Nella casa di Bonaventura il vero milione è arrivato abbastanza tardi. Ma 180 mila lire, nell'estate 1943, c'erano. La casa di Bonaventura era a Castiglioncello, e a Castiglioncello il piccolo Gilberto Tofano andava a passare le vacanze, per poter stare finalmente con suo padre e sua madre. La stagione più bella, per tutti e tre. II figlio di Sergio e Rosetta Tofano oggi ha 65 anni, fa il regista e il drammaturgo, lavora tra il Piccolo di Milano e Israele, e riapproda ogni volta in Toscana, memore della felicità di allora. «Sono i soli periodi della mia vita in cui siamo vissuti veramente insieme», oggi ricorda. E ricorda il conteggio di quelle 180 mila lire, sullo stesso tavolo dove il padre aveva disegnato tante volte il milione per il suo personaggio, in una drammatica giornata di settembre, dopo l'annuncio dell'armistizio. Castiglioncello era stato un luogo di allegria e di speranze; per i genitori, la prima casa della vita. Gli attori sono girovaghi per natura e allora lo erano assai più di oggi. «Per molto tempo - ricorda il figlio di Sto - la casa di mio padre e mia madre era una fila di bauli armadio nei corridoi del Plaza». La compagnia partiva, cambiava spettacolo, cambiava città. «Telefonavano tutte le sere», e quasi sempre da un luogo diverso. Raramente il bambino poteva raggiungerli; quando erano a Milano, dove lui poteva trovare rifugio presso parenti, quando recitavano a Roma; una volta - ma una sola - a Venezia. Si aggirava tra le quinte, per i camerini, respirava estasiato quell'aria magica, si imbeveva, senza rendersene conto, di quell'amore per il teatro al quale, contro il volere del padre, si sarebbe votato anche lui. E poi tornava alla sola casa per lui possibile, quella della zia Giuliana, sorella dell'attore, che viveva con un'amica in piazza Paganica, all'ingresso del ghetto. «Due donne colte, mia zia laureata in letteratura tedesca, l'altra insegnante di piano; venivano a trovarci i Carandini, gli Albertini, c'era un mondo di amicizie straordinarie». Il piccolo Tofano rimase lì anche più tardi, quando i genitori nel 1940 aprirono casa a Roma, in via del Corso. «La stanza dove mia madre disegnava i costumi per la compagnia sarebbe diventata lo studio di Bettino Craxi; e non mi è piaciuto proprio niente. Io andavo ogni settimana a mangiare con loro, mi portavano al ristorante». Per il bambino, un'esperienza festosa, un piacere esclusivo. Ma a Castiglioncello era diverso, a Castiglioncello si respirava l'aria libera del mare, si poteva scorrazzare in campagna, fra le vigne e i cipressi. E Gilberto Tofano poteva vedere i genitori, per qualche settimana, sedentari. «Mio padre si era fatto la casa nel 1937, prima prendevamo una villa in affitto. Era una casa affacciata sul mare, con tremila metri quadrati di macchia, e un orto, dove mio padre coltivava i pomodori». In attesa del milione, Bonaventura si garantiva il contorno, preparato con le sue mani. In abito da campagna, elegantissimo sempre, come voleva il suo stile. Raccontava favole, il padre di Bonaventura, al suo bambino? «No, non me ne ha mai raccontato una. Non ricordo che mi abbia mai messo a letto; era cosa delegata alla zia. Nemmeno mia madre me le raccontava». E a tavola? «Mio padre era silenzioso. Parlavano tra loro le zie, le amiche. Lui stava ad ascoltare, ogni tanto buttava là una battuta, uno dei suoi calembour. C'era un lessico familiare, con cui si intendevano». Con la madre, parlava: di lavoro; e allora erano lunghe conversazioni, su progetti e sogni. «Ho assorbito senza accorgermene tante cose sui problemi del teatro. Mi hanno fatto crescere con la consapevolezza che il teatro è un mestiere, che costa, che bisogna organizzare. Non basta l'arte». E poi c'era, fisso, il pensiero di Bonaventura: perché Sto doveva dare la sua storiella in ottonari al Corrierino ogni sette giorni. Qualche volta si guardava attorno smarrito: «Ma che cosa racconto, questa settimana?», lo sentiva brontolare il figlio. Poi si metteva lì, sul bordo del tavolo, circondato da tante matite, e disegnava, incurante della