IL CASO DEL PVC A
ROSIGNANO
Gli anni Ottanta videro il gruppo Solvay intensificare i propri
sforzi nel settore delle materie plastiche al fine di
contrastare la forte concorrenza internazionale che si era già
manifestata sul finire del precedente decennio. Il prodotto
verso cui la multinazionale belga voleva concentrarsi era il
polimero del cloruro di vinile, noto più comunemente come PVC,
ottenuto dal cloruro di vinile monomero (VCM). La domanda
internazionale di questo prodotto, infatti, era in costante
aumento grazie alle sue numerose applicazioni come imballaggi
alimentari, tubi, telai, infissi, rivestimenti interni delle
automobili, materiale ospedaliero, ecc. Si aprivano per questo
prodotto interessanti prospettive e Solvay non voleva certo
farsi scalzare dalla concorrenza rischiando di perdere
importanti quote di mercato. In particolare, la multinazionale
belga si sentiva insidiata dall’accordo Enichem-Ici con il quale
una nuova società, la E.V.C., era stata in grado di accaparrasi
il 25% del mercato europeo. La strategia della direzione di
Bruxelles fu allora di aumentare la produzione di PVC anche in
Italia, produzione che era allora circoscritta al solo
stabilimento di Ferrara (73). Il polo chimico di Rosignano, del
resto, aveva tutte le carte in regola per poter accogliere
un’unità produttiva di PVC, sia per la felice posizione
geografica e la facilità di collegamenti di cui poteva
usufruire, sia per la disponibilità di terreni e di materie
prime come cloro ed etilene, assolutamente indispensabili,
qualora l’aumento della produzione avesse reso difficile il
rifornimento del VCM sui mercati esteri ed il suo arrivo in loco
per mare o per ferrovia.
L’iniziativa di Bruxelles era anche appoggiata dalle
associazioni sindacali. Infatti, di fronte al calo
dell’occupazione (74), registrato presso lo stabilimento di
Rosignano nella prima metà degli anni Ottanta, i sindacati
cercavano di spingere la multinazionale belga ad investire in
nuove produzioni ad alta tecnologia, proprio per innalzare i
livelli occupazionali dello stabilimento. Un primo risultato,
del resto, le associazioni sindacali lo avevano già ottenuto
quando, fra il 1985 e il 1986, era stato costruito a Rosignano
un impianto (che fu però chiuso cinque anni dopo) per la
produzione di clarene (una pellicola plastica usata per gli
alimenti) con l’ingresso di 50 nuovi dipendenti (75). La nuova
produzione rappresentava un importante passo in avanti anche per
la società belga che poteva così entrare nel vasto campo delle
cosiddette specialities ovvero prodotti chimici sofisticati ad
alto valore aggiunto. Si ricordi che il clarene, fino ad allora,
era soltanto prodotto in Giappone.
Il progetto d’installazione di un impianto PVC poneva, tuttavia,
una serie di problematiche connesse con la salute dei lavoratori
dello stabilimento e di tutti i cittadini di Rosignano. In
particolare, il prodotto chimico maggiormente tenuto sotto
osservazione era il cloruro di vinile monomero (VCM), il quale
era non solo materia prima per produrre materie plastiche come
il policloruro di vinile (PVC), ma anche propellente per vari
prodotti di largo consumo (come le lacche per capelli, i
deodoranti ambientali, le vernici a spruzzo, ecc.). I primi
studi sulla nocività del VCM partirono negli anni Settanta
quando il prof. Viola, uno dei massimi esperti italiani di
medicina del lavoro e dipendente medico della Solvay presso lo
stabilimento di Rosignano, aveva riscontrato, attraverso
esperimenti condotti sui ratti, gravi alterazioni ossee (acroosteolisi)
derivanti dall’esposizione al cloruro di vinile. Tali risultati,
presentati per la prima volta presso la Conferenza
internazionale sul cancro di Houston nel 1970, vennero poi
confermati anche per gli esseri umani. Già in quello stesso
anno, un gruppo di ricercatori americani aveva documentato tre
casi di morti fra gli addetti di un impianto di produzione del
PVC di una grande industria chimica statunitense. Due anni dopo
(1972), fu il prof. Cesare Maltoni, direttore del Centro per la
prevenzione dei tumori e della ricerca oncologica di Bologna, a
dimostrare, nell’ambito di uno studio commissionato da alcune
imprese chimiche europee, la pericolosità cancerogena del VCM
anche per gli esseri umani (76). Queste evidenze clinico-scientifiche iniziarono a smuovere l’interesse delle
istituzioni pubbliche solo sul finire degli anni Settanta.
