Gli ospiti di Castiglioncello  Cronache


Da "La Stampa" del 4-04-1943 di  Giulio Caprìn

 Un giorno con Renato Fucini
 

Lo avevo incontrato diverse volte a Firenze, alla « Leonardo », dove allora, un po' prima dell'altra guerra, s'incontravano, soci o invitati, uomini in vista della letteratura e dell'arte italiana e insigni professori e patrizi colti: di passaggio anche celebrità straniere. Il Fucini era socio ed era un diletto per i consoci discorrerci, starlo a sentire così ameno e arguto. Forse dentro di sé era un po' seccato della parte di umorista sempre in funzione che tacitamente gl'imponevano ammiratori e ammiratrici. Ma egli era un uomo socievole e, con quel suo fare modesto di campagnolo, a posto nelle più difficili compagnie. Se nell'arte del Fucini parla il popolo e il popolino, la sua frequentazione è stata anche con persone dell'aristocrazia: in Toscana i due ceti sono forse, meno discosti che altrove nel modo di fare e di parlare. Universale era la sua popolarità di scrittore senza sussiego letterario: era la celebrità di un uomo che aveva anche stampato dei libri, ma prima di tutto era lui, il simpatico Fucini estroso e scherzoso. Scherzava anche con le melanconie. Allora una sua melanconia era di aver compiuto i settanta anni. Diceva: Quando uno ha finiti i quattrini vuol dire che non ne ha più punti. Io ho finiti i settant'anni e ce li ho tutti. Oggi ne avrebbe cento. Si vorrebbe dire che ne ha cento. Perché, scomparso ormai da più di venti anni, a chi lo ha conosciuto di persona vien fatto di pensarlo sempre vivo; come se potessimo andare a ritrovarlo a Dianella o a Castiglioncello, ombra faceta sorridente anche sul suo centenario. Ai gratulanti potrebbe rispondere recitando quel suo scanzonato sonetto nel quale un popolano di Pisa cerca di spiegare a un altro in che consiste questa specie di festa che non si trova nel calendario, ma la inventa qualche oscuro vivo per far bella figura alle spalle di un illustre defunto: «Cerca d'un omo morto s'e preclario, fa la festa», e finisce col buscarsi - cosi succedeva ai tempi di Neri Tanfucio tra il 1870 e l'ottanta - l'agognatissima croce di cavaliere. Ma siccome Torello non ha ancora ben capito, Pergente glielo spiega con un paragone: «Tu muori oggi d'un corpo in der cervello: di qui a cent'anni non ti fanno niente; er centenario tuo sarebbe quello». Anche sulle onoranze centenarie il Fucini rideva, ma d'essere rammentato il giorno in cui compirebbe il secolo, credo che gli farebbe piacere.
A Empoli un giorno lo ho visto più da vicino, nella sua semplicità domestica e capii come poteva essere, tutti i giorni, simpatico. Nella biografia e nel paesaggio fuciniano Empoli è, con la Maremma, con Livorno, Pisa, Firenze e Castiglioncello, uno dei punti essenziali. A poca distanza dal possesso di Dianella, ch'è sui colli di Vinci, Empoli è la cittadina dov'egli aveva fatto, alla meglio, le sue scuole medie in un tempo di ristrettezze per la sua famiglia, vita spartana di scolaro povero, come egli ha raccontato in
«Acqua passata». Risalito con gli anni, e con la sottile pazienza di misuratissimo toscano, ad agiatezza, a Empoli possedeva una casa di suo: un villino senza grandi pretese né di comodi né di gusto. Invecchiando c'era andato a stare, lasciata Firenze, città di spesa superflua. Empoli bastava anche ai suoi bisogni di conversazione: c'erano, per la compagnia, anche persone di buona cultura. L'amico che quel giorno mi accompagnava era, come il Fucini, un proprietario che con il tempo e la economia aveva messo in valore un suo possesso, ma scriveva anche versi di buona fattura. E poi il Fucini si trovava bene con tutti. La sua mensa era cordiale e gustosa, cucinata con i prodotti genuini di Dianella, e il vino dei colli di Vinci è dei vini toscani più rispettabili. Il padrone di essa era un vecchio rubizzo, senza alcuna stanchezza di vecchiaia: tutti i capelli ancora a posto, la barbetta brizzolata, gli occhi acuti dietro le lenti, benignamente maliziosi. Era un tipo di cacciatore — come tutti i veri cacciatori, il Fucini voleva bene alle bestie — ma con una sua particolare gentilezza. Con simile semplicità di aspetto e di modi era stato artista il suo amico Giovanni Fattori. Dopo desinare venne fuori l'artista Fucini. Si passò nella sua stanza di lavoro che, se non era lo «studianaio» di Dianella, cosi detto perché ricavato da un granaio, gli assomigliava per la confusione dei mobili e cose eterogenee. Appesi ai muri, appoggiati per terra, erano quadri e quadretti, fra i quali parecchie tavolette del Fattori, di quelle che poi sono salite a prezzi allora strabilianti. Erano senza cornici ma — si scusava il Fucini — quello che si ammira è la cornice o il dipinto? Rammentava come aveva avute dal suo caro Gianni quelle tavolette, anche per nulla o per qualche decina di lire, quando a Gianni facevano comodo anche dieci lire. Rievocando l'amico, una lacrima gli spuntò fra le grinze dell'occhio e non era pianto di debolezza senile. Il Fucini non era un sensitivo, ma un sensibile sì. Gli si chiese perché da un pezzo non scriveva più nulla. Non so se la domanda gli facesse molto piacere. Dopo