confusione che poteva esserci intorno. «Mio padre era capace di lavorare nella baraonda più completa». Il bambino lo guardava incantato tirare quei rapidi tratti sul foglio lucido, mentre le figure prendevano corpo. «Finita la storia, la faceva vedere a mia madre: si consultava sempre con lei». Un giorno - molti anni dopo Gilberto Tofano chiese al padre perché Bonaventura era bianco e rosso. «Perché quando il direttore del Corrierino nel 1917 mi pregò di inventare un personaggio io lavoravo nei servizi segreti, addetto alla censura militare - gli rispose Sto -. Avevo in tasca una matita rossa e blu, mi trovavo al tavolino di un caffè e disegnai il personaggio con la parte rossa della matita sul bianco del marmo». Tofano non ha mai spiegato al figlio perché il suo personaggio viene premiato con un milione, cifra incredibile, in quegli anni. «Per sapere quanto valeva ho poi interpellato un economista, Piero Barucci - dice Gilberto - . Mi ha risposto che un milione corrispondeva a 40 anni di lavoro, per un medio impiegato. Era un sogno, ma legato a una normalità. E' l'iperbole delle mille lire al mese, per tutta una vita». Al piccolo Gilberto, papà Tofano preferiva insegnare altre cose. «Nell'estate del '39 passò a Castiglioncello due mesi: e ogni giorno alle due del pomeriggio pretendeva di darmi lezione di francese. Io non ne avevo nessuna voglia, al mare facevo una vita da pesce, dopo mangiato mi sarebbe piaciuto andare con gli altri sugli scogli. E invece dovevo stare un'ora lì. Ma come ricordo bene la lingua, da allora». C'era una masnada di ragazzi, su quegli scogli, che lo aspettava. E c'era una bella società, a Castiglioncello, in quegli anni. «Quando stavamo nella prima casa, ogni pomeriggio saltavo il muretto e andavo nella villa accanto, a giocare alle bocce con Giorgio e Andrea, i miei amici». La villa accanto era dei Pirandello, Giorgio e Andrea erano i figli di Stefano, il commediografo che doveva nascondersi dietro lo pseudonimo di Stefano Landi, per sottrarsi all'ombra del padre. Mentre giocavano, Gilberto Tofano sentiva arrivare dal piano di sopra il tic tac di una macchina da scrivere. «Era Luigi Pirandello, che nell'estate del '36 stava scrivendo I giganti della montagna. A un certo punto, quando si era stancato di lavorare, scendeva, e tirava le bocce con noi. Scherzava, giocava». Fra i Pirandello e i Tofano l'amicizia era antica. «Mio padre era attore pirandelliano. E Pirandello tradusse in italiano Pensaci, Giacomino! pensando a lui», dice il figlio. Dei Giganti della montagna Gilberto Tofano ricorda bene la «prima», andata in scena postuma a Boboli nel giugno del '37, perché nella parte della Sgrida recitava sua madre. Ma non la ricorda sulla scena, la ricorda alla radio. «In casa nostra la radio non c'era. Ne aveva una la stazione della Guardia di Finanza, nella piazzetta con la torre medicea. E io andai a sentirla lì. Ogni volta che leggo i Giganti, ancora oggi, ricordo la voce di mia madre, nel salottino del maresciallo». Si faceva tanto sport acquatico, a Castiglioncello, tante gite in campagna. «Partivamo con i Pirandello, i D'Amico, i Pavolini, ci dividevamo presto fra piccoli e grandi. Passata l'Aurelia si saliva su per i poderi, noi andavamo a vedere le vacche nelle stalle». Provavano anche a divertirsi col teatro, i ragazzi più grandi, e qualcuno ebbe l'idea di mettere in scena, per gioco, uno spettacolo di Sto, «Qui comincia la sventura»: «Luca Pavolini faceva Bonaventura, la figlia dello scrittore Aldo Valori, Bice, era Madame Tuberosa, Luigi Filippo d'Amico il regista». E Sergio Tofano, benevolmente, diede qualche consiglio a quei ragazzi. Ma soltanto la figlia dello scrittore Valori avrebbe continuato quel gioco estivo tutta la vita. Il 25 luglio del '43 cadde sulla società delle vacanze come un uragano. «Vocìo, vocìo, e poi urla, feste, altro che i Mondiali di calcio». E altre urla, altre feste, 45 giorni dopo, per l'8 settembre. «Finita la guerra! gridavano tutti. Mia zia si ritirò in un angolo del giardino, piangeva. Lei era la custode delle