Gli ospiti di Castiglioncello  Cronache


Da "La Stampa" del 15-09-2003 di Masolino d'Amico

GASSMAN il vento in prora
  Recitava nella vita la parte del vincitore, del primo della classe: in realtà era di un'inefficienza incomparabile


Ricordando Vittorio Gassman dopo la morte, molti hanno osservato come questo uomo così aitante, così dotato, così portato a primeggiare, fosse in fondo, sotto sotto, timido e insicuro. E l'impressione che Vittorio, logorato dal suo male oscuro, poteva produrre negli ultimi tempi - io stesso ricordo la sorpresa che provai una sera a Trieste, quando abbracciandolo dopo il suo ultimo recital lo sentii magro e addirittura gracile sotto l'abito di scena. Da ultimo non aveva più bisogno di fingere debolezze come ai bei tempi, quando teorizzava che il pubblico ama simpatizzare con la fragilità e che quindi non bisogna mostrarsi troppo sicuri di sé. Così affettava talvolta, beninteso ammiccando, qualche esitazione, qualche falla nella sua apparente infallibilità. Per non rischiare di risultare indisponente, doveva sembrare un po' meno bravo, un po' meno sicuro di sé. Quanto a essere bravo, infatti, lo era, era il più bravo di tutti, dieci su dieci in tutte le materie. Era attore per vocazione, anche se non, come molti dei sommi, per tradizione familiare (affascinato dalle dinastie dei comici, entrò in una di queste sposando giovanissimo Nora Ricci, figlia di Renzo Ricci e di Margherita Bagni e nipote di Zacconi), anzi veniva da un ambiente borghese, con un padre ingegnere di sangue teutonico. Questo sangue si manifestò sia conferendogli un fisico da atleta nordico e - una statura assai superiore alla media di allora, degli italiani in genere e degli attori in particolare (quando mio nonno Silvio d'Amico lo ammise a malincuore all'Accademia d'Arte Drammatica, che dirigeva, dichiarò le sue riserve, quel giovanotto era «troppo alto»); sia dandogli una determinazione metodica nello studio di quello che gli serviva. L'impulso a esercitare la professione gli venne per vie misteriose, per il resto fu un attore costruito con pazienza e perfezionismo, a partire dalla famosa voce, che diventò un organo a forza di esercizi. Allora la voce era una parte fondamentale del mestiere - lo è ancora, se non da noi, in paesi di autentica civiltà teatrale - e l'Accademia si avvaleva di uno straordinario insegnante di dizione, Mario Pelosini, dei cui insegnamenti Vittorio fece tesoro più di ogni altro. La voce diventò lo strumento con cui sfogò un amore viscerale per la parola. Vittorio parlava volentieri molte lingue e imitava bene i dialetti, ma sopra ogni cosa adorava, in questo forse occupando una posizione destinata a sembrare antiquata, la lingua italiana classica, ancora più per il suo suono che per i sensi di cui poteva essere latrice. Stravolgendo un proverbio inglese, Humpty Dumpty dice a Alice, «Tu pensa ai suoni e vedrai che poi il senso si aggiusterà da solo». Me lo ricordai una sera a Genova, alla prima di uno strabordante spettacolo concepito da Vittorio intorno a Moby Dick, sopra una specie di nave-palcoscenico disegnata nel porto dal suo amico e conterraneo Renzo Piano. Parlando di mare e di avventure era fatidico che ci infilasse anche uno dei suoi cavalli di battaglia, il canto XXVI dell'inferno, quello di Ulisse. Stava per attaccarlo quando il mio illustre collega critico Aggeo Savioli, seduto accanto a me, sospirò sottovoce: «Ci rimetterà la prora anche questa volta?». «Come sarebbe?» domandai io. E Aggeo: «Dice sempre "prora" per "poppa", gli suona meglio. Gliel' ho fatto notare, ma da quell' orecchio non ci sente». È il punto in cui Ulisse racconta a Dante della sua spedizione alle Colonne d'Ercole, quando temerariamente volle spingersi fino a dove l'uomo non può arrivare. «E volta nostra poppa nel mattino, / De' remi facemmo ali al folle volo, / Sempre acquistando dal lato mancino». Poppa a Oriente, dunque direzione Ovest, verso l'Atlantico e l'ignoto. Ma a Vittorio quel «poppa» non andava proprio giù. Così anche quella sera come previsto da Savioli declamò puntualmente: «E volta nostra PRORA nel mattino...». Diversamente da quello di Dante, il suo Ulisse faceva una rotta opposta a quella fatale. Tornava verso casa. Col che non voglio affatto dire che Gassman fosse come quegli attori, ce ne sono tanti e alcuni sommi (anche inglesi, specializzati in Shakespeare) che non hanno idea di cosa stanno dicendo, ma lo dicono con una tale convinzione da trasmetterla agli spettatori. Al contrario, Vittorio era coltissimo, un lettore instancabile con mille curiosità e la testa sempre piena di citazioni adatte. Anche questo documentarsi a tappeto faceva parte del suo lato tedesco. Nutriva il suo cervello, come aveva sviluppato la sua voce e come si era irrobustito il torace. Credo che abbia fatto così perfino col senso dell'umorismo. Quando l'ho cominciato a frequentare io, alla fine degli anni Cinquanta, era già molto spiritoso, ma ascoltando le descrizioni di chi lo conosceva da prima e descriveva un fanatico narcisista intransigente mi sono fatto l'idea che questo umorismo Vittorio lo abbia acquisito solo a un