Lavorare durante il
ventennio
Gli operai entravano in fabbrica
al suono della sirena; e guai a chi timbrava in ritardo il cartellino.
Non c’era la possibilità di recupero e si rischiava la punizione. Negli
stabilimenti a ciclo continuo c’erano tre turni di lavoro di 8 ore
ciascuno (contro le 10-12 ore di prima). Vennero abbassati da 65 a 60
anni il limite massimo dell’età pensionabile. Vennero aumentati il
sussidio di disoccupazione e di maternità e gli assegni familiari.
Impiegati e operai erano assicurati contro le malattie (compresa la
tubercolosi) e avevano diritto alle cure ospedaliere e alle medicine
necessarie. Il trattamento medico previsto dal governo era esteso anche
al coniuge, ai figli e ai fratelli dell’assicurato.
Sul lavoro la disciplina
era ferrea. Nei reparti passavano le guardie per controllare
l’andamento del lavoro e la perfetta funzionalità degli
impianti, ma anche per vigilare sui furti e le manomissioni. Gli
operai (ma non gli impiegati) venivano ulteriormente controllati
a campione (e perquisiti) all’uscita. Molto spesso dirigenti e
impiegati uscivano da un’altra parte.
Dappertutto comparivano
scritte ammonitrici: «Qui si lavora e basta»; «Qui non si parla
di politica». La bestemmia era un reato. Agli ingressi, accanto
al portaombrelli e all’accappatoio, c’era la sputacchiera in
maiolica. Mentre non era vietato fumare, salvo nei depositi di
materiale infiammabile.
Una volta assunti in
fabbrica ci si restava tutta la vita. Generazioni di famiglie
lavoravano nella stessa fabbrica e ne diventavano parte.
Impensabile cambiare lavoro (anche perché era difficile trovarne
un altro). Ci si contentava di quello che si aveva. Nella piccola
pubblicità dei giornali c’erano le offerte e le richieste di
lavoro e di impiego (cioè di lavoro manuale e di lavoro di
concetto).
Nel lavoro era abolita ogni
forma di confidenza anche tra amici, gli operai davano del voi
all’intermedio (la figura professionale che stava tra l’operaio
e l’impiegato), al capo operaio o al capo officina e ne erano
ovviamente ricambiati perché ciascuno stesse al proprio posto.
Molto spessi invece, il direttore e il capo ufficio personale
quando convocavano un operaio, gli davano del tu. Nelle aziende
la sproporzione tra il numero degli operai e degli impiegati era
enorme.
Su un migliaio di operai gli
impiegati erano una decina; nelle piccole aziende il rapporto
operai/impiegati era di cento a due.
Tra gli operai e gli
impiegati c’era una distanza gerarchica insormontabile, la
divisione sociale tra le due categorie era nettissima e visibile
anche nel modo di vestire. Gli impiegati indossavano la camicia
bianca e la cravatta per distinguersi dagli operai in tuta. Nei
giorni festivi e il sabato fascista mettevano la camicia nera.
In una società rigidamente divisa in corporazioni e classi,
anche negli strati più modesti, difficilmente un impiegato di
qualunque livello era amico di un semplice operaio. Tutto li
divideva, anche il vocabolario: l’impiegato percepiva lo
stipendio, l’operaio il salario o la quindicina (come in
Solvay). L’impiegato faceva gli straordinari per arrotondare il
magro stipendio; l’operaio lavorava a cottimo, una parola che
sapeva di fatica. Diventare impiegato, o anche solo intermedio,
era il sogno di ogni operaio giovane, volenteroso e ambizioso.
Il fascismo aveva
ristabilito il senso della gerarchia e del comando. La fabbrica
doveva funzionare come una caserma. «Il funzionario» dice Leo
Longanesi «prova finalmente la vanità di servire con zelo, sente
di far parte di una macchina che fa la storia, non è più il
burocrate vilipeso; ora è un milite dello Stato.»
Le mezze maniche
ottocentesche stavano scomparendo, ma le impiegate e le
telefoniste portavano ancora il grembiule nero che indicava la
loro condizione subalterna. Negli stanzoni con i tavoli
allineati uno accanto all’altro, non si alzavano gli occhi dalle
macchine per scrivere Olivetti. È il momento della dattilografa,
un lavoro che affascina le ragazze del popolo e le emancipa
dalla scuola di cucito.
Il
titolo di studio
assicurava un impiego adeguato. Gli ingegneri e i tecnici
specializzati trovavano facilmente lavoro. Il fascismo aveva
istituito il liceo scientifico, le scuole tecniche e
d’avviamento professionale per il commercio l’industria e
l’artigianato, e la nuova facoltà di scienze politiche (oggi
decaduta), sulla preesistente scuola di scienze politiche
d’epoca liberale, per preparare non solo gli alti funzionari
dell’amministrazione pubblica, ma anche i dirigenti per le
organizzazioni di partito e sindacali e per i mezzi di
comunicazione di massa (giornali e radio).
L’operaio era in
soggezione davanti al superiore, come la recluta di fronte
all’ufficiale. Alla tutela del lavoratore in materia
previdenziale il fascismo aveva provveduto emanando nel 1927 la
"Carta del lavoro" che aveva segnato, secondo Bruno Biagi,
sottosegretario alle Corporazioni, la «nuova civiltà fascista
del lavoro»: civiltà d’impronta sociale che «è lontana dalle
aberrazioni socialistica e comunistica, ma rifiuta anche i vieti
principi e le viete formalità del liberalismo politico ed
economico». Civiltà d’impronta sociale che «la Carta del lavoro
considera come la esposizione dei diritti e i doveri dei
cittadini produttori».
Con la Carta del lavoro
veniva trasformato il concetto di lavoro: non più oggetto, ma
soggetto dell’economia dirigista fascista.
Il direttore tecnico dello
stabilimento era un’autorità e godeva di grande considerazione.
Ma al di sopra di tutti, della stessa direzione e della
dirigenza di fabbrica, c’erano i rappresentanti del partito e
fascisti di provata fede. Non sempre la tessera era sufficiente
per farsi assumere se non venivano riconosciute doti di sicura
capacità (anche perché non esisteva il pericolo che qualcuno si
rivolgesse ad altro partito).
(Sintesi da: "Otto milioni di biciclette" di Romano Bracalini) |