Lo
avevo
incontrato
diverse
volte
a
Firenze,
alla
«
Leonardo
»,
dove
allora,
un
po'
prima
dell'altra
guerra,
s'incontravano,
soci
o
invitati,
uomini
in
vista
della
letteratura
e
dell'arte
italiana
e
insigni
professori
e
patrizi
colti:
di
passaggio
anche
celebrità
straniere.
Il
Fucini
era
socio
ed
era
un
diletto
per
i
consoci
discorrerci,
starlo
a
sentire
così
ameno
e
arguto.
Forse
dentro
di
sé
era
un
po'
seccato
della
parte
di
umorista
sempre
in
funzione
che
tacitamente
gl'imponevano
ammiratori
e
ammiratrici.
Ma
egli
era
un
uomo
socievole
e,
con
quel
suo
fare
modesto
di
campagnolo,
a
posto
nelle
più
difficili
compagnie.
Se
nell'arte
del
Fucini
parla
il
popolo
e il
popolino,
la
sua
frequentazione
è
stata
anche
con
persone
dell'aristocrazia:
in
Toscana
i
due
ceti
sono
forse,
meno
discosti
che
altrove
nel
modo
di
fare
e di
parlare.
Universale
era
la
sua
popolarità
di
scrittore
senza
sussiego
letterario:
era
la
celebrità
di
un
uomo
che
aveva
anche
stampato
dei
libri,
ma
prima
di
tutto
era
lui,
il
simpatico
Fucini
estroso
e
scherzoso.
Scherzava
anche
con
le
melanconie.
Allora
una
sua
melanconia
era
di
aver
compiuto
i
settanta
anni.
Diceva:
Quando
uno
ha
finiti
i
quattrini
vuol
dire
che
non
ne
ha
più
punti.
Io
ho
finiti
i
settant'anni
e ce
li
ho
tutti.
Oggi
ne
avrebbe
cento.
Si
vorrebbe
dire
che
ne
ha
cento.
Perché,
scomparso
ormai
da
più
di
venti
anni,
a
chi
lo
ha
conosciuto
di
persona
vien
fatto
di
pensarlo
sempre
vivo;
come
se
potessimo
andare
a
ritrovarlo
a
Dianella
o a
Castiglioncello,
ombra
faceta
sorridente
anche
sul
suo
centenario.
Ai
gratulanti
potrebbe
rispondere
recitando
quel
suo
scanzonato
sonetto
nel
quale
un
popolano
di
Pisa
cerca
di
spiegare
a un
altro
in
che
consiste
questa
specie
di
festa
che
non
si
trova
nel
calendario,
ma
la
inventa
qualche
oscuro
vivo
per
far
bella
figura
alle
spalle
di
un
illustre
defunto:
«Cerca
d'un
omo
morto
s'e
preclario,
fa
la
festa»,
e
finisce
col
buscarsi
-
cosi
succedeva
ai
tempi
di
Neri
Tanfucio
tra
il
1870
e
l'ottanta
-
l'agognatissima
croce
di
cavaliere.
Ma
siccome
Torello
non
ha
ancora
ben
capito,
Pergente
glielo
spiega
con
un
paragone:
«Tu
muori
oggi
d'un
corpo
in
der
cervello:
di
qui
a
cent'anni
non
ti
fanno
niente;
er
centenario
tuo
sarebbe
quello».
Anche
sulle
onoranze
centenarie
il
Fucini
rideva,
ma
d'essere
rammentato
il
giorno
in
cui
compirebbe
il
secolo,
credo
che
gli
farebbe
piacere.
A
Empoli
un
giorno
lo
ho
visto
più
da
vicino,
nella
sua
semplicità
domestica
e
capii
come
poteva
essere,
tutti
i
giorni,
simpatico.
Nella
biografia
e
nel
paesaggio
fuciniano
Empoli
è,
con
la
Maremma,
con
Livorno,
Pisa,
Firenze
e
Castiglioncello,
uno
dei
punti
essenziali.
A
poca
distanza
dal
possesso
di
Dianella,
ch'è
sui
colli
di
Vinci,
Empoli
è la
cittadina
dov'egli
aveva
fatto,
alla
meglio,
le
sue
scuole
medie
in
un
tempo
di
ristrettezze
per
la
sua
famiglia,
vita
spartana
di
scolaro
povero,
come
egli
ha
raccontato
in
«Acqua
passata».
Risalito
con
gli
anni,
e
con
la
sottile
pazienza
di
misuratissimo
toscano,
ad
agiatezza,
a
Empoli
possedeva
una
casa
di
suo:
un
villino
senza
grandi
pretese
né
di
comodi
né
di
gusto.
Invecchiando
c'era
andato
a
stare,
lasciata
Firenze,
città
di
spesa
superflua.
Empoli
bastava
anche
ai
suoi
bisogni
di
conversazione:
c'erano,
per
la
compagnia,
anche
persone
di
buona
cultura.
