Ricordando Vittorio 
														Gassman dopo la morte, 
														molti hanno osservato 
														come questo uomo così 
														aitante, così dotato, 
														così portato a 
														primeggiare, fosse in 
														fondo, sotto sotto, 
														timido e insicuro. E 
														l'impressione che 
														Vittorio, logorato dal 
														suo male oscuro, poteva 
														produrre negli ultimi 
														tempi - io stesso 
														ricordo la sorpresa che 
														provai una sera a 
														Trieste, quando 
														abbracciandolo dopo il 
														suo ultimo recital lo 
														sentii magro e 
														addirittura gracile 
														sotto l'abito di scena. 
														Da ultimo non aveva più 
														bisogno di fingere 
														debolezze come ai bei 
														tempi, quando teorizzava 
														che il pubblico ama 
														simpatizzare con la 
														fragilità e che quindi 
														non bisogna mostrarsi 
														troppo sicuri di sé. 
														Così affettava talvolta, 
														beninteso ammiccando, 
														qualche esitazione, 
														qualche falla nella sua 
														apparente infallibilità. 
														Per non rischiare di 
														risultare indisponente, 
														doveva sembrare un po' 
														meno bravo, un po' meno 
														sicuro di sé. Quanto a 
														essere bravo, infatti, 
														lo era, era il più bravo 
														di tutti, dieci su dieci 
														in tutte le materie. Era 
														attore per vocazione, 
														anche se non, come molti 
														dei sommi, per 
														tradizione familiare 
														(affascinato dalle 
														dinastie dei comici, 
														entrò in una di queste 
														sposando giovanissimo 
														Nora Ricci, figlia di 
														Renzo Ricci e di 
														Margherita Bagni e 
														nipote di Zacconi), anzi 
														veniva da un ambiente 
														borghese, con un padre 
														ingegnere di sangue 
														teutonico. Questo sangue 
														si manifestò sia 
														conferendogli un fisico 
														da atleta nordico e - 
														una statura assai 
														superiore alla media di 
														allora, degli italiani 
														in genere e degli attori 
														in particolare (quando 
														mio nonno Silvio d'Amico 
														lo ammise a malincuore 
														all'Accademia d'Arte 
														Drammatica, che 
														dirigeva, dichiarò le 
														sue riserve, quel 
														giovanotto era «troppo 
														alto»); sia dandogli una 
														determinazione metodica 
														nello studio di quello 
														che gli serviva. 
														L'impulso a esercitare 
														la professione gli venne 
														per vie misteriose, per 
														il resto fu un attore 
														costruito con pazienza e 
														perfezionismo, a partire 
														dalla famosa voce, che 
														diventò un organo a 
														forza di esercizi. 
														Allora la voce era una 
														parte fondamentale del 
														mestiere - lo è ancora, 
														se non da noi, in paesi 
														di autentica civiltà 
														teatrale - e l'Accademia 
														si avvaleva di uno 
														straordinario insegnante 
														di dizione, Mario 
														Pelosini, dei cui 
														insegnamenti Vittorio 
														fece tesoro più di ogni 
														altro. La voce diventò 
														lo strumento con cui 
														sfogò un amore viscerale 
														per la parola. Vittorio 
														parlava volentieri molte 
														lingue e imitava bene i 
														dialetti, ma sopra ogni 
														cosa adorava, in questo 
														forse occupando una 
														posizione destinata a 
														sembrare antiquata, la 
														lingua italiana 
														classica, ancora più per 
														il suo suono che per i 
														sensi di cui poteva 
														essere latrice. 
														Stravolgendo un 
														proverbio inglese, 
														Humpty Dumpty dice a 
														Alice, «Tu pensa ai 
														suoni e vedrai che poi 
														il senso si aggiusterà 
														da solo». Me lo ricordai 
														una sera a Genova, alla 
														prima di uno 
														strabordante spettacolo 
														concepito da Vittorio 
														intorno a Moby Dick, 
														sopra una specie di 
														nave-palcoscenico 
														disegnata nel porto dal 
														suo amico e conterraneo 
														Renzo Piano. Parlando di 
														mare e di avventure era 
														fatidico che ci 
														infilasse anche uno dei 
														suoi cavalli di 
														battaglia, il canto XXVI 
														dell'inferno, quello di 
														Ulisse. Stava per 
														attaccarlo quando il mio 
														illustre collega critico 
														Aggeo Savioli, seduto 
														accanto a me, sospirò 
														sottovoce: «Ci rimetterà 
														la prora anche questa 
														volta?». «Come sarebbe?» 
														domandai io. E Aggeo: 
														«Dice sempre "prora" per 
														"poppa", gli suona 
														meglio. Gliel' ho fatto 
														notare, ma da quell' 
														orecchio non ci sente». 