Rispetto allo stabilimento di Rosignano, dove era in funzione un
impianto di produzione di VCM il cui output era destinato allo
stabilimento di Ferrara, furono promossi i primi studi dalla
regione Toscana e dal Comune di Rosignano Marittimo con
un’indagine dal titolo «Indagine sulla mortalità della
popolazione di Rosignano Solvay esposta ad inquinamento
ambientale da cloruro di vinile» (giugno 1978). I risultati di
quello studio potevano essere così riassunti. Per quanto
riguarda i maschi, nel periodo oggetto di osservazione
(1949-1973), il livello medio di mortalità per tumori aveva
fatto registrare un incremento non significativamente superiore
a quello che si era verificato a livello nazionale; tuttavia le
classi di età comprese tra O a 34 presentavano un andamento più
accentuato di quella mortalità con eccedenze comprese tra il 10%
e il 15%. i tumori maligni al fegato risultavano i principali
responsabili di questa «eccedenza» di mortalità a livello
locale. Per quanto riguardava le femmine, la mortalità per
tumori era cresciuta a Rosignano in modo più accentuato che non
nel resto d’Italia per le classi centrali di età, mentre per i
tumori maligni al fegato si registravano un numero di casi da
2,5 a 3 volte superiori alla media nazionale tra le donne più
giovani. Inoltre, tra il 1969 ed il 1973, per i bambini fino a 5
anni di età si riscontrava un eccesso di mortalità imputabile a
malformazioni dell’apparto cardiocircolatorio. L’incidenza di
questo tipo di mortalità risultava più elevata rispetto alla
media nazionale, del 30% in più per i maschi e del 96% in più
per le femmine. L’analisi della mortalità per la popolazione
residente nella sola frazione di Rosignano Solvay aveva rilevato
una situazione peggiore rispetto al resto del comune, con
differenze in eccesso assai significative per entrambi i sessi.
Eccedenza di questo tipo di mortalità rispetto alla media
nazionale era, infatti, del 23,7% a Rosignano Solvay e 19,4%
nelle altre frazioni. Il divario, inoltre, era ancora più
accentuato per le persone in età compresa tra i 35 e i 44 anni
(nel bel mezzo dell’età lavorativa). Anche per le malattie del
sistema circolatorio le morti a Rosignano Solvay erano superiori
rispetto a quelle registrate presso le altre frazioni del
comune. In definitiva tale indagine arrivava a concludere che
esisteva associazione tra la residenza in condizioni
d’inquinamento ambientale (in particolare da VCM) e l’eccesso di
mortalità per le cause selezionate.
Il caso dell’inquinamento da VCM a Rosignano venne ripreso in
esame sei anni dopo (1984) dall’Istituto Superiore di Sanità
nell’ambito di un’indagine epidemiologica che coinvolse tutte le
industrie chimiche italiane che producevano o che avevano
prodotto VCM e/o PVC. Le conclusioni a cui pervennero gli autori
di quell’indagine furono meno categoriche di quelle illustrate
sei anni prima dallo studio della Regione Toscana e del Comune
di Rosignano Marittimo. Sui dati di mortalità di Rosignano,
l’Istituto Superiore di Sanità affermava che il numero di tumori
osservati superava di poco il numero di tumori attesi e che, a
fronte di una mortalità ridotta per cause tumorali, non si
potevano «quindi trarre indicazioni definitive dato il piccolo
numero di eventi rilevati». Lo studio, tuttavia, nel ricordare
che esisteva un periodo di latenza (intercorrente tra la prima
esposizione al rischio e la comparsa del tumore) compreso tra 15
e 39 anni, non escludeva la possibile comparsa, in futuro, di
altri casi di angiosarcoma nel comune di Rosignano Marittimo.