L'amico
che
quel
giorno
mi
accompagnava
era,
come
il
Fucini,
un
proprietario
che
con
il
tempo
e la
economia
aveva
messo
in
valore
un
suo
possesso,
ma
scriveva
anche
versi
di
buona
fattura.
E
poi
il
Fucini
si
trovava
bene
con
tutti.
La
sua
mensa
era
cordiale
e
gustosa,
cucinata
con
i
prodotti
genuini
di
Dianella,
e il
vino
dei
colli
di
Vinci
è
dei
vini
toscani
più
rispettabili.
Il
padrone
di
essa
era
un
vecchio
rubizzo,
senza
alcuna
stanchezza
di
vecchiaia:
tutti
i
capelli
ancora
a
posto,
la
barbetta
brizzolata,
gli
occhi
acuti
dietro
le
lenti,
benignamente
maliziosi.
Era
un
tipo
di
cacciatore
—
come
tutti
i
veri
cacciatori,
il
Fucini
voleva
bene
alle
bestie
— ma
con
una
sua
particolare
gentilezza.
Con
simile
semplicità
di
aspetto
e di
modi
era
stato
artista
il
suo
amico
Giovanni
Fattori.
Dopo
desinare
venne
fuori
l'artista
Fucini.
Si
passò
nella
sua
stanza
di
lavoro
che,
se
non
era
lo
«studianaio»
di
Dianella,
cosi
detto
perché
ricavato
da
un
granaio,
gli
assomigliava
per
la
confusione
dei
mobili
e
cose
eterogenee.
Appesi
ai
muri,
appoggiati
per
terra,
erano
quadri
e
quadretti,
fra
i
quali
parecchie
tavolette
del
Fattori,
di
quelle
che
poi
sono
salite
a
prezzi
allora
strabilianti.
Erano
senza
cornici
ma —
si
scusava
il
Fucini
—
quello
che
si
ammira
è la
cornice
o il
dipinto?
Rammentava
come
aveva
avute
dal
suo
caro
Gianni
quelle
tavolette,
anche
per
nulla
o
per
qualche
decina
di
lire,
quando
a
Gianni
facevano
comodo
anche
dieci
lire.
Rievocando
l'amico,
una
lacrima
gli
spuntò
fra
le
grinze
dell'occhio
e
non
era
pianto
di
debolezza
senile.
Il
Fucini
non
era
un
sensitivo,
ma
un
sensibile
sì.
Gli
si
chiese
perché
da
un
pezzo
non
scriveva
più
nulla.
Non
so
se
la
domanda
gli
facesse
molto
piacere.
Dopo
le
«Veglie
dì
Neri»
e
«All'aria
aperta
»,
il
Fucini
era
rimasto
intimidito
dal
success
:
temeva
di
far
cose
che
fossero
giudicate
inferiori
a
quelle
che
avevano
avuto
tanta
fortuna:
sinceramente
era
stupito
di
averne
avuta
tanta
per
cose
venutegli
facili,
alle
quali
non
aveva
dato
importanza.
In
realtà
glie
la
dava
perché
in
lui,
con
l'ispirazione
facile,
c'era
anche
la
consapevolezza
di
un
artista
attentissimo.
Scrisse
poco
anche
perché
l'idea
che
uno
potesse
fare
dello
scrivere
una
professione,
come
il
suo
amico
De
Amicis,
gli
pareva
un'idea
buffa.
C'era
in
lui
anche
un
po'
dell'indolenza
propria
di
certi
belli
ingegni
toscani,
l'indolenza
che
egli
stesso
aveva
rimproverata,
per
esempio,
a
Gian
Battista
Giorgini:
non
neghittosità,
ma
la
persuasione
tipica
di
uomini
intelligentissimi
che,
supponendo
anche
gli
altri
intelligenti,
pensavano
non
valesse
la
pena
di
mettere
in
carta
cose
di
cui
tutti
sono
capaci.
Cosi
il
Giorgini
e,
prima
di
lui,
il
Salvagnoli
avevano
consumato
in
privato,
conversando
e
vivendo,
intelligenze
stupende.
Anche
per
il
Fucini
la
cosa
importante
è
stata
non
la
letteratura
ma
la
vita.
Chi
ricomponesse
la
sua
biografia
di
uomo
senza
ambizioni
apparenti,
spettatore
più
che
attore
nello
spettacolo
del
mondo,
ma
indipendente
e
consolata
da
sane
distrazioni
e
molta
umana
simpatia,
scriverebbe
la
biografia
di
un
uomo
sostanzialmente
felice.
E
poi,
se
da
un
pezzo
non
stampava
più,
sotto
sotto
scriveva.
Allora
buttava
giù,
a
pezzi
e
bocconi,
le
sue
memorie.
Guido
Biagi,
che
da
lui
sapeva
di
non
poter
ottenere
di
più,
lo
esortava
a
scrivere
per
episodi,
come
gli
ritornavano
i
ricordi.