certo punto, quando con la sua intelligenza capì di averne bisogno: sia per evitare il suaccennato rischio di risultare antipatico (troppo bello, troppo alto, troppo bravo...), sia perché era lì che andava il nostro gusto nazionale. Sfinita da vent'anni di retorica fascista, l'Italia aveva scoperto l'ironia, e si accingeva a continuare il suo prodotto artistico più nuovo e genuino, ossia il neorealismo cinematografico, con la commedia all'italiana, dove le situazioni più drammatiche sono trattate obliquamente, ridendoci sopra. Gassman captò questo, e fu il primo interprete classico a gettarsi nel filone inaugurato se non addirittura inventato da quel mostro di genialità irrazionale, istintiva - il suo opposto che fu Alberto Sordi. Avendo affrontato con disinvoltura parti comiche in tv (I tromboni). Gassman convinse Mario Monicelli a dargli la parte del protagonista nei Soliti ignoti (commedia atipica nel cinema di allora, senza comici di professione tranne un'apparizione di Totò); affrontò una parte in origine destinata a Sordi nel Sorpasso di Dino Risi; e infine si cimentò faccia a faccia proprio con il modello Alberto nella Grande guerra, dimostrandosi in grado di tenergli testa sul suo terreno. La differenza tra gli attori e le persone normali è che gli attori fingono sempre di essere qualcun altro (quelli grandi, facendo capire che stanno recitando), mentre le persone normali fingono soltanto di essere se stesse (quelle mediocri, credendo alla propria finzione). Tra le parti che Vittorio recitava nella vita la più frequente era quella del vincitore, del primo della classe, del number one. In realtà, era di una inefficienza incomparabile. Non credo che sperperasse i soldi, ma non sapeva dove andavano a finire. Fondò e finanziò generosamente il Teatro Popolare e per portare i suoi spettacoli dappertutto, particolarmente dove non esistevano sale, si fece costruire un enorme tendone che si rivelò inamovibile e così caro da far collassare l'istituzione praticamente dall'inizio. L'uomo che in tanti film incarna il pescecane, l'italiano senza scrupoli che sa come arrangiarsi e fare i quattrini, era incapace di tenere una contabilità elementare. Anche nello sport era così, gli piaceva - e qui era irresistibilmente simpatico - recitare la parte dell'atleta trionfante, molto più che praticare la disciplina con umiltà. Era stato, è vero, nazionale di pallacanestro, ma, come diceva lui stesso, in tempi in cui il basket era poco praticato, e lui era favorito dalla stazza. Negli altri sport in cui l'ho visto cimentarsi si distingueva più per l'entusiasmo e l'inesauribile energia che per altre qualità. Era, infatti, curiosamente se si pensa all'impeccabilità dei suoi gesti sul palcoscenico, abbastanza scoordinato se non addirittura goffo. Nel tennis era trascinato dalla foga e non si controllava. Nel calcio avrebbe forse dovuto giocare in porta - era quello che Gianni Brera definiva un brevilineo alto, ossia col busto in proporzione lungo rispetto alle gambe, come il Buffon portiere dei miei tempi, che arrivava più in su di tutti quando saltava per prendere la palla in arrivo dal corner, ma allo stesso tempo era agile quando si doveva tuffare. Ovviamente invece Vittorio giocava centrattacco, caricando tutti a testa a bassa e esigendo che gli si passasse sempre la palla. Quando girarono II sorpasso a Castiglioncello volle che la troupe sfidasse i villeggianti; ma era fine stagione, io che dovevo organizzare questi ultimi non ne trovai abbastanza, e così schierai un paio di giocatorini locali che fecero la differenza. Dominammo, e sul campo Vittorio non si diede pace, affibbiò addirittura uno scapaccione al ragazzino che lo marcava stretto. Uscendo da sconfitto, volle che si organizzasse subito un piccolo torneo di pingpong allo scopo di vincerlo lui. «Se perdo in una cosa devo almeno rivalermi in un'altra» mi disse, e mi raccontò un episodio che dimostra come avesse lavorato bene su quell'umorismo di cui sopra. Aveva tentato di imparare a sciare, altra specialità per cui non era troppo portato, soprattutto se si pensa alle piste poco battute e agli ostici sci di allora. A Cervinia dopo alcuni tentativi poco incoraggianti aveva deciso di prendere lezioni private dal più famoso maestro di allora, il leggendario Leo Gasperi dai calzoni di gabardine sempre muniti di una piega impeccabile. Il maestro torchiava i neofiti senza pietà, e così lo aveva portato in neve fresca, in una valle dov'erano rimasti soli loro due. «Un calvario» mi disse Vittorio. «Io cadevo ogni due metri, e quello implacabile mi dava racchettate sui ginocchi. "Su, su, riprovare, riprovare". Era frustrante. Fradicio, tutto coperto di neve, lo odiavo, lui sapeva sciare e io no, lui elegante come un dio e io a quattro gambe come un bambino deficiente. Eppure dovevo impormi, dovevo batterlo in qualche cosa. A un certo punto non ci vidi più. Mi rialzai in piedi e mi misi a gridare, mentre quello mi guardava come un pazzo: "Ma chi si crede di essere a trattarmi così? Lei non sa nemmeno parlare l'italiano! Mentre io, io... io so tutto l'Alfieri a memoria!"».

Torna all'indice cronache