamani papa Francesco pregherà sulla tomba di don Lorenzo 
				Milani da solo. Un incontro a tu per tu nel piccolo cimitero di 
				Barbiana. Un dialogo breve, come tra vecchi amici che non hanno 
				bisogno di tante parole per andare dritti al cuore. Sopra la 
				terra il cardinale gesuita a mani giunte, che arrivato "dalla 
				fine del mondo" al soglio pontificio, ha lasciato tutti di 
				stucco scegliendo di chiamarsi come il poverello di Assisi. A 
				difesa degli ultimi. Sotto la terra il prete insofferente 
				all'autorità costituita, vestito nella cassa da morto coi 
				paramenti sacri e gli scarponi, che ha fatto del "prendersi 
				cura" (I Care) e della fede gli strumenti di riscatto dei 
				poveri.
 IL PROGRAMMA - La visita di papa Francesco sulla collinetta di 
				Barbiana durerà un'ora o poco più. Niente proclami, zero 
				incontri solenni. Il programma è quello di una visita privata, 
				quasi di famiglia. Dopo essere stato di buon mattino nei luoghi 
				di don Primo Mazzolari a Bozzolo, in provincia di Mantova, 
				l'arrivo a Barbiana. L'elicottero del pontefice atterra nello 
				spiazzo sottostante la chiesa di cui è stato parroco don Lorenzo 
				Milani alle 11,15. Lo salutano il cardinale e arcivescovo di 
				Firenze, Giuseppe Betori, e il sindaco di Vicchio, Roberto Izzo. 
				Il Papa raggiunge il cimitero di Barbiana in automobile assieme 
				al cardinal Betori. Qui il momento clou. La preghiera in 
				solitudine davanti alla tomba di don Milani. Poi sarà il momento 
				degli incontri. Fuori e dentro la chiesa con gli 80 ex allievi 
				del priore di Barbiana. Il papa visiterà brevemente il 
				laboratorio, l'aula dove don Milani insegnava ai ragazzi. 
				Successivamente uscito dalla casa, dopo il saluto di Betori, il 
				Santo Padre tiene un discorso all'aperto, nel giardino della 
				piscina, alla presenza degli ex allievi, di un gruppo di 
				sacerdoti della diocesi e di alcuni ragazzi seguiti da realtà 
				educative della diocesi. L'elicottero del papa è pronto a 
				ripartire a mezzogiorno a mezzo. Il ritorno in Vaticano è 
				previsto per l'una e un quarto.
 CHI INCONTRA PAPA FRANCESCO - Viaggiano tutti sui settant'anni, 
				alcuni con la salute malferma, gli ex allievi del priore di 
				Barbiana. Ma non mancheranno all'appuntamento: Michele Gesualdi, 
				presidente della Fondazione don Lorenzo Milani, già presidente 
				della Provincia di Firenze dal 1995 al 2004 per il Partito 
				popolare italiano; Agostino Burberi (Gosto), della Fondazione 
				don Lorenzo Milani; Maresco Ballini, del gruppo di Calenzano; 
				Nevio Santini, del gruppo di Vicchio. Papa Francesco parlerà 
				anche con i familiari di don Lorenzo. Con Andrea, Flavia e 
				Valeria Milani, figli di Adriano Milani (fratello maggiore di 
				don Lorenzo). Ci sarà modo di condividere le esperienze anche 
				dei vecchi nove sacerdoti che hanno fatto il seminario con don 
				Milani. Tra questi: don Antonino Spanò della parrocchia di Badia 
				a Ripoli, don Silvano Nistri e don Mino Tagliaferri. Altri 17 
				parroci saranno presenti all'incontro con papa Francesco. Ne 
				citiamo alcuni. Monsignor Andrea Bellandi, vicario generale 
				della diocesi di Firenze; don Alfredo Amerighi, attuale parroco 
				di San Donato a Calenzano (prima parrocchia di don Milani); don 
				Remo Collini, era parroco nel Mugello ai tempi di don Milani; 
				don Giuliano Landini, attuale parroco di Vicchio; don Roberto 
				Bartolini, parroco di Montespertoli. Infine 30 ragazzi: 5 
				dell'Opera Madonnina del Grappa, 5 seguiti dalla Caritas 
				diocesana, altri 5 di Villa Lorenzi, altrettanti 
				dell'Associazione Cinque Pani e Due Pesci. Infine 5 dell'Opera 
				per la Gioventù Giorgio La Pira. Ogni gruppo con un 
				accompagnatore.Di 
				Samuele Bartolini 20/6/17
 
 
				                                             
				Il reo don Milani 
				Il 28 ottobre del 1967 – 
				cinquant’anni fa – don Milani fu condannato in appello per la 
				sua lettera ai cappellani militari a favore dell’obiezione di 
				coscienza. Il priore era già morto da 4 mesi. Ma il giudice lo 
				condannò. Fu definito “il reo don Milani”. Nell’anno dei facili 
				santini, mi piace proporre la vera storia di don Milani. Il Reo. 