E
quel
giorno
a
Empoli,
il
Fucini
evocò
casi
e
persone
che
poi
si
sono
letti
nelle
pagine
postume
di
«Acqua
passata»
e
«Foglie
al
vento»:
raccontava
di
gusto
ed
era
un
gran
gusto
ascoltarlo.
Rievocò
anche
la
sua
vita
di...navigatore.
Si
trattava
delle
crociere
sul
mar
di
Toscana
fatte
sul
veliero
del
marchese
Carlo
Ginori,
quando
questo
suo
amico
era
proprietario
dell'isola
di
Montecristo,
poi
ceduta
al
Re.
A
comandare
il
veliero
pare
ci
fosse
un
capitano
piuttosto
timido
del
mare
in
burrasca.
A
sollazzo
della
compagnia
imbarcata
il
Fucini
aveva
scritto
una
sequenza
di
epigrammi
marinareschi
i
quali,
dai
diversi
oroscopi
del
tempo,
ricadevano
tutti
alla
conclusione
che
la
miglior
navigazione
è
quella
che
rimane
in
porto.
Ne
rammento
l'ultimo
emistichio:
«se
vuoi
esser
buon
nocchiere
volgi
al
mar
sempre
il
sedere».
Sorrideva,
rileggendoli,
il
Fucini
e
sorrideva
raccontandoci
aneddoti
delle
sue
giornate
di
pescatore
a
Castiglioncello.
Nella
casetta
che
ci
abitava
d'estate,
la
Cuccetta,
aveva
messo
su
nientemeno
che
un
museo
antidiluviano:
raccattando
sulla
riva
pezzi
di
legno
lavorati
in
forme
strane
dal
mare,
li
aveva
disposti
come
fossero
relitti
fossili
di
animali
misteriosi
e
sotto
ognuno
ci
metteva
un
nome
bizzarro.
C'era
anche
una
vena
infantile
nell'indole
del
Fucini,
uomo
saggio
e
anche
accorto,
e la
capacità
di
divertirsi
con
tutto,
come
i
ragazzi.
Per
divertimento
una
volta
era
stato
anche
autore
teatrale.
Fu
in
una
di
quelle
villeggiature
autunnali
che,
ai
suoi
tempi,
radunavano
ospiti
numerosi
in
qualche
grande
villa
patrizia
ospitale.
Si
facevano
belle
passeggiate
in
compagnia,
si
cacciava;
venne
voglia,
a
quei
signori
e a
quelle
signore,
anche
di
recitare
qualche
cosa,
ma
che
si
potesse
recitarla
senza
la
fatica
d'imparare
a
mente
le
parti.
Per
gli
amici
di
villeggiatura
il
Fucini
inventò
«Il
ritorno
dalle
bagnature»
atto,
anzi
scena
unica,
che
aveva
questo
di
particolare,
che
le
parti
non
avevano
bisogno
di
essere
studiate.
La
scena
rappresentava
la
stanza
d'ingresso,
vuota,
di
un
appartamento
i
cui
padroni
erano
andati
ai
bagni.
In
quel
momento
la
famiglia
ritornava
a
casa,
ma
mentre
stavano
per
infilare
la
chiave
nell'uscio
non
riuscivano
a
trovarla.
Vane
ricerche
nei
bauli,
alterchi
tra
marito
e
moglie,
rimproveri
alla
serva,
strilli
e
incomodi
vari
dei
bambini:
tutto
questo
si
svolgeva
fuori
dagli
occhi
degli
spettatori,
al
di
là
della
porta
chiusa.
Le
parti
potevano
essere
comodamente
lette
dagli
interpreti
invisibili
al
pubblico.
Quando
finalmente,
chiamato,
non
senza
peripezie,
perché
era
di
domenica,
un
fabbro,
la
porta
chiusa
potè
essere
aperta,
e la
famiglia,
con
un
oh!
di
soddisfazione,
entrò
in
scena,
il
sipario
calò
davanti
agli
spettatori
divertiti
e
corbellati.
Quanto
del
suo
tempo
e
del
suo
estro
il
Fucini
ha
dato,
in
vita
sua,
alla
burletta?
Lo
ha
dato,
non
lo
ha
perduto.
Anche
quello
era
un
modo
di
essere
artista,
alla
toscana,
facendo
dell'arte
e
della
vita
una
cosa
sola
vissuta
insieme.
Vita
e
arte
di
un
tempo
riposato,
in
provincia,
in
campagna,
caute
e
amene,
ma
tutte
fresche
e
genuine.
Sul
tramonto,
quel
giorno,
il
Fucini
ricontemplava
con
piacere
eguale
la
sua
ormai
lunga
giornata.
E mi
parve
un
buon
savio,
quando
sorrideva
con
noi
al
suo
passato
e
quando
una
lacrima
gli
spuntava
nell'occhio
ripensando
a un
caro
amico
partito.
Perché
nella
leggiadra
malizia
del
Fucini
c'era
anche
una
contenuta
sensibilità.
La
mia
arte,
diceva,
è
stata
un
romanticismo
verista.