Roberto Rossellini l'ho conosciuto bene solo tardi, negli ultimi anni della sua vita (morì nel 1977; era nato nel 1906) e in circostanze un po' speciali. Prima prima, ai tempi eroici del nuovo cinema italiano, lui non era un frequentatore di casa nostra, e i suoi lavori non mi interessavano, o forse cercavo di non farmeli piacere. Da ragazzi infatti ci si schiera, e io per quanto riguardava il cinema nazionale (che naturalmente nelle mie preferenze arrivava ben dopo quello americano) facevo il tifo per certi registi e solo per quelli, in primo luogo, si capisce, per Visconti. Si doveva infatti parteggiare per qualcuno e denigrare qualcun altro: almeno, così ci comportavamo noi che vivevamo in quell'ambiente. D'altro canto nei tardi anni cinquanta, quando il grande rivale di Visconti era semmai Fellini, Rossellini era già fuori della mischia. I suoi film non avevano più successo, non uscivano quasi, o se uscivano sparivano subito. All'estero quelli con la Bergman avevano deluso, dopo le grandi attese legate allo scandalo. Un mio amico commediografo newyorchese, John Guare, mi ha raccontato quella che per lui fu una delle esperienze più traumatizzanti vissute da bambino. Un pomeriggio fu convocato dalla direttrice della rigida scuola cattolica cui normalmente era affidato per tutta la giornata. In direzione trovò sua madre vestita con insolita eleganza e molto seria, in atto di chiedere alla superiora il permesso di ritirare il figlio in anticipo sull'orario consueto, per gravi motivi di famiglia. Il piccolo John pensò che come minimo fosse morto suo padre. Ma appena fuori dall'edificio, la madre gli disse: «Corri! È uscito Stromboli (lei diceva "Stromboli"), dobbiamo vederlo al primo spettacolo, perché dopo lo sequestreranno di sicuro!» Ecco: io, più grande di John, Stromboli quando uscì non lo degnai nemmeno, avrò certo preferito qualche western; così come snobbai Viaggio in Italia, benché lì direttore della produzione fosse un mio zio. Il quale anni dopo proprio su questo film mi raccontò un aneddoto illuminante su Rossellini e sulla sua favolosa capacità di convincere le persone. Viaggio in Italia fu come ben sanno gli studiosi girato senza nessuna sceneggiatura, sulla base di un progettino che cambiava ogni giorno: metodo che se rischiò di fare impazzire il protagonista, l'inglese George Sanders, diede allo stesso tempo alla sua interpretazione un nervosismo contenuto, una inquietudine sotterranea, eccellenti per il suo personaggio di coniuge in crisi. Dunque era prevista, a Capri, una scena mondana, un salotto, per la quale era stata scritturata una attrice francese. Costei aveva accettato pur di lavorare con Rossellini, ma adesso pretendeva giustamente di studiarsi le sue battute di dialogo, e minacciava di non muoversi da Parigi prima di averle ricevute. Il giorno prima di quello fissato per girare la scena mio zio affrontò il regista. «Se non le mandiamo qualcosa, quella non sale sull'aereo.» Ma Rossellini non aveva né il tempo né la voglia per mettersi a scrivere roba che poi comunque non avrebbe utilizzato. «Le battute non ci sono. Raccontale quello che vuoi.» «Ma che le posso raccontare?» «Be', dille... dille che avrà una gamba ingessata.» «Una gamba ingessata? Solo questo? E perché?» «Non ti preoccupare, dille che avrà una gamba ingessata. Solo questo. Vedrai come si precipita.» Aveva ragione. Da buona professionista, l'attrice capì subito che un particolare strano come una gamba ingessata senza motivo apparente in mezzo a gente vestita da sera in un posto come Capri l'avrebbe messa comunque al centro dell'attenzione. E si precipitò. Molti anni dopo avrei visto quei film - Stromboli, Viaggio in Italia e altri - e fatto ammenda, sono invecchiati molto bene, e Martin Scorsese, da sempre un fanatico di Rossellini, è convincente col rilievo che dà loro nella sua monumentale antologia del cinema italiano. Ouando li apprezzai tuttavia la situazione era cambiata: volevo che mi piacessero. È che a quel punto ero stato esposto anch'io all'irresistibile fascino personale di Rossellini, non a caso soprannominato, molto prima del suo allievo Federico Fellini, l'incantatore di serpenti. Ero entrato nella cerchia di un gruppo di persone che Rossellini aveva deciso di sedurre; è la circostanza insolita di cui parlavo all'inizio. Era successo che a un certo punto dei primi anni settanta Rossellini si era innamorato di mia sorella Silvia, che benché tanto bambina non fosse, era più vecchia di tutti i suoi figli. Roberto, che non mentiva quando affermava di essere sempre stato monogamo (non ammetteva i doppi ménage, al massimo prendeva in considerazione i tradimenti, pronto a affrontare le conseguenze come quando la Magnani gli vuotò in testa una zuppiera di bucatini all'amatriciana), era all'epoca single, e tutti i suoi innumerevoli rampolli erano più o meno autonomi. Silvia era single anche lei, e convalescente di una brutta tubercolosi. Rossellini dava sempre il suo meglio quando c'era da assistere qualcuno: fu impagabile, per esempio, durante la malattia