Storia
di una malattia da Dante a Fausto Coppi
La vittima più
famosa è probabilmente Dante Alighieri. Il poeta sta finalmente
vivendo un periodo di serenità e di pace a Ravenna. Viene
inviato con una ambasceria a Venezia e malauguratamente al
ritorno contrae la malaria in forma grave sul Po e ne muore
nella Bisanzio d'Italia a soli 56 anni. Ma di malaria morirono
probabilmente Raffaello il quale aveva a lungo lavorato a Roma
lungo il Tevere, alla Farnesina, e sicuramente Caravaggio fra
Palo Laziale e Port'Ercole nella sua fuga disperata. Ancora nel
1960 ne morrà, per una diagnosi insufficiente, il quarantenne
Fausto Coppi reduce dall'Africa. La malaria ha rappresentato per
secoli una vera e propria malattia di massa nelle aree costiere
e fluviali della Penisola e delle Isole. Essa si diffonde col
Plasmodium vivax (la terzana benigna), col Plasmodium malariae
(la quartana) e soprattutto col Plasmodium falciparum (la più
aggressiva) che rappresenta ora il 90% delle infezioni malariche
africane. Le prime notizie sulla micidiale zanzara che prospera
nelle zone di acque ferme, si hanno in Magna Grecia. Ma per
tutto il periodo dell'Impero Romano, nonostante i continui
scambi con l'Africa, essa viene contenuta dalle opere di
regimazione idraulica e di bonifica delle terre paludose in cui
i Romani sono maestri. Tanto da trasformare l'Italia nel
Giardino d'Europa. Le febbri malariche riprendono vigore, nella
stessa area dell'Agro Romano e Pontino, quando l'economia
agricola - e quindi l'idraulica - decade per la crisi politica e
per la fine della manodopera servile a basso costo. Migliaia di
ettari non vengono più coltivati, canali e fiumi non sono più
curati, torna la palude, riemerge la zanzara della malaria. Ben
presto le stesse vie consolari costiere sono rese impraticabili
dalle valli e dagli stagni, quindi dalla malaria. Per esempio
l'Aurelia ma più tardi, come si è detto per Dante, anche la
Romea. La Via Francigena, definita dal vescovo Sigerico di
Canterbury, passerà all'interno della Toscana, per Montalcino e
San Quirico, poi per la Cassia. La meta finale di San Pietro non
verrà raggiunta dal Tevere, le cui rive sono malariche, bensì
dall'alto, da Monte Mario e quindi dalla antica Trionfale.
"Poveretti, dove siete venuti a morire...". Così un ossuto
traghettatore, giallo per la malaria, accoglie i 600
"scariolanti" ravennati venuti nel 1886 con la Associazione
Braccianti a bonificare Ostia Antica, il Fiume Morto e più tardi
Maccarese. Nei primi anni ne morranno 300 alle porte di Roma.
Una autentica epopea del lavoro. Finché la bonifica non è
completa, si può operare solo in autunno-inverno, fuggendo ai
primi caldi. La loro "colonia" durerà fino a metà '900. Le
bonifiche idrauliche sono la soluzione, ma richiedono tempo e
mezzi. La Maremma, dal Tarquinate a Piombino, è letteralmente
flagellata dall'epidemia della "perniciosa". Se ancor oggi la
provincia di Grosseto risulta in Italia quella con meno abitanti
per chilometro quadrato dopo Aosta (tutta montagna), lo si deve
al radicale spopolamento che per secoli e secoli la malaria più
mortale ha operato. Un bravo storico locale, Alfio Cavoli di
Manciano, scomparso qualche anno fa, ha documentato in vari
libri il fenomeno, soprattutto ne "I Maremmani" dove dimostra
come la scarsa popolazione di quella vasta area collinare e
pianeggiante sull'Aurelia sia frutto di continue immigrazioni -
dalla Romagna, dall'Emilia, dal Veronese, dal Bresciano, persino
dalla Lorena (coi Granduchi) - nel disperato e sempre fallito
tentativo di bonificarla stabilmente. Si deve arrivare alle
grandi bonifiche promosse alla fine dell'800 e nel '900, alla
scoperta del Chinino (distribuito dallo Stato medesimo), al Ddt,
sostanza oggi vietata, di cui l'esercito americano nel 1944-45
irrora tutta Italia e alla riforma agraria anni '50, se la
malaria viene debellata come malattia di massa. Con qualche
insorgenza sporadica dovuta a turisti di ritorno dall'Africa che
non si erano vaccinati ed ora da qualche soggetto immigrato.
La
malaria durante il Ventennio
Durante il ventennio fascista in Italia si moriva ancora di malaria non
essendo stata completamente debellata e si preferiva chiamarla «febbre
intermittente». Le cifre attestavano che la malattia era in diminuzione
ovunque, ma non al punto da non rappresentare più un pericolo mortale. Dai
4.085 morti nel 1922 si era passati ai 3.588 nel 1925. La Sardegna da sola
deteneva il primato con 99 morti ogni 100.000 abitanti. La malaria «regnava
sovrana» in oltre la metà dei comuni della Calabria ancora ricoperti di
acque stagnanti e di acquitrini dove allignava la zanzara anofele. I
ricoverati per malaria negli ospedali romani erano migliaia ogni anno.
L’Agro romano prima d’essere risanato era una distesa immota di desolazione
abitato da pastori abbrutiti e inselvatichiti che si cibavano di erbe e
vivevano nelle grotte come nei secoli passati. Le bonifiche delle paludi
pontine e degli acquitrini meridionali avrebbero portato in vent’anni a una
drastica riduzione dei focolai, ma non alla completa scomparsa della
malaria, ormai debellata in tutta l’Europa civilizzata. Ancora nel 1939,
benché il chinino fosse noto da almeno due secoli come specifico per la cura
della malaria, si pretendeva di combattere la malattia con la «Smalarina»,
la terapia senza chinino, secondo un avviso pubblicitario in voga
quell’anno.
(Da: "Otto milioni di biciclette" di Romano Bracalini) |