														È il punto in cui Ulisse 
														racconta a Dante della 
														sua spedizione alle 
														Colonne d'Ercole, quando 
														temerariamente volle 
														spingersi fino a dove 
														l'uomo non può arrivare. 
														«E volta nostra poppa 
														nel mattino, / De' remi 
														facemmo ali al folle 
														volo, / Sempre 
														acquistando dal lato 
														mancino». Poppa a 
														Oriente, dunque 
														direzione Ovest, verso 
														l'Atlantico e l'ignoto. 
														Ma a Vittorio quel 
														«poppa» non andava 
														proprio giù. Così anche 
														quella sera come 
														previsto da Savioli 
														declamò puntualmente: «E 
														volta nostra PRORA nel 
														mattino...». 
														Diversamente da quello 
														di Dante, il suo Ulisse 
														faceva una rotta opposta 
														a quella fatale. Tornava 
														verso casa. Col che non 
														voglio affatto dire che 
														Gassman fosse come 
														quegli attori, ce ne 
														sono tanti e alcuni 
														sommi (anche inglesi, 
														specializzati in 
														Shakespeare) che non 
														hanno idea di cosa 
														stanno dicendo, ma lo 
														dicono con una tale 
														convinzione da 
														trasmetterla agli 
														spettatori. Al 
														contrario, Vittorio era 
														coltissimo, un lettore 
														instancabile con mille 
														curiosità e la testa 
														sempre piena di 
														citazioni adatte. Anche 
														questo documentarsi a 
														tappeto faceva parte del 
														suo lato tedesco. 
														Nutriva il suo cervello, 
														come aveva sviluppato la 
														sua voce e come si era 
														irrobustito il torace. 
														Credo che abbia fatto 
														così perfino col senso 
														dell'umorismo. Quando 
														l'ho cominciato a 
														frequentare io, alla 
														fine degli anni 
														Cinquanta, era già molto 
														spiritoso, ma ascoltando 
														le descrizioni di chi lo 
														conosceva da prima e 
														descriveva un fanatico 
														narcisista intransigente 
														mi sono fatto l'idea che 
														questo umorismo Vittorio 
														lo abbia acquisito solo 
														a un certo punto, quando 
														con la sua intelligenza 
														capì di averne bisogno: 
														sia per evitare il 
														suaccennato rischio di 
														risultare antipatico 
														(troppo bello, troppo 
														alto, troppo bravo...), 
														sia perché era lì che 
														andava il nostro gusto 
														nazionale. Sfinita da 
														vent'anni di retorica 
														fascista, l'Italia aveva 
														scoperto l'ironia, e si 
														accingeva a continuare 
														il suo prodotto 
														artistico più nuovo e 
														genuino, ossia il 
														neorealismo 
														cinematografico, con la 
														commedia all'italiana, 
														dove le situazioni più 
														drammatiche sono 
														trattate obliquamente, 
														ridendoci sopra. Gassman 
														captò questo, e fu il 
														primo interprete 
														classico a gettarsi nel 
														filone inaugurato se non 
														addirittura inventato da 
														quel mostro di genialità 
														irrazionale, istintiva - 
														il suo opposto che fu 
														Alberto Sordi. Avendo 
														affrontato con 
														disinvoltura parti 
														comiche in tv (I 
														tromboni). Gassman 
														convinse Mario Monicelli 
														a dargli la parte del 
														protagonista nei Soliti 
														ignoti (commedia atipica 
														nel cinema di allora, 
														senza comici di 
														professione tranne 
														un'apparizione di Totò); 
														affrontò una parte in 
														origine destinata a 
														Sordi nel Sorpasso di 
														Dino Risi; e infine si 
														cimentò faccia a faccia 
														proprio con il modello 
														Alberto nella Grande 
														guerra, dimostrandosi in 
														grado di tenergli testa 
														sul suo terreno. La 
														differenza tra gli 
														attori e le persone 
														normali è che gli attori 
														fingono sempre di essere 
														qualcun altro (quelli 
														grandi, facendo capire 
														che stanno recitando), 
														mentre le persone 
														normali fingono soltanto 
														di essere se stesse 
														(quelle mediocri, 
														credendo alla propria 
														finzione). Tra le parti 
														che Vittorio recitava 
														nella vita la più 
														frequente era quella del 
														vincitore, del primo 
														della classe, del number 
														one. In realtà, era di 
														una inefficienza 
														incomparabile. Non credo 
														che sperperasse i soldi, 
														ma non sapeva dove 
														andavano a finire. Fondò 
														e finanziò generosamente 
														il Teatro Popolare e per 
														portare i suoi 
														spettacoli dappertutto, 
														particolarmente dove non 
														esistevano sale, si fece 
														costruire un enorme 
														tendone che si rivelò 
														inamovibile e così caro 
														da far collassare 
														l'istituzione 
														praticamente 
														dall'inizio. L'uomo che 
														in tanti film incarna il 
														pescecane, l'italiano 
														senza scrupoli che sa 
														come arrangiarsi e fare 
														i quattrini, era 
														incapace di tenere una 
														contabilità elementare. 