				Il Grande Disobbediente. Alla famiglia ricca e borghese. Alla 
				Chiesa preconciliare. Allo Stato che metteva in carcere gli 
				obiettori di coscienza. Vi propongo il finale del mio libro 
				"Processo all’obbedienza. La vera storia di don Milani". Laterza. 
				“Mentre Lettera a una 
				professoressa era in stampa, don Milani comprese di aver i 
				giorni, le settimane contate. Come se dovesse partire per un 
				lungo viaggio decise di sistemare un po’ di cose che gli stavano 
				particolarmente a cuore. Come Eda Pelagatti, che aveva accudito 
				lui e i ragazzi come una mamma. Don Lorenzo le destinò i diritti 
				di autore. 
				Convinto poi, come disse 
				più volte ai suoi ragazzi che il segreto pedagogico non fosse 
				esportabile, il priore si mise a bruciare nella stufa molti 
				documenti della scuola e la chiuse e il 25 aprile 1967, fece le 
				valige per andare ad abitare dalla mamma, in via Masaccio numero 
				218 a Firenze. Prima di salutare i ragazzi si mise a guardare 
				una a una le stanze della canonica e della scuola. Infine disse 
				loro: “Ragazzi, chissà se ci ritornerò”. 
				Il morbo di Hodgkin che 
				lo colpì a morte fece sentire i suoi aculei nel 1960, ma per tre 
				anni si brancolò nel buio nella sua esatta diagnosi. Che arrivò 
				il 7 febbraio del 1964 quando mamma Alice informò la figlia 
				Elena che Lorenzo veniva curato per “un linfogranuloma 
				dichiarato”. Dalla metà del 1964 agli inizi del 1967 la vita del 
				priore fu sottoposta a ricoveri ospedalieri e continue, dolorose 
				cure, ma il priore continuò a tenere le sue lezioni a letto o 
				seduto in uno sdraio. Nonostante la malattia e i lancinanti 
				dolori, in quello squarcio di anni, don Milani sfornò due opere 
				come "L’obbedienza non è più una virtù" e "Lettera a una 
				professoressa".  
				Anche nel periodo 
				dell’agonia, a casa dalla mamma, da fine aprile alla morte, il 
				priore non si tolse la veste di maestro. Continuò ad insegnare 
				ai suoi ragazzi: “Ci diceva, sul letto di morte, che bisognava 
				per tempo imparare a morire. Chi non si abbandona alla morte 
				vuol dire che prima non si è abbandonato alla vita, alle 
				passioni e all’amore”, ricorda Edoardo Martinelli, un ex allievo 
				del priore, autore di "Progetto Lorenzo Milani", pubblicato nel 
				1998 dal Centro documentazione che porta il nome del priore di 
				Barbiana. 
				L’ultima lezione don 
				Milani la tenne il 24 giugno, un sabato. Avvertendo che il suo 
				Getsemani stava per concludersi, chiese ai suoi ragazzi di 
				venire a salutarlo per il suo congedo dalla vita. “Ragazzi, un 
				grande miracolo sta avvenendo in questa stanza: un cammello 
				passa per la cruna di un ago”. 
				Due giorni dopo, il 26 
				giugno, un lunedì, il priore spirò con il corpo proteso in 
				avanti e sostenuto da Michele Gesualdi. “Un piccolo rigolo di 
				sangue e due occhi sgranati in avanti indifferenti al gioco 
				della vita”, ricorda Martinelli. 
				“Caro Michele, caro 
				Francuccio, cari ragazzi, non è vero che non ho debiti verso di 
				voi. L’ho scritto per dar forza al discorso! Ho voluto più bene 
				a voi che a Dio, ma ho speranza che lui non stia attento a 
				queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo posto”, scrisse 
				nel testamento. 
				Quattro mesi dopo, il 28 
				ottobre 1967, si tenne il processo d’appello. Don Milani fu 
				costretto, prima di morire, il 1 dicembre 1966, a scrivere di 
				nuovo ai giudici per giustificare la sua assenza. Poche righe, 
				ironiche. Da congedo finale: “Caro presidente, io ho la bua. 
				Tanta tanta bua. Che sei bischero a farmi venire a Roma? Se mi 
				vuoi vedere vieni te. Un bacio anche a tua moglie”. 
				Don Milani questa volta 
				fu condannato. La condanna non poté però essere applicata. “Il 
				reato è estinto per la morte del reo”, scrissero i giudici. 
				La legge sull’obiezione 
				di coscienza verrà approvata soltanto nel 1972. 
				Tantissimi giovani che, a partire da quella data, ne hanno 
				usufruito. Gli studenti, i professori, i preti, i cristiani in 
				cerca di Dio, soprattutto i poveri. E  le donne e gli uomini che 
				nella loro vita si pongono il problema dell’obbedienza e della 
				coscienza, del bene e del male, non possono non provare 
				gratitudine per il coraggio e la passione del “reo “ Lorenzo 
				Milani. Di Mario 
				Lancisi · 28 ottobre 2017. |