e la morte della predetta Magnani. Si mise al capezzale di Silvia e fu prodigo del suo tempo, delle sue conoscenze mediche, del suo talento per ottenere piccoli privilegi dappertutto. Come i più grandi conversatori, lo stesso si dice di Oscar Wilde, era un grande ascoltatore, genuinamente interessato in quello che poteva raccontargli chiunque avesse avuto davanti. I suoi nemici potrebbero dire che ciò faceva parte della sua strategia di seduttore: ma anche se poi sapeva sfruttarla, la curiosità era genuina. Ascoltando Silvia scoprì dunque quali erano le cose e soprattutto le persone a cui Silvia teneva, e si regolò di conseguenza. Scoprì che Silvia, che era sempre vissuta in casa durante i suoi trentadue anni o giù di lì, stravedeva per i suoi parenti stretti, genitori e fratelli, e anche per un certo numero di amici speciali. Detto fatto, Roberto passò alla conquista metodica di tutti, uno per uno. Mia madre e mio padre li conosceva da sempre, ma nella sua nuova veste di fidanzato della figlia dovette compiere degli sforzi speciali. Con mio padre, che non andava al cinema da vent'anni, la mise sul piano intellettuale e lo impegnò in brillantissime conversazioni fornendogli un raro interlocutore alla sua altezza. Di mia madre scoprì facilmente che il suo principale affetto al momento era un grande labrador bianco. Si improvvisò allora cinofilo: si comprò un cane nero di pari stazza e cominciò a accompagnare mia madre e la sua nipotina prediletta a mostre canine, dove incantava le giurie per far assegnare al labrador qualche coppa. Alle mie figlie cominciò a mandare animaletti strani come topi del deserto che poi scappavano per i tetti di via Ripetta; a mia moglie, immensi fasci di rose. Con me si informava dei miei lavori, leggeva quello che traducevo, faceva domande pertinenti. Prese atto dell'importanza che avevano per noi le nostre estati a Castiglioncello, e cominciò a piombare all'improvviso sulla spiaggia, vestito di tutto punto ma con un bel panama in testa - pilota instancabile, era capace di fare avanti e indietro da Roma due volte nella stessa giornata - e si sintonizzò subito con le scenette di Paolo Panelli e le sciarade di Bice Valori. Quando girò II messia - Silvia a questo punto era diventata sua partner anche nel lavoro - mise gli amici di Castiglioncello in una scena di orgia, alla corte di Erode. Possedeva una energia incredibile, ma era una energia tranquilla, serena. Una sua forza, alla quale Silvia non riuscì mai a abituarsi (per questo, credo, si rifiutò sempre di abitare stabilmente con lui) era il fatto di non dormire quasi mai. Era evidentemente di quegli uomini che raggiungono subito la fase REM del sonno, fisicamente gli bastava staccare la corrente per un'ora. Il resto del tempo era vigile e attivissimo. Durante la sua scioperata giovinezza non aveva studiato né letto libri, ma dopo era diventato una spugna, un autodidatta vorace dalla capacità assimilatoria praticamente illimitata. Più di tutto lo appassionava il problema della trasmissione del sapere, e modernamente esaltava la forza dell'immagine: lo aveva folgoralo la lettura del pedagogista moravo secentesco Comenio, che in una pagina confronta l'impatto diverso che può avere, mettiamo su chi non abbia mai visto un elefante, la descrizione scritta rispetto a un disegno raffigurante la bestia. Tra i primissimi dunque Rossellini capì le possibilità didattiche della Tv, per insegnare non solo la storia («La presa del potere di Luigi XIV»), ma anche tutto il resto. Cominciò a frequentare Houston, per esempio, per sottoporre ai vari De Bakey progetti per filmare le operazioni in modo nuovo e veramente utile per allievi a distanza. Il cinema tradizionale non lo interessava più, ma sapeva riconoscere i talenti, e quando presiedette un Festival di Cannes convinse la giuria a premiare Padre padrone dei fratelli Taviani. Viveva solo, era sobrio - non beveva, mangiava a periodi alterni solo pasta o solo carne non possedeva niente, e spaventava mia madre teorizzando che bisogna indebitarsi e non pagare le tasse. Conservava dei piccoli talismani. Nella cassetta di sicurezza alla banca, lo racconta sua figlia Isabella nel suo delizioso libro autobiografico, fu trovato solo un fazzolettino inzuppato di lacrime di Silvia dopo qualche crisi poi sanata. Faceva regali splendidi ed era invariabilmente gentile.- Era tollerante, oggi con aggettivo di moda si direbbe, leggero; ed era, inutile dirlo, simpaticissimo. Era anche, cosa che dai suoi film forse si potrebbe non sospettare, molto spiritoso. L'ultima volta che lo vidi fu al funerale di Giuditta Bissone, sui gradini di San Bellarmino, a piazza Ungheria; abitava un'unica grande stanza piena di libri, in un residence poco lontano. Riciclando una famosa battuta di Tristan Bernard, mi disse: «Credo sia l'ultima volta che vengo a una cerimonia così da dilettante.» Infatti morì una settimana dopo, senza alcun preavviso, come certo avrebbe voluto; del resto immaginarlo vecchio o incapacitato, dipendente dagli altri, sarebbe stato impossibile.