Insomma, il clima attorno al progetto PVC della Solvay a
Rosignano non era dei più favorevoli. Le indagini, poc'anzi
ricordate della Regione Toscana e dell’istituto Superiore di
Sanità, furono riprese da quelle associazioni che si
mobilitarono contro la costruzione dell’impianto, tra le quali
il WWF, Lagambiente, l’Arci di Zona e il partito di Democrazia
Proletaria. In particolare, queste ultime denunciavano con forza
la natura cancerogena del VCM, il degrado ambientale, la scarsa
ricaduta occupazionale e gli effetti negativi per il turismo
balneare che sarebbero derivati dalla costruzione dell’impianto.
D’altro canto Solvay mirava a potenziare il proprio sforzo nel
settore delle materie plastiche ed era determinata fino in fondo
a realizzare il proprio progetto a Rosignano. La società belga,
inoltre, poté trovare a sostegno del progetto un formidabile
alleato nell’organizzazione sindacale. Il Consiglio di Fabbrica,
la FULC nazionale, regionale e territoriale, riuniti
congiuntamente a Rosignano nel settembre 1987 espressero,
infatti, un giudizio del tutto positivo sul piano d’investimenti
che la Solvay intendeva realizzare nel settore delle materie
plastiche. Secondo il sindacato, qualora il progetto PVC non
fosse stato realizzato, il complesso industriale di Rosignano
avrebbe corso seri pericoli di decadere ad un ruolo del tutto
marginale nel panorama internazionale del gruppo. Gli obiettivi
per il rilancio del complesso chimico erano dunque identificati,
dai rappresentanti dei lavoratori, nella consistente ripresa
degli investimenti e nella tutela ambientale, considerate due
«leve non separabili dello sviluppo».
Lo studio di fattibilità del progetto da parte della società
belga si concluse nel luglio 1987. Gli ingegneri Solvay
ritenevano che il nuovo impianto potesse ben integrarsi con le
produzioni esistenti nel complesso di Rosignano, in modo
equilibrato e funzionale, dato che vi erano gli spazi necessari
e tutte le condizioni di sicurezza richieste dalla normativa. In
particolare, il progetto presentato dalla società belga
prevedeva due fasi di realizzazione. Nella prima era prevista la
costruzione dell’impianto per produrre il PVC, con una capacità
annua complessiva di 70.000 tonnellate. Il rifornimento del VCM
poteva avvenire via mare, garantendo così più ampi margini di
sicurezza, mentre i serbatoi (della capacità di 2.800 metri
cubi) potevano essere interrati. Nella seconda fase, il piano
prevedeva un incremento della capacità produttiva dell’impianto
portandola a 240.000 tonnellate annue. Dal punto di vista
ambientale, la società Solvay assicurava un livello di controllo
e di protezione ben più elevato di quello garantito nel corso
degli anni Sessanta. Secondo la società belga, infatti,
l’impiego di autoclavi di grandi dimensioni (120 metri cubi),
avrebbe permesso di ottenere margini di sicurezza più ampi e
minori necessità d’esposizione, poiché dovevano aprirsi molto
più raramente: una volta ogni 15 giorni, anziché ogni 1-2 giorni
come avveniva con le autoclavi utilizzate prima. Infine, veniva
previsto un tasso di inquinamento di 0,25 parti per milione
(ppm), mentre il limite imposto dalla normativa della Comunità
Economica Europea era di 3 ppm.
Il piano presentato dalla società belga venne considerato dai
sindacati di notevole importanza strategica. L’investimento,
pari a 65 miliardi di lire all’inizio e a circa 250-300 miliardi
a fine progetto, avrebbe assicurato l’impiego di 300 nuovi
dipendenti stabili a cui si sarebbero aggiunti, sempre secondo
le stime della società, altri 600 posti di lavoro nel relativo
indotto. Era evidente che simili previsioni occupazionali,
insieme alle garanzie di sicurezza impiantistica date dalla
società, non potevano che trovare un favorevole accoglimento da
parte delle organizzazioni sindacali, che espressero dunque un
giudizio positivo ai programmi d’investimento della Solvay
nell’area industriale di Rosignano.
Verso la fine del 1987 il Comitato Interministeriale per la
Programmazione Economica (CIPE) dette la propria approvazione al
progetto presentato dalla società belga, riconoscendo la sua
validità sul piano dello sviluppo sia locale che nazionale. La
parola definitiva, tuttavia, spettava al Comune di Rosignano
Marittimo ed in particolare al sindaco Giuseppe Danesin, che era
l’unica autorità competente a rilasciare la concessione edilizia
per la costruzione dell’impianto.