														Anche nello sport era 
														così, gli piaceva - e 
														qui era 
														irresistibilmente 
														simpatico - recitare la 
														parte dell'atleta 
														trionfante, molto più 
														che praticare la 
														disciplina con umiltà. 
														Era stato, è vero, 
														nazionale di 
														pallacanestro, ma, come 
														diceva lui stesso, in 
														tempi in cui il basket 
														era poco praticato, e 
														lui era favorito dalla 
														stazza. Negli altri 
														sport in cui l'ho visto 
														cimentarsi si 
														distingueva più per 
														l'entusiasmo e 
														l'inesauribile energia 
														che per altre qualità. 
														Era, infatti, 
														curiosamente se si pensa 
														all'impeccabilità dei 
														suoi gesti sul 
														palcoscenico, abbastanza 
														scoordinato se non 
														addirittura goffo. Nel 
														tennis era trascinato 
														dalla foga e non si 
														controllava. Nel calcio 
														avrebbe forse dovuto 
														giocare in porta - era 
														quello che Gianni Brera 
														definiva un brevilineo 
														alto, ossia col busto in 
														proporzione lungo 
														rispetto alle gambe, 
														come il Buffon portiere 
														dei miei tempi, che 
														arrivava più in su di 
														tutti quando saltava per 
														prendere la palla in 
														arrivo dal corner, ma 
														allo stesso tempo era 
														agile quando si doveva 
														tuffare. Ovviamente 
														invece Vittorio giocava 
														centrattacco, caricando 
														tutti a testa a bassa e 
														esigendo che gli si 
														passasse sempre la 
														palla. Quando girarono 
														II sorpasso a 
														Castiglioncello volle 
														che la troupe sfidasse i 
														villeggianti; ma era 
														fine stagione, io che 
														dovevo organizzare 
														questi ultimi non ne 
														trovai abbastanza, e 
														così schierai un paio di 
														giocatorini locali che 
														fecero la differenza. 
														Dominammo, e sul campo 
														Vittorio non si diede 
														pace, affibbiò 
														addirittura uno 
														scapaccione al ragazzino 
														che lo marcava stretto. 
														Uscendo da sconfitto, 
														volle che si 
														organizzasse subito un 
														piccolo torneo di 
														pingpong allo scopo di 
														vincerlo lui. «Se perdo 
														in una cosa devo almeno 
														rivalermi in un'altra» 
														mi disse, e mi raccontò 
														un episodio che dimostra 
														come avesse lavorato 
														bene su quell'umorismo 
														di cui sopra. Aveva 
														tentato di imparare a 
														sciare, altra specialità 
														per cui non era troppo 
														portato, soprattutto se 
														si pensa alle piste poco 
														battute e agli ostici 
														sci di allora. A 
														Cervinia dopo alcuni 
														tentativi poco 
														incoraggianti aveva 
														deciso di prendere 
														lezioni private dal più 
														famoso maestro di 
														allora, il leggendario 
														Leo Gasperi dai calzoni 
														di gabardine sempre 
														muniti di una piega 
														impeccabile. Il maestro 
														torchiava i neofiti 
														senza pietà, e così lo 
														aveva portato in neve 
														fresca, in una valle 
														dov'erano rimasti soli 
														loro due. «Un calvario» 
														mi disse Vittorio. «Io 
														cadevo ogni due metri, e 
														quello implacabile mi 
														dava racchettate sui 
														ginocchi. "Su, su, 
														riprovare, riprovare". 
														Era frustrante. 
														Fradicio, tutto coperto 
														di neve, lo odiavo, lui 
														sapeva sciare e io no, 
														lui elegante come un dio 
														e io a quattro gambe 
														come un bambino 
														deficiente. Eppure 
														dovevo impormi, dovevo 
														batterlo in qualche 
														cosa. A un certo punto 
														non ci vidi più. Mi 
														rialzai in piedi e mi 
														misi a gridare, mentre 
														quello mi guardava come 
														un pazzo: "Ma chi si 
														crede di essere a 
														trattarmi così? Lei non 
														sa nemmeno parlare 
														l'italiano! Mentre io, 
														io... io so tutto 
														l'Alfieri a memoria!"».
														