le «Veglie dì Neri» e «All'aria aperta », il Fucini era rimasto intimidito dal success : temeva di far cose che fossero giudicate inferiori a quelle che avevano avuto tanta fortuna: sinceramente era stupito di averne avuta tanta per cose venutegli facili, alle quali non aveva dato importanza. In realtà glie la dava perché in lui, con l'ispirazione facile, c'era anche la consapevolezza di un artista attentissimo. Scrisse poco anche perché l'idea che uno potesse fare dello scrivere una professione, come il suo amico De Amicis, gli pareva un'idea buffa. C'era in lui anche un po' dell'indolenza propria di certi belli ingegni toscani, l'indolenza che egli stesso aveva rimproverata, per esempio, a Gian Battista Giorgini: non neghittosità, ma la persuasione tipica di uomini intelligentissimi che, supponendo anche gli altri intelligenti, pensavano non valesse la pena di mettere in carta cose di cui tutti sono capaci. Cosi il Giorgini e, prima di lui, il Salvagnoli avevano consumato in privato, conversando e vivendo, intelligenze stupende. Anche per il Fucini la cosa importante è stata non la letteratura ma la vita. Chi ricomponesse la sua biografia di uomo senza ambizioni apparenti, spettatore più che attore nello spettacolo del mondo, ma indipendente e consolata da sane distrazioni e molta umana simpatia, scriverebbe la biografia di un uomo sostanzialmente felice. E poi, se da un pezzo non stampava più, sotto sotto scriveva. Allora buttava giù, a pezzi e bocconi, le sue memorie. Guido Biagi, che da lui sapeva di non poter ottenere di più, lo esortava a scrivere per episodi, come gli ritornavano i ricordi. E quel giorno a Empoli, il Fucini evocò casi e persone che poi si sono letti nelle pagine postume di «Acqua passata» e «Foglie al vento»: raccontava di gusto ed era un gran gusto ascoltarlo. Rievocò anche la sua vita di...navigatore. Si trattava delle crociere sul mar di Toscana fatte sul veliero del marchese Carlo Ginori, quando questo suo amico era proprietario dell'isola di Montecristo, poi ceduta al Re. A comandare il veliero pare ci fosse un capitano piuttosto timido del mare in burrasca. A sollazzo della compagnia imbarcata il Fucini aveva scritto una sequenza di epigrammi marinareschi i quali, dai diversi oroscopi del tempo, ricadevano tutti alla conclusione che la miglior navigazione è quella che rimane in porto. Ne rammento l'ultimo emistichio: «se vuoi esser buon nocchiere volgi al mar sempre il sedere». Sorrideva, rileggendoli, il Fucini e sorrideva raccontandoci aneddoti delle sue giornate di pescatore a Castiglioncello. Nella casetta che ci abitava d'estate, la Cuccetta, aveva messo su nientemeno che un museo antidiluviano: raccattando sulla riva pezzi di legno lavorati in forme strane dal mare, li aveva disposti come fossero relitti fossili di animali misteriosi e sotto ognuno ci metteva un nome bizzarro. C'era anche una vena infantile nell'indole del Fucini, uomo saggio e anche accorto, e la capacità di divertirsi con tutto, come i ragazzi. Per divertimento una volta era stato anche autore teatrale. Fu in una di quelle villeggiature autunnali che, ai suoi tempi, radunavano ospiti numerosi in qualche grande villa patrizia ospitale. Si facevano belle passeggiate in compagnia, si cacciava; venne voglia, a quei signori e a quelle signore, anche di recitare qualche cosa, ma che si potesse recitarla senza la fatica d'imparare a mente le parti. Per gli amici di villeggiatura il Fucini inventò «Il ritorno dalle bagnature» atto, anzi scena unica, che aveva questo di particolare, che le parti non avevano bisogno di essere studiate. La scena rappresentava la stanza d'ingresso, vuota, di un appartamento i cui padroni erano andati ai bagni. In quel momento la famiglia ritornava a casa, ma mentre stavano per infilare la chiave nell'uscio non riuscivano a trovarla. Vane ricerche nei bauli, alterchi tra marito e moglie, rimproveri alla serva, strilli e incomodi vari dei bambini: tutto questo si svolgeva fuori dagli occhi degli spettatori, al di là della porta chiusa. Le parti potevano essere comodamente lette dagli interpreti invisibili al pubblico. Quando finalmente, chiamato, non senza peripezie, perché era di domenica, un fabbro, la porta chiusa potè essere aperta, e la famiglia, con un oh! di soddisfazione, entrò in scena, il sipario calò davanti agli spettatori divertiti e corbellati. Quanto del suo tempo e del suo estro il Fucini ha dato, in vita sua, alla burletta? Lo ha dato, non lo ha perduto. Anche quello era un modo di essere artista, alla toscana, facendo dell'arte e della vita una cosa sola vissuta insieme. Vita e arte di un tempo riposato, in provincia, in campagna, caute e amene, ma tutte fresche e genuine. Sul tramonto, quel giorno, il Fucini ricontemplava con piacere eguale la sua ormai lunga giornata. E mi parve un buon savio, quando sorrideva con noi al suo passato e quando una lacrima gli spuntava nell'occhio ripensando a un caro amico partito. Perché nella leggiadra malizia del Fucini c'era anche una contenuta sensibilità. La mia arte, diceva, è stata un romanticismo verista.

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