Il Consiglio Comunale nella seduta del 16 dicembre 1987 approvò
all’unanimità un documento nel quale si chiedeva di aprire con
Solvay una vertenza complessiva sui problemi ambientali. In
questo documento si diceva che, senza un impegno concreto della
società belga nelle questioni di ordine ambientale, non era
realizzabile nessuna intesa preventiva sui programmati
investimenti nel settore del PVC. In pratica, il Consiglio
Comunale faceva alla società belga una serie di richieste che
consistevano in un ulteriore controllo ed abbattimento degli
scarichi a mare e nell’atmosfera, in una maggiore tutela delle
risorse idriche e minerarie, in uno spostamento degli stoccaggi
dalla zona marittima di Vada ed in una maggiore difesa della
costa dall’erosione. Nei mesi successivi Solvay si dimostrò
riluttante ad accogliere quelle richieste. In particolare, la
questione più controversa apparve quella concernente gli
stoccaggi presso la zona di Vada. Nell’aprile 1988 la
multinazionale belga fece addirittura balenare la prospettiva di
procedere al licenziamento di un migliaio di dipendenti qualora
non avesse potuto realizzare i propri depositi nell’area di
Vada. Per l’amministrazione comunale non era concepibile che
simili problemi di natura ambientale potessero essere gestiti
unilateralmente dalla Solvay, subordinando lo sviluppo economico
di Rosignano all’accettazione delle proprie proposte da parte
della cittadinanza.
Contro l’ipotesi di un ricatto occupazionale si mobilitarono le
associazioni sindacali e le forze politiche presenti in
Consiglio Comunale (PCI, DC, PSI e PRI). Il 5 maggio si svolse
uno sciopero generale a cui parteciparono tutti i sindacati
(CGIL, CISL, UIL) e si tenne una seduta straordinaria del
Consiglio Comunale in piazza del Risorgimento. La manifestazione
ebbe un tale successo che Solvay fu costretta a ritornare sulle
proprie posizioni. Fu così che Solvay accettò di riprendere le
discussioni sulla vertenza ambientale e, nel giro di poche
settimane, raggiunse un accordo definitivo con le associazioni
sindacali.
Il piano di investimenti siglato con i sindacati prevedeva due
diverse Fasi. Nella prima, che andava dal 1988 al 1990, era
prevista la costruzione di un impianto di PVC con una capacità
produttiva di 80.000 tonnellate annue, per un investimento
totale di 65 miliardi di lire, e la contemporanea realizzazione
di un serbatoio per l’etilene liquido da 10.000 tonnellate per
un investimento di 15 miliardi di lire. Nella seconda fase, che
copriva il quinquennio 1990-95, era previsto un allargamento
dell’impianto di VCM pari a 240/250.000 tonnellate annue. Tale
progetto aveva anche evidenti riflessi occupazionali essendo
prevista l’assunzione di 300 nuovi posti di lavoro diretti e di
500-600 posti di lavoro indiretti. Insieme a questo progetto la
società belga presentò anche un piano ambientale nel quale essa
s’impegnava ad interrare tutte le tubazioni che attraversavano
l’abitato di Vada, a ridurre le emissioni gassose, ad impiantare
un sistema di monito-raggio mobile per il controllo delle
stesse e a ridurre progressivamente i consumi d’acqua dolce e di
salgemma. Con la preparazione di questo piano, il sindacato dava
il proprio pieno appoggio alla realizzazione del nuovo Impianto
di PVC, mentre l’amministrazione comunale e le forze politiche
in esso rappresentate evitarono di pronunciarsi in modo
definitivo.
Intanto nella cittadinanza prendeva sempre più consistenza il
fronte del no. Nell’ottobre 1988 venne costituito un Comitato
civico pro-referendum al quale aderirono trasversalmente varie
personalità appartenenti a formazioni politiche diverse. Le
perplessità sull’opportunità di realizzare il progetto si
manifestarono anche nei partiti di sinistra (come PSI e PCI),
tant’è che nel partito di maggioranza (il PCI, detentore alle
ultime elezioni di oltre il 55% del consenso popolare) si
procedette addirittura ad una consultazione «simulata» dei
propri iscritti residenti nel comune di Rosignano da cui emerse
una vittoria schiacciante del sì al progetto del PVC-VCM, con
l’81,8% di favorevoli (79).