memorie risorgimentali, di una famiglia che aveva passato l'Ottocento fra il carcere e l'esilio. Benché antifascista, non accettava "l'Italia sconfitta". Mio padre era più scanzonato su quei ricordi, era contento, come tutti». Il giorno dopo, la festa era finita. «La mattina del 9 settembre, dalla terrazza di casa, vedemmo arrivare una fila di tre navi con il pennello blu, segnale di resa degli inglesi. Era una parte della nostra flotta, diretta a Malta. Mentre passavano sotto di noi, a cento metri dalla costa, cominciammo a vedere le esplosioni. Erano le navi tedesche, che dal largo sparavano alle nostre; e quindi ci sparavano addosso». Ci fu una fuga immediata, verso la pineta. «Mio padre, mia madre e io, a scappare su, facevamo un breve tratto di corsa e ci buttavamo sotto un muretto, ad aspettare il prossimo colpo. Beppe Lami, il guardiano della casa, ci portò delle coperte». E anche l'elegantissimo Sergio Tofano, con l'elegantissima Rosetta, passò la notte disteso sotto i pini. Ma peggio ancora fu il risveglio, quando i Tofano tornarono alla casa sul mare e scoprirono che un incrociatore era affondato, una nave era rimasta lì, bloccata sulla costa, molti villeggianti erano fuggiti. «Lami andò con la barca alla nave in secca e ritornò con vari sacchi di provviste». Poteva aiutare, non risolvere. Fu allora che i Tofano decisero il consulto di famiglia, presente anche il quattordicenne Gilberto. E fu allora che contarono le 180 mila lire in cassa, sommando le risorse di tutti. «Ce la facciamo a passare l'inverno. Restiamo qui». «Il giorno dopo io ero andato a fare il bagno, con i nuovissimi occhiali da immersione che mi aveva regalato l'ammiraglio Giuriati, e quando uscii dall'acqua vidi su uno scoglio un marinaio della San Marco. Era un sommozzatore, in fuga. Mi spiegò le tecniche del nuoto subacqueo; poi sparì anche lui. La mattina dopo, sul lungomare, c'erano tutti i tedeschi, nudi: con grande scandalo delle signore che pensavano ancora di fare il bagno». Ancora pochi giorni, e i Tofano dovettero arrendersi. «Arrivò la notizia che passava un treno per Roma e caricava anche i passeggeri. Si fecero i fagotti di corsa, riuscimmo a prenderlo». Ma il treno arrivò a Roma nella notte, durante il coprifuoco. «Ci preparavamo a dormire in stazione, avevamo già tirato fuori le coperte. Quando un poliziotto ci disse che, con le valigie, potevamo andare». Era il 20 settembre, si sentivano spari da varie parti, tutto buio, e Sto, con Rosetta, il figlio, la zia, l'amica della zia, la governante, la cuoca, le 180 mila lire e i bagagli si incamminò verso piazza Paganica. «A piazza del Gesù vedemmo uscire dall'ombra una fila di figuri neri che ci circondarono. Noi ci siamo raggruppati come un piccolo gregge. Mia zia cominciò a gridare in tedesco, per spiegargli che eravamo viaggiatori. "Ma vui che a vulite?", ci risposero. Erano poliziotti italiani. Ci lasciarono andare, noi crollammo in casa». E quella casa fu porto e asilo per tutti, nella Roma occupata dai nazisti. «Siamo arrivati fino a trenta persone, con comunisti, badogliani, ebrei». Le 180 mila lire del creatore di Bonaventura, integrate con il lavoro di Sto, bastarono, fino alla fine della guerra. Neanche allora - a lira molto svalutata - sarebbe arrivato il milione. Nel 1953 Sergio Tofano si accorse che la casa di Castiglioncello costava troppo e veniva usata troppo poco, decise di venderla. «E' stato un grosso taglio, per me», dice il figlio. Vagabondo sedentario, come ama definirsi, Gilberto Tofano conserva le fotografie di quel tempo in una preziosa scatola che si porta di casa in casa, palladio di un'altra vita errabonda. Qui ad Arezzo, dove si era sistemato negli ultimi anni, sta già per sloggiare. Fra poco nello studio dove parliamo ci sarà una fila di bauli, come nei corridoi del Plaza. Castiglioncello resta un sogno non ripetibile. E i diritti d'autore di Bonaventura? Arrivano, arrivano, dal teatro, dai libri, dalla pubblicità. Ma l'omino in bianco e rosso li riceve in una moneta che il vecchio Sto non può moltiplicare più.