La strada verso la consultazione referendaria era ormai
spianata. E' presumibile che fu proprio la probabile vittoria del
«sì» a far propendere il Consiglio comunale verso la
convocazione del referendum popolare a cui vennero ammessi anche
i cittadini non ancora maggiorenni con età superiore ai 16 anni.
I sindacati confederali invitavano a votare «sì», indicando
varie ragioni. Si faceva notare, infatti, che la Commissione
tecnica incaricata dal Consiglio comunale aveva considerato
quasi nullo l’impatto ambientale del nuovo impianto e che,
inoltre, sempre per il sindacato, le stesse prescrizioni
dell’Unità Sanitaria Locale (USL) offrivano adeguate garanzie di
controllo sociale sull’ambiente. Anche i partiti locali come
PCI, DC, PSI e PRI, pur con alcuni distinguo, invitavano a
votare per il «sì». Era evidente che su queste basi la vittoria
del «no» sembrava estremamente improbabile. Eppure il 55,4% dei
votanti si espresse negativamente. Le località che ebbero un maggior peso nel determinare la
vittoria del «no» furono quelle a vocazione turistica come Vada
e Castiglioncello (rispettivamente con percentuali di «no» pari
al 68,2% e al 71,5%), mentre per le altre frazioni la vittoria
del «no» fu più contenuta, ma non per questo meno significativa.
Di fronte ad un simile risultato il sindaco Danesin, pur non
essendo vincolato ad accettare il giudizio popolare, diramò un
comunicato stampa nel quale dichiarava la propria volontà di non
concedere la necessaria concessione edilizia alla Solvay e tale
decisione venne confermata poi anche dal Consiglio comunale. La
Solvay, dal canto suo, criticò con fermezza il comportamento
dell’Amministrazione comunale e parlò di «grande occasione
perduta». Il sindacato e i partiti locali, dal canto loro, si
trovavano a prendere atto di un esito che non era in nessun modo
nelle loro previsioni.
Le ragioni di quel risultato vanno ricercate in un allentamento
dello storico rapporto tra Solvay e territorio. Probabilmente ad
influire su questo esito erano intervenuti tre fattori
importanti: il sensibile calo dell’occupazione, l’accresciuta
sensibilità ambientale ed il peso sempre maggiore che aveva
assunto sul territorio il settore terziario ed in particolare
quello turistico. Questi fattori, nel loro insieme, mettevano
fine all’idea di uno sviluppo solo industriale che per tanto
tempo aveva caratterizzato il rapporto tra Solvay e il
territorio circostante.
NOTE
73 – L’idea della Solvay era quella di chiudere il proprio
stabilimento di Ferrara dove avveniva la polimerizzazione del
VCM fabbricato a Rosignano e contestualmente aprire un nuovo
impianto di PVC a Rosignano.
74 - In pratica, ai pensionamenti non era seguita una politica
di riassunzione del personale. Anzi, negli anni Settanta certi
reparti erano stati chiusi e i dipendenti erano stati
riassorbiti in altre produzioni. Ad esempio, nel 1974 venne
chiuso il reparto <Multifìli (dove si produceva il filato del
polietilene) a causa delle forti perdite economiche. I 150
addetti del reparto vennero, tuttavia, reimpiegati in altri
processi produttivi.
75 – Il Clarene era una nuova materia plastica con forte effetto
«barriera>’, ossia aveva la caratteristica di un’alta
impermeabilità ai gas (in particolare all’ossigeno e agli
odori); aveva una buona trasparenza e un’elevata resistenza agli
olii ed ai solventi organici. Questa materia plastica, ideale
per l’imballaggio multistrato degli alimenti, rispondeva
pienamente alle crescenti esigenze nel settore della
conservazione ed alle norme sempre più rigorose imposte dai vari
Stati. Il processo d1 Fabbricazione prevedeva diverse fasi che
andavano dalla copolimerazione alla estrusione, attraverso le
quali i monomeri di partenza (etilene e vinil-acetato) si
trasformavano in granuli di Clarene che, una volta insaccati,
erano disponibili per la clientela. L’impianto venne inaugurato
a Rosignano nel giugno 1986.
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